L’Italia più di qualsiasi altro paese ad antica tradizione vitivinicola, vanta un patrimonio viticolo particolarmente ampio, costituito da tantissimi vitigni, molti dei quali del tutto scomparsi, ma molti – anche se in piccole percentuali – ancora presenti nei vigneti di tutta la penisola.
I vitigni internazionali
Tuttavia, a livello mondiale (e l’Italia non è rimasta immune da questa tendenza), la produzione di vino – rispetto a 50/100 anni fa – è stata eseguita mediante l’utilizzo di pochissime varietà di uva. I vigneti di tutto il mondo, infatti, e soprattutto quelli dei paesi che più recentemente si sono affacciati alla viticoltura (California, Australia, Argentina, Sud Africa, Cile) sono praticamente piantumati con poche varietà di uve da vino, quali lo Chardonnay, il Cabernet Sauvignon, il Merlote pochi altri: i cosiddetti vitigni internazionali, tutti selezionati in Francia.
La diffusione di questi vitigni internazionali è dovuta, oltre alla loro eccellente qualità, alla loro grande adattabilità a tutti gli ambienti in cui è possibile coltivare la vite, anche se molto diversi da quello in cui essi sono stati selezionati. Sono quindi vitigni di facile coltivazione e di ottima resa produttiva rispetto ai vitigni autoctoni che – invece – sono fortemente dipendenti dal loro ambiente d’origine e che, se trapiantati in altre zone, non hanno risposto alle esigenze qualitative e produttive con la consequenziale perdita di interesse nei loro confronti da parte dei produttori.
Questa tendenza sta, di fatto, provocando la scomparsa di molte ed antiche varietà di vitigni autoctoni e la perdita di antiche varietà d’uva legate ed adattate ad un ben determinato territorio, di cui erano e sono parte integrante, e che, se adeguatamente coltivati e vinificati, danno vini caratterizzati da una spiccata tipicità.
Non solo: la sostituzione dei vitigni autoctoni con i vitigni internazionali (i cui pregi, lo si ribadisce, non possono essere disconosciuti) e la loro massiccia diffusione sta provocando un certo «appiattimento» del gusto dei consumatori medi (che sono portati a gradire di più vini prodotti con i vitigni internazionali rispetto a quelli prodotti con i vitigni autoctoni), ed una certa «uniformità» delle produzioni vinicole che risultano simili anche se provenienti da zone lontanissime tra loro.
In Italia il maggior numero di vitigni autoctoni
L’Italia, che in generale conta il maggior numero di vitigni autoctoni a livello mondiale, ed il Sud in particolare, può trovare un’opportunità produttiva nella rivalutazione e nella riscoperta degli antichi vitigni autoctoni, scongiurandone in tal modo la scomparsa. Ciò è già avvenuto, in Sicilia, con il Nero d’Avola, e sta avvenendo con i vitigni autoctoni dell’Etna, anch’essi antichi e qualitativamente molto validi. Mi riferisco chiaramente al Nerello Mascalese, al Nerello Cappuccio o Mantellato, al Carricante ed al Mannella (1).
I Vitigni Autoctoni dell’Etna
Il Nerello Mascalese
Le viti che da sempre si coltivano alle pendici dell’Etna, fino ad un’altezza di 1000-1200 metri sul livello del mare, appartengono alla varietà «Nerello», di cui il Nerello Mascalese ed il Nerello Cappuccio o Mantellato sono sottovarietà. Il «Nerello Mascalese» è il principale vitigno autoctono delle pendici dell’Etna. La sua nascita si perde nella notte dei tempi, ma la sua presenza nella piana del comune di Mascali risale ad almeno quattro secoli fa, ed a questa cittadina alle falde dell’Etna deve il suo nome che in siciliano viene indicato come «Niuriddu Mascalisi» o semplicemente «Niuriddu».
È il vitigno di gran lunga più diffuso nella provincia di Catania. Originariamente e fino agli anni ‘50 questo vitigno veniva coltivato nelle province di Messina e di Catania, mentre negli anni ’80 si è registrata una sua diffusione in tutta la Sicilia, diventando la seconda varietà più piantata (dopo il Nero d’Avola). La notevole vigoria di questa varietà dipende dall’antichissimo allevamento ad alberello fra i 350 e i 1000-1200 metri s.l.m., con una densità d’impianto di 6000/9000 ceppi per ettaro che danno uve di ottima qualità con una resa di 60/70 quintali per ettaro.
La resa produttiva, tuttavia, è fortemente condizionata dal versante dell’Etna in cui le viti sono coltivate, dal sistema di allevamento, dalla densità dell’impianto e dalle pratiche colturali impiegate. La resa delle piante, infatti, è inversamente proporzionale alle qualità organolettiche ed alla concentrazione degli acini e si alza utilizzando, nell’ordine, l’allevamento ad alberello, a controspalliera e a tendone. In proposito va detto che da qualche anno a questa parte il tradizionale sistema di allevamento ad alberello è stato via via sostituito dal sistema a controspalliera. Ciò in dipendenza del fatto che il sistema ad alberello era difficilmente meccanizzabile, sicché il costo della manodopera incideva sensibilmente sulla resa produttiva. Il sistema a controspalliera, quindi, si è rivelato il compromesso ottimale tra l’allevamento ad alberello e la necessità di meccanizzare le lavorazioni nel vigneto.
Le piante, coltivate su terreni costituiti in gran parte da sabbie vulcaniche, germogliano fra la seconda e la prima decade di aprile e maturano molto tardi tra la terza decade di settembre e la prima di ottobre, sicché la vendemmia viene effettuata fra la seconda e la terza settimana di ottobre. Il Nerello Mascalese si caratterizza per la grande foglia pentagonale e il grande e lungo grappolo di forma piramidale con acini dalla caratteristica forma oblunga dalla buccia di colore blu chiaro molto pruinosa (coperta cioè, da quel velo ceroso tipico dell’uva o delle susine), spessa e consistente; la polpa si presenta succosa e molle di sapore semplice e dolce. Le sue uve vengono raramente vinificate in purezza, mentre sono una componente importante, in ragione dell’80%, dell’Etna Rosso DOC. Tuttavia, recentemente, secondo la tendenziale riscoperta e rivalutazione dei vitigni autoctoni che da qualche decennio si sta registrando in Sicilia, il Nerello Mascalese viene vinificato in purezza.
Le uve, vendemmiate dopo la seconda metà di ottobre, vengono vinificate in rosso con lunga macerazione sulle bucce. Dopo la fermentazione malolattica (2), il vino viene travasato in piccole botti da 225 litri dove rimane per oltre un anno per poi continuare il suo affinamento in bottiglia per 8-10 mesi.
Il vino che si ottiene ha colore rosso rubino abbastanza carico con spiccato sentore di violetta, al palato presenta una discreta tannicità accompagnata da sensazioni armoniche e gradevoli in cui predominano sensazioni olfattive di frutta rossa, fiori e spezie. I vini ottenuti dalla vinificazione di questo vitigno hanno una grande variabilità a seconda del versante del vulcano in cui è coltivato, sono ad elevata gradazione alcolica (13-14°) e destinati ad un lungo invecchiamento.
Il Nerello Mascalese, infatti, come altri vitigni nobili (nebbiolo, pinot nero), ha una notevole sensibilità all’annata ed al territorio di provenienza e da vini con sfumature e caratteristiche notevolmente diverse tra loro.
Come tutti i vitigni autoctoni etnei anche il Nerello Mascale è a maturazione tardiva (2ª decade d’ottobre). Vinificato in purezza presenta:
Colore: rosso rubino con sfumature granate.
Profumo: etereo, di frutta, speziato, con sfumature di tabacco e vaniglia.
Sapore: secco, pieno, tannico, armonico, persistente con aroma di liquirizia.
Sposa volentieri piatti ricchi di spezie e profumi; carni arrosto, selvaggina e formaggi stagionati.
L’Etna Rosso DOC (la più vecchia DOC siciliana: il suo disciplinare di produzione, infatti, è datato 11 agosto 1968) risulta da un blend di Nerello Mascalese nella misura dell’80% e di Nerello Cappuccio o Mantellato per il restante 20%.- I vini Etna Rosso DOC presentano:
Colore: rosso rubino.
Profumo: etereo, intenso, con sfumature di vaniglia e di frutta matura.
Sapore: elegante, armonico, di notevole persistenza al gusto.
Anche questo eccellente vino si abbina ottimamente con le carni rosse, la selvaggina ed i formaggi stagionati.
Il Nerello Cappuccio o Mantellato
Non si conoscono le origini di questo vitigno che da sempre è stato allevato nei vigneti etnei insieme al Nerello Mascalese anche se in percentuali decisamente inferiori (15-20% della superficie vitata). Il «Nerello Cappuccio» o «Mantellato», detto in siciliano «Niurieddo Anmmantiddatu» o solo «Mantiddatu» deve il suo nome al singolare portamento della pianta (a cappuccio, a mantello). Il vitigno è coltivato ad alberello. La densità produttiva è 6.500 piante per ettaro con una resa di poco meno di 60 quintali, sempre per ettaro.
Questo vitigno presenta un grappolo medio, corto, compatto; i suoi acini sono di media grossezza, con la buccia di colore blu-nero, dal sapore dolce, poco tannico.
Le sue uve sono a maturazione tardiva (2ª decade di ottobre). Una volta vendemmiate vengono vinificate in rosso con lunga macerazione sulle bucce.
Pur appartenendo alla medesima varietà, ha, tuttavia, caratteristiche sensibilmente diverse rispetto al Nerello Mascalese, in particolare per quanto riguarda il contenuto di aromi e di polifenoli, sicché è considerato l’ideale complemento del primo. Negli ultimi decenni, però, è stato soggetto ad un progressivo abbandono da parte dei viticoltori (soprattutto nella provincia di Messina dove la sua coltivazione era più intensa che in quella di Catania), tanto da rischiare l’estinzione. Tuttavia, recentemente, se ne è registrata la riscoperta, rivalutazione e reintroduzione dopo un lungo lavoro di ricerca viticola e selezione clonale di molte viti di Nerello Cappuccio. La conseguenza di tutto ciò sta nel fatto che – oltre ad essere presente nelle DOC Etna, Contea di Sclafani, Faro – è stata tentata anche la vinificazione in purezza del Nerello Cappuccio con risultati decisamente notevoli.
Vinificato in purezza dà vini pronti, da medio invecchiamento e con una gradazione alcoolica variabile tra i 13° e i 13,5° e presenta:
Colore: rosso rubino vivo con deboli sfumature viola
Profumo: di frutta rossa, ampio, con sfumature di vaniglia.
Sapore: secco, giustamente acido, poco tannico, armonico, buona persistenza con aroma di frutta rossa.
Gradazione alcoolica: 13-13,5% vol.
Si abbina ottimamente con le carni rosse ed i formaggi stagionati.
Il Carricante
Il Carricante (in dialetto «‘U Carricanti»), è anch’esso un antichissimo vitigno autoctono dell’Etna. Fino agli anni ’50 era il vitigno ad uva bianca più diffuso nella provincia di Catania di cui occupava il 10% della superficie vitata. Intorno al 1885 fu introdotto nelle campagne di Agrigento e di Caltanissetta, non trovando, però, adeguata diffusione. È stato selezionato dai viticoltori di Viagrande che gli hanno attribuito questo nome per sottolineare l’attitudine del vitigno a dare una buona produzione costante negli anni. Da sempre esclusivamente coltivato alle falde del vulcano sul suo versante est, solitamente nelle contrade più elevate dove il Nerello Mascalese difficilmente maturava o nei vigneti più bassi insieme allo stesso Nerello Mascalese e con la Minnella bianca (altra cultivar autoctona).
Il Carricante viene allevato ad alberello, con una densità d’impianto compresa tra le 6000 e le 8000 piante per ettaro. La sua resa produttiva è di circa 80 quintali per ettaro. I grappoli, a piena maturazione, sono di media lunghezza, mediamente spargoli (cioè con acini non troppo fitti tra loro). L’acino è di grandezza media con buccia molto pruinosa, di colore verde giallognolo. La polpa è succosa, il sapore semplice e dolce.
È un vitigno che da vini contraddistinti da un basso contenuto di potassio, da un’elevata acidità fissa e da un notevole contenuto in acido malico, per cui ogni anno è necessario far svolgere al vino la malolattica in maniera completa.
Si pensi, in proposito, che già nei secoli passati i viticultori usavano lasciare il vino prodotto con uve Carricante nelle botti con la feccia in maniera da favorire, appunto, la malolattica e smorzare l’accentuata acidità (in dialetto catanese «’u muntagnuolu») tipica di questo vino. Benché il disciplinare di produzione ne ammetta il taglio con altri vitigni a bacca bianca, le uve Carricante, generalmente, vengono vinificate in purezza costituendo al 100% l’Etna Bianco DOC (anche se) che presenta:
Colore: giallo paglierino con sfumature verdi
Profumo: intenso e delicato, fruttato, con sentori di mela
Sapore: secco con una piacevole acidità ed una gradevolissima persistenza aromatica
Gradazione alcoolica: 12°
Si sposa ottimamente con le pietanze a base di pesce, e va servito ad una temperatura compresa tra i 10° e i 12°C.
Il Minnella
Girando per i vigneti dell’Etna è facile trovare un vitigno a bacca bianca dal grappolo medio-grande e con il caratteristico acino dalla forma allungata: il Minnella (in dialetto «Minnedda» o «Minnedda Janca» dove Janca sta per bianca). Questo vitigno autoctono fu scoperto nelle vigne più antiche dell’Etna. Sulle sue origini, però, non si hanno notizie storiche. Il suo nome deriva dalla parola «minna», termine dialettale che indica la mammella, per la forma oblunga dell’acino molto simile ad un seno di donna.
Il Minnella è allevato ad alberello ed è – generalmente – consociata al Nerello Mascalese e/o al Carricante. Si coltiva alle falde dell’Etna, sul suo versante Est, e precisamente nella zona del Monte Serra, il cono vulcanico alla quota più bassa (500 metri s.l.m.), che ricade nel territorio del comune di Viagrande.
Tempo fa, veniva coltivato in piccole quantità anche nella provincia di Enna e precisamente nel territorio del comune di Agira. Il terreno di allevamento di questo vitigno è formato da sabbie vulcaniche ricche di minerali. Dal punto di vista climatico, la zona è caratterizzata da forti escursioni termiche tra giorno e notte e da notevoli precipitazioni, sicché questo versante dell’Etna è decisamente confacente ai suoi vitigni autoctoni – e quindi, anche al Minnella – che in queste particolari condizioni hanno la possibilità di maturare in un ambiente più fresco e in un periodo più lungo rispetto al resto del territorio siciliano.
La densità di impianto del Minnella è di circa 8000 piante per ettaro con una resa produttiva di circa 80 quintali sempre per ettaro. Il Minnella si presenta con una foglia tripentalobata e con grappoli lunghi mediamente 20-27 cm del peso medio di circa 220-230 grammi.
Gli acini sono di media grossezza di colore giallo verdastro e dorato nella parte esposta al sole. L’uva Minnella matura tra la seconda e la terza decade di settembre, quindi in anticipo rispetto agli altri vitigni autoctoni etnei che hanno una maturazione tardiva.
L’uva Minnella viene vinificata ed utilizzata in blend insieme a vini quali il Catarratto e l’Inzolia. La sua vinificazione in purezza – fatta esclusivamente dall’Azienda vinicola Benanti di Viagrande – avviene mediante spremitura soffice. La fermentazione si svolge ad una temperatura di 18-20° C in serbatoi d’acciaio.
Il Vino che ne risulta, di colore paglierino, ha una gradazione variabile dai 9-11 gradi, fino ai 12,5-13,5 e viene per un certo periodo lasciato in vasca per poi essere imbottigliato e lì continuare il suo affinamento per 2-3 mesi. L’uva Minnella vinificata in purezza da un vino bianco molto interessante che ben si abbina con piatti e pietanze a base di pesce e che presenta:
Colore: giallo paglierino
Profumo: intesso, ampio, fruttato con sentori di anice
Sapore: secco, fresco ed armonico con una gradevole persistenza aromatica
In conclusione, ben si vede come la Sicilia abbia trovato nella rivalutazione e nella riscoperta degli antichi vitigni autoctoni quel forte legame con il territorio che caratterizza le più recenti produzioni vinicole ottenendo così il duplice risultato di scongiurare la loro scomparsa e di produrre vini di alta qualità tali da reggere il confronto, se non addirittura, superare i più famosi e blasonati vitigni internazionali.
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(1) Per le foto delle uve Carricante e Minnella si ringrazia l’Assessorato Regionale all’Agricoltura e Foreste U.O. 45 di Giarre, che le ha gentilmente concesse.
(2) La fermentazione malolattica consiste nella trasformazione dell’acido malico in acido lattico più anidride carbonica ad opera di batteri selvatici presenti nel mosto e riattivati dalla variazione delle condizioni di conservazione del vino. Si può ricorrere anche ad inoculazione di ceppi batterici selezionati di regola appartenenti al genere «Lactobacillus». Questo processo, che generalmente inizia spontaneamente in primavera quando la temperatura subisce un rialzo (i batteri, infatti, lavorano tra 20-25°C), serve a ridurre il grado di «pungenza» (tipico dell’acido malico) e a rendere il vino più morbido. Avviene in contenitori oppure in «barrique», caratteristiche botti da 225 litri che rilasciano sostanze legnose, speziate, vanigliate in misura adeguata. Il tannino rilasciato dal legno si dice gallico o nobile. Per tradizione è più gradita per i vini rossi ma attualmente è stata introdotta anche nei vini bianchi importanti, dotati di grande morbidezza. Non viene eseguita nei vini bianchi cosiddetti di «pronta beva», che fondano le loro caratteristiche sull’acidità.