Continua il dibattito sull’esistenza degli spaghetti alla bolognese, uno dei piatti più noti e cucinati al mondo, ma criticato e negletto in Italia, specialmente a Bologna. Nella città che ha dato i natali alla pasta di sfoglia e al ragù, infatti, resiste la diffidenza, soprattutto tra i puristi della cucina tradizionale e delle classiche tagliatelle. Dopo aver intervistato Gianluigi Mazzoni – promotore dell’iniziativa che vuole affermare il reale radicamento storico di questo piatto, soprattutto nelle campagne del territorio felsineo – stavolta abbiamo interpellato Giorgio Palmeri, delegato di Bologna dell’Accademia italiana della cucina, in merito agli spaghetti alla bolognese: tradizione o invenzione estranea alla gastronomia petroniana? Con un interessante excursus sulla pasta al ragù e sulle consuetudini gastronomiche locali, cercheremo di saperne di più.
Spaghetti alla bolognese: tradizione o invenzione?
Precisando una distinzione di termini significativa, Giorgio Palmeri non nega l’esistenza degli spaghetti alla bolognese, pur affermandone l’estraneità rispetto ai piatti tradizionali della cucina di Bologna. Tuttavia, è vero che questo primo rappresentava una consuetudine della cucina rurale domestica delle classi popolari, così come altri formati tra i quali la gramigna e gli gnocchi, paste popolari e più economiche, utilizzate dagli strati sociali più bassi.
L’intervistato prosegue aggiungendo che già nella Roma imperiale, nel primo secolo a.C., si realizzavano impasti a base di acqua e farina, ai quali si aggiungeva una minima parte di zafferano per conferire il colore giallo. Questa base di antichissima origine, però, non è un unicum della cucina locale, mentre invece la pasta di sfoglia fatta a mano nasce proprio a Bologna, culla di questo tipo di produzione, una cultura che non ha eguali in nessun’altra parte d’Italia. La pasta secca o seccata, invece, è tipica di altri territori ed è di derivazione araba e cinese.
In merito al recupero commerciale e territoriale dei discussi spaghetti alla bolognese, secondo Palmeri non bisogna gridare allo scandalo o alla bestemmia culinaria, perché questo piatto effettivamente si consumava nelle campagne e fra le classi più povere. Non si tratterebbe, quindi, di essere integralisti a tutti i costi, il punto è semplicemente la definizione di ricetta classica della cucina tradizionale bolognese. Si può disquisire sulla ruvidità e sul trattenimento del sugo, ma non si può negare l’evidenza storica, afferma l’intervistato. Tuttavia, il delegato dell’Accademia della cucina sostiene che questa operazione di rilancio giochi soprattutto a vantaggio dei pastifici, per favorire il mercato degli spaghetti, conosciuti in tutto il mondo molto più che a Bologna.
Da cosa dipende la tipicità?
L’intervistato, quindi, afferma che i formati più popolari non vantano lo stesso livello storico e culturale della tagliatella, della lasagna e del tortellino, i classici di pasta all’uovo della tradizione bolognese, che hanno origini medievali e rinascimentali. Pertanto, secondo Palmeri, anche se il vermicello veniva prodotto e consumato nel contado e nelle periferie, non si può inserirlo con lo stesso titolo nella tradizione gastronomica di Bologna. In sostanza, la consuetudine legata al territorio, seppur dimostrata, non basterebbe per elevare gli spaghetti alla bolognese a piatto classico della cucina felsinea.
Per sostenere questo concetto, Palmeri ricorda che anche a Bologna diversi ristoranti oggi propongono varianti estranee alla tradizione, come ad esempio i tortellini conditi con il ragù. Il significato di ricetta classica è diverso, in quanto affonda le sue radici in un aspetto culturale e letterario derivante dalla codifica di varie opere, che vanno dal Medioevo al Rinascimento.
Del resto, secondo il delegato dell’Accademia italiana della cucina, è emblematico il fatto che gli spaghetti alla bolognese siano conosciuti all’estero molto più che sotto le due torri. L’aspetto legato al gusto, indubbiamente soggettivo, non è in discussione. Gli spaghetti ruvidi si possono abbinare al ragù e sono in grado di raccogliere il sugo, anche se la tagliatella, grazie alla porosità e alla base più larga e sottile, rappresenta il classico ineguagliabile.
Spaghetti e vermicelli
È importante precisare che la base storica degli spaghetti alla bolognese si fonda in realtà sul vermicello, un formato più grosso e meno regolare, che già nel Cinquecento veniva realizzato in casa con trafile rudimentali, utilizzate anche per produrre altre fogge di pasta più corte. Si trattava di attrezzi impiegati dalle classi popolari delle campagne, e non nelle case dei nobili. La pasta usciva da dei fori e veniva tagliata secondo la lunghezza desiderata, con un procedimento analogo a quello per fare i passatelli.
Per Palmeri, comunque, l’effettivo radicamento storico non è sufficiente per far rientrare questo tipo di pasta nella tradizione classica bolognese, e peraltro sarebbe sbagliato individuare nel vermicello un antesignano dello spaghetto, rispetto al quale era concettualmente diverso, perché il secondo deriva dal grano duro, tipico del Meridione d’Italia.
Tutto nasce da un equivoco?
L’intervistato descrive la genesi e l’evoluzione del ragù bolognese, la cui ricetta, per come la conosciamo oggi, nasce nell’Ottocento, quando si diffonde l’uso del pomodoro. Questo sugo di carne, chiaramente, poteva condire i piatti classici della tradizione ma anche altre forme di pasta. Anche partendo da questa considerazione, va detto che la fama internazionale degli spaghetti alla bolognese nasce da una sorta di equivoco lessicale.
In tutto il mondo, infatti, il sugo di carne è definito “alla bolognese”, prosegue Palmeri, e all’estero l’abbinamento con gli spaghetti – il formato di pasta italiana più noto – ha soverchiato la tradizione della tagliatella, molto meno conosciuta. Gli spaghetti alla bolognese, quindi, dovrebbero la loro notorietà alla definizione del sugo, e non al radicamento nella tradizione petroniana. In sostanza, è il ragù che caratterizza lessicalmente il termine “alla bolognese”, non la pasta.
Il ragù bolognese e la variante coi piselli
Proseguendo nel definire la storia del ragù bolognese, l’intervistato precisa che prima della diffusione del pomodoro il sugo si faceva bianco, utilizzando prevalentemente carne di maiale, insaporita con erbe aromatiche. La cottura era molto più veloce rispetto a quella tradizionale ottocentesca, che richiede almeno tre ore a fuoco lentissimo, anche per condensare e assorbire il pomodoro e sfumare il vino.
Anticamente, le condizioni alimentari della popolazione si distinguevano in due categorie. Alla élite ristretta delle cucine blasonate, che servivano le corti gentilizie e i borghesi più ricchi, si contrapponeva la realtà dei poveri, che mangiavano soprattutto verdura, legumi e carni del “quinto quarto”, ovvero le frattaglie. Non è un caso che nel ragù bolognese originario fossero presenti anche rigaglie di pollo, fegatelli e ovarine, il principio di uovo che oggi non si può più commercializzare.
Il ragù coi piselli, invece, è una variante più che lecita, molto adatta per l’abbinamento con paste prive di uovo o con basse quantità di questo ingrediente. Il ragù di sola carne non conferisce alla pasta di grano lo stesso effetto di dolcezza ed equilibrio nel gusto.
Le origini delle lasagne e delle tagliatelle
Per completare il ragionamento e il percorso storico sulla pasta al ragù, Giorgio Palmeri parla delle origini e dell’evoluzione dei classici della tradizione bolognese. Gli antichi Romani chiamavano làganum una striscia di pasta molto larga, che si produceva già nel periodo imperiale, mentre nella cucina della Grecia antica era conosciuta con il nome di làganon, una produzione senza l’uso dell’uovo, che veniva condita con burro, zucchero e cannella, dalla quale deriverebbe la celebre lasagna.
In base alle fonti storiche, invece, il debutto ufficiale della tagliatella avviene nel Rinascimento, in occasione delle nozze fra Annibale Bentivoglio e Lucrezia d’Este, celebrate con grande sfarzo a Bologna nel 1487. Si trattava di una pasta realizzata a mano con la sfoglia all’uovo, inventata dal cuoco di Casa Bentivoglio, per omaggiare i capelli biondi di Lucrezia. Come spesso accade, le ricette con evidenza storica fanno riferimento a eventi rilevanti per la vita pubblica cittadina.
Dopo questo matrimonio, per i cuochi bolognesi inizia un processo di formazione e diffusione della pasta all’uovo fatta a mano. Bartolomeo Scappi, uno dei più grandi gastronomi di tutti i tempi, nel suo ricettario chiamato Opera, del 1570, riporta per primo la ricetta, intitolandola “Per far minestra di tagliatelli”, nome dovuto all’uso della taglierina, un coltello rettangolare che tuttora si usa per tagliare la sfoglia. La ricetta edita da Scappi prevede una procedura pressoché identica a quella odierna, con un uovo ogni etto di farina, ingrediente che in passato era molto più grezzo rispetto a oggi.
La pasta di sfoglia fatta a mano si afferma grazie alla letteratura prodotta dai cuochi bolognesi, che pubblicano importanti opere a tema gastronomico. Fra questi, Giuseppe Lamma, cuoco del Seicento, e Bartolomeo Stefani, capocuoco di Casa Gonzaga, che come altri maestri girano l’Europa, fungendo anche da ambasciatori della cucina petroniana.
Definendone più nello specifico le caratteristiche, Palmeri precisa che la tagliatella bolognese deve rispondere a determinati requisiti tecnici, riferiti in particolare alla larghezza, che deve essere di 6,5 millimetri a crudo e 8 millimetri dopo la cottura, misura che corrisponde alla 12.270esima parte dell’altezza della torre degli Asinelli. Esiste anche un campione aureo del 1972 con queste dimensioni, racchiuso in uno scrigno e custodito nel Palazzo della Mercanzia di Bologna. L’intervistato, inoltre, ricorda una sentenza della Corte di Cassazione che autorizza la dizione “tagliatella bolognese” solo in presenza di queste misure.
Il tortellino e la rivoluzione dell’Artusi
Nel Medioevo, prima della creazione delle tagliatelle, si producevano paste differenti, talvolta arricchite con l’uovo, che potevano essere condite con verdure o carni, a seconda della disponibilità di materie prime, determinata essenzialmente dal ceto sociale di appartenenza.
In quel periodo, inoltre, nasce il tortellino, il cui ripieno originario era diverso da quello che conosciamo oggi. L’ingrediente principale era la carne di maiale aromatizzata con l’enula, un’erba oggi poco conosciuta, successivamente sostituita dalla noce moscata, spezia allora molto costosa. a tradizione dei classici bolognesi parte quindi dalle tagliatelle, e prima ancora dai tortellini.
In conclusione, Giorgio Palmeri ricorda quanto l’affermazione della cucina regionale del territorio debba all’opera di Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, del 1891. Questo testo segna una linea di demarcazione e contribuisce a cambiare la cultura alimentare, passando dalla cucina aristocratica e blasonata a quella borghese e popolare, ispirata alle tradizioni che la campagna offriva e più adatta alle famiglie nonché alla ristorazione. In quel periodo, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la gastronomia si amplia, mutuando ed elevando l’esperienza rurale, semplice ma saporita, un cambiamento che ha affermato la grande rivalsa della cucina povera.
Avevate già sentito parlare del dibattito sugli spaghetti alla bolognese? Come giudicate questo piatto?