Da Sciascia a Montalbano, il Tarallo dolce di Racalmuto

tarallo dolce di racalmuto

 

Mai dolci furono più presenti nella letteratura di questo. Il Tarallo di Racalmuto, infatti, paese d’origine di Leonardo Sciascia, compare sia nei testi del grande scrittore, sia in antiche opere teatrali, che nei Racconti di Montalbano di Andrea Camilleri. Sarà perché in questo piccola Regalpetra, in provincia di Agrigento, un po’ come del resto in tutta la Sicilia, la tradizione dolciaria è antica, millenaria e per anni mescolare farina di grano duro, mandorle o noci, uova e miele (prima dell’avvento dello zucchero) è stata davvero la salvezza per molti. E ora andiamo alla scoperta di questo tarallo, il Tarallo dolce di Racalmuto.

Il Tarallo di Racalmuto: un viaggio nella storia e nella letteratura

tarallo dolce

I Taralli di Racalmuto non sono come ci si aspetta: nonostante l’omonimia, non hanno nulla a che vedere con quelli napoletani, o ancor meno con quelli pugliesi, prima di tutto perché non sono salati ma dolci. I Taralli di Racalmuto, infatti, sono dei biscotti molto morbidi, fatti di farina, uova, strutto e latte, che si differenziano dagli altri taralli dolci presenti in zona per il retrogusto al limone fresco di Racalmuto e il velo di glassa di zucchero sopra. Ma qual è la loro origine?

L’origine del Tarallo

Come tutte le storie più belle, anche questa potrebbe non essere vera. L’unica certezza che abbiamo è che l’origine del Tarallo risale almeno a cento anni fa e che fu con l’avvento di Ernesto Dinaro da Napoli che l’arte dolciaria di Racalmuto guadagnò in prelibatezza e avvenenza. Chi, ad esempio, non ricorda lo schiumuni per la festa del Monte consumato attorno ai tavolinetti rotondi vezzosamente disposti nella piazzetta?

In particolare, la leggenda sulla nascita del Tarallo è legata alla figura del Mago Taibi, autore di teatro social-popolare: è lui che nomina i taralli di Piuzzu Lo Bue, un noto pasticcere di Racalmuto che creò questi nuovi dolci diversi dagli altri dell’agrigentino proprio per l’aroma al limone e la glassa di zucchero. Li si consumava accompagnati al vino nelle osterie e poi solo in occasione della festa dei Morti, mentre oggi si è tornato a mangiare il Tarallo tutto l’anno, sempre con il vino. Pio Lo Bue non ha mai lasciato la ricetta originale in memoria a nessuno, infatti oggi ogni pasticcere lo prepara con una sua personale declinazione.

Dove trovare il Tarallo di Racalmuto

dove trovare il tarallo di racalmuto

A Racalmuto sono rimaste solo quattro pasticcerie a preparare i taralli: l’Antica Pasticceria Taibi, dove fino a qualche anno fa li preparava ancora la cosiddetta “signorina”, una donna sui sessant’anni, diretta discendente del mago Taibi; la Cremeria Parisi, dove Ivan Parisi, uno degli ultimi ereditari della vecchia ricetta segreta, li ha preparati insieme al noto chef Filippo La Mantia che, come tutti, si è innamorato del prodotto; l’Antica Pasticceria Mattina, che usa ancora il pentolone in rame per una glassatura migliore; e, infine, la Pasticceria Capitano. Se è ancora possibile trovare il Tarallo oggi dobbiamo ringraziare anche quei grandi scrittori che hanno contribuito alla trasmissione di questo dolce nel tempo con i loro scritti, come ad esempio Sciascia e Camilleri.

Leonardo Sciascia: sale e taralli

tarallo di sciascia

È stato lo scrittore Salvatore Vullo a gettar luce sul legame di Sciascia con la cucina, in particolare nel libro di Terra e di Cibo. Vullo fece delle analisi molto approfondite sui testi del grande scrittore, andando alla ricerca di tutti gli elementi legati al cibo e all’agricoltura in Sicilia a metà del Novecento. In particolare, di Racalmuto Sciascia parla della zolfara e della vita degli zolfatari, che cercavano compensazione in cibi forti e piccanti come la carne di castrato o le stigghiole. Ma Racalmuto è anche il paese dove si trova una delle più importanti (e meravigliose) miniere di salgemma della Sicilia, insieme a quella di Realmonte e Petralia, nelle Madonie: è sempre Sciascia a raccontarlo nei suoi libri, e probabilmente si tratta degli unici saggi sull’argomento, nei quali si raccontano le durissime condizioni di lavoro dei salinari, che si nutrivano solo con pane e cipolla o pane e sarde salate, come si legge nel capitolo I salinari del testo Le parrocchie di Regalpetra. E poi, nell’Occhio di capra, compare anche lui: il Tarallo di Racalmuto.

“Lu cani di Pinu. Il cane di Pino. Del pasticcere Pino. Contemporanea a quella del cane di don Emilio, l’esistenza del cane di Pino è rimasta invece nella memoria collettiva come emblema di una pigrizia coltivata, ben nutrita, fortunata invidiabile. Era un grosso cane bianco. Pur non disdegnando di rosicchiare qualche osso della vicina macelleria, suo principale nutrimento erano i taralli (biscotti rivestiti di zucchero che i Pino facevano con una ricetta rimasta segreta: fragili, freschi, di soavissimo gusto), quando, nel continuo smercio, versati dalle grandi bocce di vetro sulla bilancia, qualcuno sempre ne cadeva per terra. Da un tale nutrimento si credeva gli venisse una possanza erotica da tutti constatata come inesauribile. Citato dunque come caso da invidiare, come esistenza cui aspirare: qualche volta nei discorsi sul lavoro, sulla fatica; più spesso nei discorsi sulle donne”.  

Il Tarallo nei Racconti di Montalbano

tarallo di montalbano

Anche il Commissario Montalbano ha mangiato (e molto gradito) i Taralli di Racalmuto, quando ne La prima indagine si sposta da Vigàta a Racalmuto proprio per gustare questi dolci: erano talmente buoni che se ne mangiò così tanti da provare vergogna, come scrive Camilleri.

“…Gli avivano ditto che dalle parti di Racalmuto c’era un ristorante quasi ammucchiato in una parte scògnita, ma indovi si mangiava seguendo le regole del Signuruzzu, e gli avivano macari spiegato come arrivarci… Si mise in macchina e partì. Da Vigàta a Racalmuto c’erano un tri quarti d’ora di strata, pigliando la via che passava sutta ai templi e che andava verso Caltanissetta. .. Era un gran cammarone con una decina e passa di tavoli quasi tutti occupati. Il commissario sciglì un tavolino vicino all’ingresso. Mentre si stava sbafanno il primo, cavatuna al suco di maiali condito con pecorino, dù òmini, ch’erano assittati poco distanti, pagarono, si susero e niscèro… Per secunno, mangiò sasizza alla brace. Ma quello che lo fece insallanire furono i biscotti del posto, semplici, leggerissimi e ricoperti di zucchero. I taralli. Sinni mangiò tanti da provare vrigogna”.

Tutte le foto nell’articolo sono di Giulia Ubaldi.

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