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Qual è la situazione del caporalato a 18 mesi dall’approvazione della legge?

Sono passati quasi 18 mesi dall’approvazione ed entrata in vigore di quella che è stata presto denominata “nuova legge contro il caporalato”, un provvedimento sostenuto da un’ampia maggioranza in Parlamento e che mirava a dare un sonoro schiaffo all’illegalità in agricoltura. Alcuni passi sono stati fatti, ma sindacati e associazioni di categoria che avevano accolto con riserve il provvedimento, ancora non si dicono pienamente soddisfatti.
Vediamo qual è la situazione del caporalato in agricoltura a un anno e mezzo dall’entrata in vigore della legge.

Legge contro il caporalato: cosa prevede?

legge caporalato

Sulla carta, le “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo” prevedono un netto inasprimento delle pene per i caporali, ovvero chi svolge attività di intermediazione illecita di manodopera ai fini dello sfruttamento. Responsabilità penale degli atti viene, poi, attribuita alle aziende che sfruttano e alcuni indennizzi sono previsti per le vittime.

Protocolli regionali per rendere effettiva la legge

Con l’obiettivo di rendere effettive le disposizioni volute dal Governo, diverse Regioni italiane si sono attivate per sottoscrivere dei protocolli sul tema della lotta al caporalato. La Puglia, per esempio, ha stanziato dei finanziamenti finalizzati a rendere più agevoli i trasporti utilizzati principalmente dai lavoratori agricoli stagionali e ha erogato dei fondi atti a promuovere l’ospitalità di questa categoria di braccianti nelle aziende stesse, favorendo quelle che hanno aderito alla “Rete del lavoro agricolo di qualità”. Proprio mercoledì 14 marzo 2018, per esempio, è stata inaugurata la prima sezione territoriale della Rete nella sede INPS di Foggia, territorio storicamente interessato da fenomeni di caporalato.

In Basilicata è stata istituita, già prima della legge, nel 2014, una task force coordinata con l’obiettivo di mettere in atto una strategia di accoglienza dignitosa e regolare per tutti i lavoratori stagionali, mentre in Calabria è stata sottoscritta una convenzione per il contrasto al caporalato e al lavoro sommerso.

L’attenzione per l’argomento è alta anche nel Centro e Nord Italia, soprattutto alla luce dei dati raccolti dalla European House-Ambrosetti e dall’Agenzia italiana delle agenzie per il lavoro (Assocom) che hanno evidenziato come ben 14 degli 80 distretti agricoli della penisola dove sono stati registrati episodi illeciti siano collocati in Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto.

Peculiare è il caso dell’Astigiano dove, nell’estate del 2016, la Guardia di Finanza ha individuato almeno 106 lavoratori pagati “in nero” e 150 cooperative del settore agricolo che pagavano i braccianti cifre nettamente al di sotto del minimo previsto per legge. Con una delibera della giunta regionale entrata in vigore nel luglio 2016, si è cercato di arginare il fenomeno, prevedendo l’opportunità per gli agricoltori di accogliere temporaneamente dei lavoratori stagionali nei periodi di necessità e incentivando economicamente le imprese che avessero scelto di installare strutture prefabbricate per ospitare i braccianti.

Situazione caporalato: 18 mesi dopo, tra successi e delusioni

Se gli strumenti e il quadro normativo per contrastare il caporalato esistono, così come dall’approvazione della legge ne è uscita rafforzata l’intenzione di fare qualcosa di concreto per porre fine allo sfruttamento, ancora molte promesse restano disattese. A un anno dall’approvazione della legge, il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali Maurizio Martina esprimeva moderata soddisfazione, riferendo alla Camera, come, grazie ai maggiori controlli e alle disposizioni della legge, si stesse registrando un aumento del 5% dell’occupazione in agricoltura e del 7% dei contributi nel settore.

Dati sicuramente incoraggianti a cui fa da contraltare il fatto che, come dichiarato nella medesima circostanza dal capogruppo del Partito Democratico in Commissione Agricoltura della Camera, Nicodemo Oliverio, “a Rosarno, in Calabria, ci vogliono 12 kg di arance per raggiungere un importo sufficiente a comprare un caffè.”

Nonostante l’aumento dei controlli e gli investimenti strutturali per smantellare la vecchia tendopoli della piana di Gioia Tauro, la paga giornaliera è ancora di 25 euro, mentre chi lavora a cottimo guadagna 50 centesimi per una cassetta di arance e 1 euro per una di mandarini, secondo quanto rilevato da Medici per i Diritti Umani, onlus attiva da otto anni sul territorio.

La delusione delle associazioni

L’estate del 2017 doveva essere il banco di prova per capire se la legge contro il caporalato, insieme alla Rete del lavoro agricolo di qualità e al Protocollo sperimentale contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura, fosse efficace o meno, e le associazioni, che hanno svolto un’attenta attività di monitoraggio sul territorio, non promuovono il terzetto di provvedimenti. Al contrario, sono stati rilevati rallentamenti, blocchi e difficoltà, soprattutto nelle aree più esposte anche dal punto di vista mediatico.

Giovanni Mininni, segretario nazionale della Flai Cgil, ha compiuto un viaggio di ricognizione sul campo al fine di verificare gli effetti dei provvedimenti: è vero, dunque, che a Rosarno è stata aperta una nuova tendopoli e che il gran ghetto di Rignano è stato sgomberato, ma a parte ciò ha rilevato pochi altri cambiamenti. Intervistato da Redattore Sociale, aggiunge che i braccianti “ci dicono che c’è ancora una regia dei caporali perché vengono accompagnati da loro, chiedendo 5 euro a persona. I caroselli di furgoncini al mattino ci sono ancora, ma sembra che qui nessuno li veda, neanche le istituzioni e le forze di polizia.”

Sono dello stesso avviso anche le Associazioni cristiane lavoratori italiani, che sottolineano come gli strumenti posti in essere dalle legge, combinati con la Rete (che coinvolge ancora un numero molto limitato di aziende agricole) e con il protocollo, siano utili, ma ancora poco impiegati. Da un lato, infatti, le ispezioni sono poche o difficilmente in grado di coprire l’intero territorio oggetto della verifica; dall’altro la chiusura dei ghetti storici senza la costruzione di un’alternativa sicura e dignitosa rischia di portare semplicemente allo spostamento delle persone e non a un concreto miglioramento delle loro condizioni di vita.

Morire per raccogliere agrumi a Rosarno

È il caso, almeno in parte, di Rosarno dove nell’agosto 2017 è stata inaugurata una nuova tendopoli del Ministero dell’Interno pronta ad accogliere 500 persone. Un numero esiguo se si considera che, durante la stagione della raccolta degli agrumi, confluiscono in zona quasi 3.000 persone. Inoltre, le associazioni presenti sul territorio denunciano l’assenza di un sistema di riscaldamento nelle tende e di un numero congruo di cucine per consentire a tutti gli ospiti di preparare i pasti.

Il risultato è che ancora più di 2.000 persone, a gennaio, vivevano nella vecchia tendopoli di San Ferdinando dove, nella notte tra il 27 e il 28 gennaio, è divampato un terribile incendio che ha raso al suolo metà del campo e ucciso Becky Roses, 26enne nigeriana che viveva lì da poco meno di un mese. Non il solo caso di morte tra i braccianti le cui responsabilità restano nebulose.

Secondo un report pubblicato nel mese di dicembre 2017 da Medici per i Diritti Umani, ben l’80% delle persone che vivono nel ghetto di Rosarno non ha un regolare contratto di lavoro, sebbene il 90% di essi si trovi in una condizione di legalità: la maggioranza ha un permesso di soggiorno umanitario, altrettanti sono richiedenti asilo. La stessa onlus denuncia come le condizioni sanitarie siano piuttosto gravi: il 21% dei braccianti soffre di problemi all’apparato digerente, il 17% a quello respiratorio e il 22% a quello osteo-mio-articolare, tutte patologie che possono essere collegate da un lato alla situazione di povertà abitativa e sociale, dall’altro allo sfruttamento lavorativo.
Il caso di Rosarno non è isolato. Un’altra vicenda di ordinario sfruttamento è quella dei Sikh nell’Agro pontino, ben rappresentata nel film The Harvest, di cui vi avevamo parlato qualche tempo fa, e che proprio in questo periodo è in tour nelle principali città italiane. L’avete visto?

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