Quando si nomina la Sardegna, è difficile non pensare subito alle sue spiagge selvagge e incontaminate, al suo mare cristallino, a quel mix di profumi di erbe e arbusti aromatici, come i ginepri marini, il rosmarino e il mirto. Ma la Sardegna non è solo questo: con gli anni, la sua cucina – caratterizzata da piatti “poveri” ma ricchi di sapori complessi – ha saputo conquistare i palati dei turisti e diventare un punto di riferimento nel panorama culinario internazionale. Infatti, piatti come i culurgiònes, il pani frattau, oppure la fregola hanno attraversato il Mediterraneo e oltrepassato le coste, entrando nelle cucine dei ristoranti oppure nei supermercati. Ma se vogliamo parlare di dessert, è uno il dolce sardo per eccellenza: la seada. Scopriamo insieme le origini e la ricetta di questo piatto tipico che richiama alla mente il sole caldo dell’estate… promettiamo che sarà amore al primo assaggio!
Seada sarda: le origini
Per chi non avesse ancora avuto la fortuna di assaggiarla, la seada sarda è un piatto che deriva dalla cucina “povera”, che utilizza ingredienti semplici e di facile reperibilità: consiste in una tasca chiusa di pasta di semola (ricorda una sorta di calzone rotondo con una tipica smerlatura) ripiena di formaggio fresco, che viene poi fritta e avvolta nel miele. Ma se la semplicità è una delle caratteristiche di questo piatto, in virtù della sua storia antica, altrettanto non si può dire delle controversie legate al suo nome.
Le origini del nome
Seada, sebada, seatta, sevada: paese che vai, nome che trovi! Tra l’altro, l’uso comune ha trasformato lentamente (e non correttamente) la seada (o sebada) nel suo plurale invariabile, “seadas” (o “sebadas”), e sulle carte dei menù di solito troviamo scritte proprio queste ultime due versioni. Al di là delle varianti linguistiche legate alle diverse zone dell’isola, le origini del nome sono piuttosto controverse.
Secondo alcune fonti, bisogna ricercare il significato etimologico al di là del mare, in Spagna, dal momento che la Sardegna è stata sotto suo dominio dagli ultimi decenni del Quattrocento fino al 1714: deriverebbe, quindi, dalla parola spagnola cebar, che in italiano possiamo tradurre come “cibare, alimentare”. Ma secondo il DES (Dizionario Etimologico Sardo) di Max Leopold Wagner, un etnologo e glottologo tedesco considerato il maggior studioso della lingua sarda, la seada sarebbe così chiamata per il suo “lustro untuoso”, e la definisce come: “una schiacciata rotonda fatta di formaggio vaccino fresco con burro e spesso con farina e uova”. Al di là del fatto che la preparazione originale non prevede l’uso delle uova, per il ricercatore il termine seada deriva dal termine sardo sebu/seu (con cui s’intende il grasso animale), per la lucentezza che possiede il dolce una volta ricoperto con il miele: quindi, equivarrebbe a segata, non nel senso di “tagliata in due” (intendendo le due metà di pasta che compongono l’involucro esterno del dolce, come credevano alcuni), ma di “lucida, come cosparsa di sego”.
Molti non sono per nulla convinti da questa spiegazione, dal momento che nella ricetta originale non si utilizzava il miele. Più avanti nel DES, lo stesso Wagner segnala tra i derivati di seu il verbo asseàre e l’aggettivo asseàu (femm. asseada), che significano, rispettivamente, “puzzare di sego, irrancidire” e “rancido”. Perciò, non sarebbe più logico interpretare la seada come “inacidita”, facendo riferimento al processo di inacidimento del formaggio fresco, fondamentale per la ricetta? Ma non è tutto, perché secondo altri ancora, bisogna far risalire il nome dalla parola latina sebum, riferendosi semplicemente all’uso del grasso animale nella preparazione.
La seada: un dolce che non è un dolce
Se il significato del nome è controverso, i dubbi sono pochi, invece, per quanto riguarda la sua tradizione: originaria delle aspre e brulle zone interne della Sardegna, come la Barbagia, l’Ogliastra, la Gallura e il Logudoro, la seada sarda è un piatto che veniva preparato dalle donne per festeggiare le ricorrenze speciali, come il Natale o la Pasqua, ossia quando i loro mariti pastori rientravano dai lunghi periodi di transumanza. Ma sorpresa… non è un dolce! Infatti, le seadas erano salate e, soprattutto, erano un saporito e nutriente piatto unico (o comunque un secondo): un tempo, erano mannas cantu su prattu, ossia grandi quanto il piatto in cui erano servite, perché, con poco, bisognava appagare i pastori che erano stati via a lungo. Col passare del tempo, si è pensato di farlo diventare un dolce aggiungendogli una guarnizione di miele al corbezzolo oppure al castagno e riducendo la dimensione delle forme: così è nata la seada come la conosciamo noi e, purtroppo, oggi, sono rimaste pochissime le zone della Sardegna dove si conserva ancora la variante salata.
La ricetta della seada sarda
Gli elementi essenziali per la preparazione di una perfetta seada sono due: la pasta e il ripieno di formaggio. Per la pasta, si tratta della cosiddetta pasta violada o violata, tipicamente sarda, preparata con la semola di grano duro e lo strutto (o più raramente con l’olio d’oliva): rispetto alla farina normale, la semola è più grossa e ha un caratteristico colore dorato, che regalerà al composto una consistenza differente e un profumo inconfondibile. Infatti, per ottenere una perfetta pasta violada, occorre una buona manualità e una lenta lavorazione, dal momento che va schiacciata, tesa e ripiegata fino a che non si ottiene un composto liscio, omogeneo e, soprattutto, elastico. Per il formaggio (principalmente pecorino sardo non salato), invece, il segreto è che deve essere freschissimo e acidognolo al punto da filare dopo la cottura: un tempo, per farlo inacidire le donne della Sardegna lo avvolgevano in un panno umido e lo lasciavano riposare per almeno due giorni.
Si tratta, quindi, di un dolce semplice, ma abbastanza laborioso nella preparazione e “impegnativo” dal punto di vista nutrizionale. Come sempre accade con il cibo, a seconda della zona, la seada è preparata in modo leggermente differente, ma noi vogliamo proporvi questa ricetta originale che ci ha regalato una nonna sarda.
Ingredienti
Per la pasta violada
- 300 g di semola di grano duro
- 150 ml di acqua tiepida
- 1 pizzico di sale
- 30 g di strutto
Per il ripieno
- 300 g di formaggio di pecora freschissimo (di uno o due giorni)
- Un cucchiaio di semola di grano duro
- 10 ml d’acqua
- 1 scorza di limone grattuggiata (o anche di arancia)
- q.b. di olio d’oliva per la cottura
- q.b. di miele di castagno o corbezzolo per servire
Procedimento
- In una ciotola capiente, mettete la semola e lo strutto a temperatura ambiente e il pizzico di sale.
- Aggiungete l’acqua a filo, poco alla volta, e lavorate finché l’impasto non sarà compatto.
- A questo punto, trasferitelo sul tavolo da lavoro e continuate a lavorarlo a mano fino a ottenere un composto morbido, liscio e omogeneo. Copritelo con la pellicola e lasciatelo riposare per una trentina di minuti (anche in frigorifero), mentre preparate il ripieno.
- In un tegamino sul fuoco, mettete il formaggio tagliato a piccoli pezzi insieme all’acqua e alla scorza grattugiata del limone: mescolate con un cucchiaio di legno a fiamma bassa.
- Quando il formaggio sarà completamente sciolto, aggiungete la semola e fate attenzione a continuare a mescolare (l’acqua in eccesso deve asciugarsi).
- A questo punto, potete lasciar riposare il formaggio fuso per circa 30 minuti direttamente, oppure stendendolo su una teglia.
- Prendete la pasta e, su un piano di lavoro insemolato, stendetela con il mattarello: dovete ottenere una sfoglia spessa circa 3 mm.
- Prendete un coppapasta e tagliate dei dischi di 10-12 cm circa.
- Su ogni disco, adagiate due cucchiai di formaggio e chiudete sovrapponendo un altro disco: fate attenzione a premere bene i bordi (per chiuderli potete aiutarvi con una forchetta)!
- Tagliate la pasta in eccesso con la rotella o con l’apposito stampo con bordo ondulato.
- Scaldate abbondante olio in una padella e, quando pronto, friggete la seada: è importante cercare di non girarla mai, perciò versate l’olio con un cucchiaio sopra la parte che resta scoperta.
- Quando inizierà a colorarsi e a fare delle bollicine, è il momento di toglierla dal fuoco: fatela scolare sulla carta da cucina, cospargetela di miele et voilà… la vostra seada è pronta per essere gustata!
Varianti della seada sarda
Come i possibili significati del nome, varie sono anche le interpretazioni della ricetta, a seconda della zona di produzione e degli ingredienti che si vogliono utilizzare. La prima variante, riguarda la preparazione del formaggio: la ricetta che vi abbiamo proposto sopra prevede l’uso del formaggio cotto, mentre in un’altra ricetta della seada utilizza il formaggio crudo, in una versione che viene definita sa mandrona, ossia “poltrona”, “pigra” (in questo caso, basta grattugiare il formaggio e unirlo al limone o all’arancia e poi, con un cucchiaio, metterlo direttamente al centro del disco di pasta). Sempre per quanto riguarda il ripieno, in alcune zone si usa anche il formaggio di latte vaccino, ma in ogni caso è essenziale farlo inacidire per ottenere quella filatura caratteristica della seada. Inoltre, oggi, per la preparazione della pasta violada, si preferisce usare l’olio d’oliva al posto dello strutto, sicuramente più “leggero”, oppure lo zucchero al posto del miele (o anche, il miele millefiori dal sapore più dolce e meno amaro rispetto a quello di corbezzolo); infine, molti usano le uova per l’impasto, ingrediente che non era previsto nella ricetta tradizionale.
Quel che è certo è che la seada è un dolce che andrebbe mangiato subito, quando è ancora caldo e il formaggio filante, o al massimo entro due giorni: nel caso in cui, invece, ciò non fosse possibile, bisogna congelarlo e poi cuocere, in un secondo momento.
Che la vogliate gustare col formaggio crudo o cotto, con la scorza di limone o di arancio, il succo è sempre quello: la seada sarda, oggi iscritta alla lista dei prodotti agroalimentari tipici (PAT), è un gioiello gastronomico che ha saputo varcare i confini della Sardegna e conquistare i cuori di tutti!
Voi conoscevate questo dolce sardo? Quale versione vi ispira di più?