Esiste un piatto talmente antico che la sua origine certa pare risalga ad almeno 2000 anni fa: u pitirri. Si tratta di una lavorazione complessa, diffusa soprattutto nell’entroterra della Sicilia, tra la provincia di Caltanissetta e Agrigento, in aree solfifere e nei Monti Sicani, dove si produce anche la ricotta di pecora siciliana. Nel tempo, u pitirri è cambiato, si è adattato e modificato a seconda delle disponibilità dei diversi periodi storici, finché oggi è diventato pressoché impossibile trovarlo. Lo preparano ancora solo le signore più anziane, come le gemelle Angela e Calogera, classe 1935, di San Biagio Platani, sempre nei Sicani; oppure qualche agriturismo che l’ha riscoperto e sta cercando in tutti i modi di evitare la sua estinzione. Anche noi vogliamo contribuire a tramandare questo piatto, raccontandovi la sua ricetta affinché non si perda nel tempo.
[elementor-template id='142071']U pitirri: storia, etimologia e ricetta
U pitirri ricorda un po’ la polenta, tant’è che potremmo azzardarci a definirla una sorta di antica polenta del sud. Di base è una preparazione a base di farina di semola di grano duro (quando c’era!) e abbondante finocchietto selvatico (sempre presente nel territorio per molti mesi all’anno) che venivano buttati in abbondante acqua e sale. Poi si continuava ad arriminare, ci raccontano le due gemelle, cioè a mescolare lentamente a poco poco con la paletta di legno, finché non veniva una crema tipo polenta, né troppo liquida né troppo densa, per poi far saltare tutto in padella con un soffritto di olio e cipolletta bianca. Non a caso nel paese vicino, Sant’Angelo Muxaro, lo stesso piatto si chiama “arriminata”.
Nel tempo a questo piatto si sono aggiunte le verdure di stagione o surgelate, quali cavolo, broccoli, porri o piselli; basta che non siano asparagi “perché hanno l’amarume!”, ci ammoniscono Angela e Calogera. E nell’ultimissima versione, “la più moderna” pur essendo rimasti molto in pochi a preparare questo piatto, si mettono anche le uova. L’importante è che il risultato finale sia un po’ “gruminoso” cioè granuloso e “sbriciolato”, proprio come il cous cous.
Dall’Africa all’epoca romana
Fatima Giallombardo, docente di Antropologia culturale alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Palermo, autrice di uno dei più bei libri antropologici sulla cucina siciliana (La tavola, l’altare e la strada. Scenari del cibo in Sicilia), del pitirri scrive così: “trattandosi di una minestra povera si rifà alla tradizione del farro di retaggio romano. Probabilmente è stato importato dall’Africa proprio in epoca romana. È una semola, come il cous cous, ma diversamente da esso è cotta insieme al condimento e, comunque, è precedente da un punto di vista storico e non ha un trattamento di tipo arabo”.
Il legame con le miniera di zolfo
L’origine del nome l’ha ben scritta Giovanni Ruffino, preside della facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Palermo e docente di Linguistica italiana: “u pitirri è legato a uno strato solfifero, infatti, è un piatto diffuso nella Sicilia centrale dove sono presenti le miniere di zolfo”. Questa teoria viene confermata anche da Lucia Di Minno, presidente del Centro studi sulle miniere di zolfo di Lercara Friddi: “pitirri è uno strato dello zolfo che si trova mescolato insieme ad altro materiale; lo zolfo, infatti, non si trova mai puro in natura, ma sempre con impurità che lo colorano. Ciò spiega anche l’associazione con il piatto: u pitirri, avendo come ingredienti la semola di grano duro, il finocchietto selvatico e varie verdure, finisce per avere un colore giallognolo, con striature di verde che, non a caso, ricorda proprio quello delle miniere di zolfo.
La video ricetta delle gemelle
“Quando prepariamo u pitirri, lo facciamo in una pignata grande perché poi andiamo a distribuirlo in paese”. Perché u pitirri si cucina sempre per tutti. E ora guardate il video delle nostre due gemelle Angela e Calogera.
Ingredienti
- 1 kg di farina di semola di grano duro
- acqua
- 5 uova
- sale q.b.
- cipolla
- finocchietto selvatico
- verdura a scelta
Procedimento
- Iniziate impastando la farina di grano duro. Poi fate una conca e mettete le uova una alla volta, così da formare dei grossi grumi e continuate a impastare.
- In seguito, iniziate a frasculiare l’impasto poco alla volta, ovvero a far passare la pasta in un crivuliddo, un crivo, cioè un setaccio in modo da ottenere dei granelli di pasta più piccoli da far cadere su un panno posto sotto.
- A parte tagliate le verdure scelte in piccoli pezzi e cuocetele insieme a sedano, carote e cipolle con un pizzico di sale in una grossa pentola con acqua abbondante, anticamente in una quarara.
- Quando le verdure saranno cotte, aggiungete gradualmente nel loro brodo la pasta ormai tutta sgretolata continuando a mescolare, cioè arriminare, fino a cottura ultimata.
- La maestria sta tutta nell’arrivare alla giusta consistenza, versando poco a poco l’impasto nell’acqua e rimestando di continuo con un cucchiaione di legno.
- Una volta pronto, potete servirlo più liquido tipo zuppa o continuare a cuocerlo in modo che sia più denso per poi farlo saltare in una padella con il soffritto di cipolla.
In ogni caso, quello che avanza (succede raramente) sarà perfetto fritto il giorno seguente, sempre con un buon bicchiere di vino rosso siciliano. Infine, Angela e Calogera ci rammentano: “u pitirri bisogna saperlo fare, perché a quasi tutti quelli che ci provano si rompono i grumini di pasta durante la cottura!”
Le foto nell’articolo sono di Giulia Ubaldi.