L’approvazione della Legge 199/2016 ha segnato un momento storico per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento in agricoltura. A partire dall’entrata in vigore di quel provvedimento, infatti, è stato possibile perseguire penalmente i caporali, in virtù dell’inserimento nell’ordinamento del “reato di sfruttamento del lavoro”. A quattro anni dall’entrata in vigore, il fenomeno è ancora lontano dall’essere estirpato dalle campagne, tuttavia sono stati fatti dei concreti passi avanti. Da un lato, con l’approvazione del Piano triennale di contrasto al caporalato sono state gettate le basi per azioni costruttive che vedono la collaborazione del Governo con sindacati e associazioni di settore che lavorano sui territori insieme ai braccianti e alle braccianti. Dall’altro, il Rapporto 2019 del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e la protezione delle sue vittime del Centro ricerca interuniversitario l’Altro Diritto e Flai Cgil sottolinea come siano ben 260 le inchieste avviate a proposito dello sfruttamento dei lavoratori a partire dall’entrata in vigore della legge nel 2016. Vediamo qual è il punto a quattro anni dall’approvazione della norma.
Legge contro il caporalato, quattro anni dopo
L’implementazione delle disposizioni contenute nella “legge contro il caporalato” hanno richiesto diversi mesi, talvolta anni, per una piena applicazione. Come osservavano sindacati e associazioni a un anno e mezzo dall’entrata in vigore, è stato registrato un lieve aumento degli occupati regolarmente in agricoltura, ma si denunciava ancora una carenza di controlli e verifiche che rendessero effettiva la norma.
A partire dal 2019, sono invece aumentati gli arresti, le inchieste e i controlli su tutto il territorio nazionale, come confermano sia il Rapporto Agromafie 2018 che i dati del Comando Tutela Lavoro e dei Nas nel contrasto al lavoro nero, l’utilizzo dei minori e le altre forme di sfruttamento. Una maggior efficacia nell’individuazione delle realtà sfruttatrici confermata anche dal Rapporto del Centro di Ricerca di Altro Diritto e Flai Cgil, inaugurato nel 2018 proprio per monitorare l’impatto della legge 199/2016.
Oltre 260 le inchieste per sfruttamento da Nord a Sud
Il rapporto, redatto da Emilio Santoro e Chiara Stoppioni, fotografa la situazione: in totale sono state avviate 260 inchieste da 99 prefetture lungo tutta la penisola. Le Regioni maggiormente coinvolte sono Sicilia, Calabria, Puglia, Veneto e Lombardia a conferma del fatto che lo sfruttamento lavorativo non riguarda soltanto i campi dell’Italia meridionale. Inoltre, i dati evidenziano come il fenomeno non riguardi soltanto il settore agricolo. Al contrario, 97 inchieste riguardano comparti diversi, tra cui spicca lo sfruttamento di manodopera di origine cinese ma anche richiedenti asilo nel comparto moda nel pratese.
Nel complesso, i ricercatori rilevano come le persone coinvolte in quanto vittime dello sfruttamento sono, nella maggior parte dei casi, regolarmente presenti sul territorio e in 15 vicende sono coinvolti direttamente braccianti cittadini italiani. Questo aspetto dello sfruttamento, si legge nel Rapporto, restava in ombra prima dell’approvazione della Legge 199/2016, tuttavia i soggetti più fragili restano le persone di origine straniera, tra cui i richiedenti asilo. Quest’ultimi, secondo quanto rilevato dall’Agenzia ONU che si occupa di contrasto alla criminalità organizzata, sono i più vulnerabili su scala globale non soltanto allo sfruttamento lavorativo, ma anche a quello sessuale.
[elementor-template id='142071']Illegalità, minacce e ricatti: le verità dello sfruttamento
Il Rapporto del Centro di ricerca di Altro Diritto e Flai Cgil si sofferma sulla descrizione delle condizioni di vita e di lavoro imposte ai braccianti secondo quanto emerge dalle inchieste in corso. Come detto, le vittime sono nella maggior parte dei casi persone con regolare permesso di soggiorno e cittadini comunitari, a cui viene proposto un contratto di lavoro. Questo è, però, soltanto una copertura delle condotte di sfruttamento che prevedono un salario inferiore a quanto previsto dal contratto nazionale, flessibilità eccessiva di orari, straordinari non pagati fino ad arrivare alle violenze vere e proprie.
“Nella quasi totalità delle inchieste monitorate” si legge nel Rapporto, “violenza e minaccia, che pure sono quasi sempre presenti, intervengono in un momento successivo rispetto all’instaurazione del rapporto di lavoro. Si tratta, cioè, di modalità della condotta che non vengono utilizzate per persuadere il lavoratore ad accettare particolari condizioni che, altrimenti, avrebbe rifiutato; bensì di mezzi di cui ci si avvale per mettere a tacere eventuali rivendicazioni delle vittime quando, ad esempio, non viene loro corrisposta neanche la bassissima retribuzione promessa.”
Le irregolarità più frequenti riguardano poi la quantificazione della retribuzione, ben al di sotto dei minimi previsti per legge, oppure la violazione delle norme in materia di igiene e sicurezza sul lavoro. In quest’ultimo caso, rientrano anche alcune inchieste a proposito delle condizioni di trasporto dei braccianti, un ambito su cui opera spesso il caporale, come dimostra il caso del doppio incidente dell’estate del 2018 che è costato la vita a 16 persone in Puglia, nel foggiano.
In conclusione, i ricercatori esprimo preoccupazione per la “mancata attivazione del percorso di protezione sociale previsto da una legge più vecchia, l’articolo 18 del Decreto legislativo 286 del 1998 in favore delle vittime del reato di sfruttamento lavorativo aggravato da violenza o minaccia”. Questo aspetto, che nasce per tutelare le persone coinvolte negli episodi, è stato previsto per ora una volta soltanto, ovvero nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Foggia. Su questo, ribadiscono le associazioni, è fondamentale continuare a tenere alta l’attenzione e lavorare.