Un’alternativa etica e pulita per fare la spesa esiste e, sebbene rappresenti ancora una pratica marginale in Italia, si sta facendo strada tra l’opinione pubblica. E molto del merito va riconosciuto alle associazioni e alle realtà che si battono direttamente dai territori dove il sistema del caporalato coinvolge più braccianti in condizioni di vita più gravi. Gli stessi luoghi dove ci sono stati anche morti nei campi o sulla strada verso il “lavoro”. E proprio da una delle proteste che ha segnato il territorio pugliese, quella di Nardò del 2011, è emersa una voce, quella del camerunense Yvan Sagnet, che è diventato portavoce di esigenze collettive trasformate, nel 2017, in un’associazione No Cap che rappresenta una vera e propria rete internazionale, con la consapevolezza che il caporalato altro non è che un’espressione della negazione dei diritti e una forma di sfruttamento che, a livello globale, produce schiavitù.
Yvan Sagnet: dalle campagne di Nardò a una rete internazionale
Nel 2007, Yvan Sagnet si è messo in viaggio verso l’Italia dal Camerun per studiare, grazie ad una borsa di studio vinta al Politecnico di Torino. La scelta del Belpaese non era casuale: dopo averlo scoperto seguendo la nazionale camerunense durante i mondiali di Italia ‘90, aveva studiato la lingua, la cultura, la storia. L’incontro-scontro con il mondo del caporalato avviene più tardi quando, conclusosi il periodo della borsa di studio, inizia a cercare un lavoro per potersi mantenere, un percorso che lo conduce fino a Nardò, in Puglia, nei campi di pomodoro dove non manca mai l’esigenza di manodopera, ma non sempre alla luce della legalità.
È così che la storia di Yvan Sagnet si incrocia con il caporalato: insieme ad altri braccianti, nel 2011, organizza un primo grande sciopero contro lo sfruttamento e per i diritti dei lavoratori. Da lì ha preso avvio una importante inchiesta che ha portato al processo SABR, che prende il nome dal tunisino Saber Ben Mahmoud Jelassi, considerato uno dei principali caporali della zona, ma non soltanto. Anche l’iter che ha portato all’approvazione della prima legge sul caporalato (Legge n. 148/2011) e alla nuova legge del 2016, è debitore alle proteste di Nardò.
La dimensione legislativa e giudiziaria, però, non è sufficiente. Colpire i caporali è parte fondamentale della lotta contro il fenomeno, ma esiste anche una battaglia culturale per far sì che si inneschi un cambiamento nella visione e nelle abitudini dei consumatori. Così, anno dopo anno, la rete No Cap cresce, focalizza i suoi obiettivi e nel, 2017, si trasforma in una vera e propria associazione che fornisce strumenti a chi ancora viene sfruttato, ma anche al consumatore, per compiere scelte più rispettose e consapevoli.
Bollino etico: la prima passata di pomodoro certificata No Cap
È così che è nata l’esigenza di esercitare un controllo sui prodotti del territorio al fine di attribuire un bollino etico, una forma di certificazione per un prodotto 100% pulito. E, lo scorso ottobre, è stata anche presentata la prima salsa di pomodoro con il bollino No Cap. Una passata “etica ed energetica” che ha coinvolto diversi attori che, in piena trasparenza, hanno aperto le loro porte agli esperti dell’associazione No Cap per mostrare il viaggio del pomodoro dal campo alla tavola. C’è, infatti, il Centro di Documentazione Associazione Michele Mancini che è l’effettivo produttore delle passate e che si è fatto carico dell’assunzione regolare dei braccianti agricoli; l’associazione Arci Basilicata che ha accolto nelle sue strutture i lavoratori in condizioni abitative dignitose; l’azienda agricola “Giuseppe Vignola” che è proprietaria del campo di pomodori e l’azienda “Biologica Vignola” che ha curato la trasformazione e l’imbottigliamento del prodotto.
È la prima certificazione rilasciata dall’associazione No Cap, ma come sottolineato da Sagnet, si tratta di un progetto pilota che porterà, nei prossimi anni, ad allargare il raggio d’azione e coinvolgerà sempre più aziende per fornire al consumatore un prodotto etico. Infatti per ottenere il bollino etico è necessario soddisfare sei requisiti fissati, in maniera trasparente, da No Cap:
- etica nei rapporti di lavoro;
- decarbonizzazione del processo produttivo;
- rispetto di una filiera virtuosa e trasparente;
- rifiuti zero e promozione di un’economia circolare;
- riconoscimento del valore aggiunto sui prodotti;
- trattamento etico degli animali.
Questi punti si ritrovano anche sull’etichetta No Cap che, in linea con quanto promosso da tutte le realtà che si battono per un commercio più equo e trasparente, da Sfrutta Zero a Funky Tomato, evidenzia in maniera esplicita come si compone il prezzo della passata e mostra un QR code per l’approfondimento a portata di mano.
Sul sito dell’associazione è invece possibile scoprire come l’azienda risponde ai vari criteri di valutazione, punto per punto, nell’ottica di una piena trasparenza e a dimostrazione del fatto che, seppur dispendioso in termini di tempo e non soltanto, un modo per garantire l’eticità della filiera esiste.
Un’applicazione per denunciare i caporali
I dati dei più recenti report sul caporalato, tuttavia, evidenziano come le esperienze virtuose non siano (ancora) diffuse al punto da prevalere su un sistema di sfruttamento profondamente radicato su tutto il territorio nazionale. Per questo c’è ancora molto da fare e lo sforzo compiuto da No Cap ha portato alla creazione di un’applicazione per smartphone, nata per assicurare dignità e diritti a tutti, con un occhio di riguardo a donne e bambini.
Con l’App No Cap, si può denunciare in maniera diretta oppure informale, “qualsiasi tipo di azione illegale relativa allo sfruttamento nel settore agricolo in Italia”. Non si tratta di uno strumento fornito solo ai braccianti, ma anche ai semplici cittadini che possono segnalare in sicurezza situazioni al limite della legalità. La ratio è quella di creare, anche tramite un uso sociale dei social network, una rete che faciliti il contatto tra chiunque abbia esperienza, diretta o indiretta, del caporalato e chi può concretamente fare qualcosa per tutelare gli sfruttati. “Lo scopo – secondo quanto riportato dai creatori – è quello di fornire a Polizia, Magistratura, enti locali, regioni, province e comuni la vera situazione ed intervenire, pensata per conoscere più a fondo il territorio ed i suoi caporali e migliorare la qualità degli interventi e liberare il lavoro e i lavoratori dallo sfruttamento.”
Così, dal coraggio e dall’intraprendenza di Yvan Sagnet, trovatosi quasi per caso nelle maglie del caporalato, è nata una rete virtuosa che, già con i suoi primi passi, sta realizzando un’alternativa concreta allo sfruttamento.
Conoscevate la storia dell’associazione No Cap?