A fine novembre una rivista spagnola specializzata sul mercato dell’olio avvertiva: “In Andalusia gli italiani comprano extravergine a 2,95 euro al litro”. Una notizia accolta non proprio con soddisfazione e che allo stesso tempo raccontava del momento del mercato nella penisola iberica e, indirettamente, il caos che l’oro verde è costretto a vivere in Italia. In sintesi, e in attesa dei numeri reali sulla produzione del 2015: dopo la beffarda analisi del New York Times di quasi due anni fa, la disastrosa annata 2014, la denuncia dell’Agenzia delle Dogane, l’inchiesta della Procura di Torino sul falso extravergine, ecco che le previsioni sull’annata che si va completando sembrano incoraggiare l’Italia. Ma il costume di andare a comprare all’estero, evidentemente, non è passato di moda, come avvertono dalla Spagna. E dunque, il caos è ancora tale.
Lo scandalo dell’extravergine fasullo
L’ultimo scandalo, in ordine di tempo, ha scoperchiato un costume che secondo gli addetti ai lavori è sempre in voga: spacciare per extravergine un olio che non lo è. Sul registro degli indagati di un’inchiesta del sostituto procuratore di Torino Raffaele Guariniello sono stati iscritti per frode in commercio i rappresentanti di Carapelli, Bertolli, Santa Sabina, Coricelli, Sasso, Primadonna e Antica Badia. Tra i reati ipotizzati non solo la frode, ma anche la vendita di prodotti industriali con segni mendaci.
Quello che i marchi incriminati non avrebbero riportato in etichetta, cioè difetti organolettici dell’olio spacciato per extravergine, frutta una maggiorazione anche del 50% (sugli scaffali una bottiglia da 3 euro al massimo ne costa 6) rispetto al prezzo di un prodotto semplicemente vergine o addirittura inferiore. Un bel guadagno, ma in ballo ci sono cifre ben più importanti. Perché dietro alcuni storici marchi italiani, tra i quali Carapelli e Bertolli, c’è da anni Deoleo, lo storico gruppo spagnolo oggi non più florido come prima (è controllato ora dal fondo Cvc) ma sempre detentore di una importante fetta del mercato mondiale: nel 2011, ha scritto due anni dopo nel suo libro Cibo criminale Luca Ponzi, l’azienda possedeva quasi un quarto del mercato globale dell’olio d’oliva, con un fatturato di 1,5 miliardi di euro.
Italia, Paese di santi e importatori
Se da un lato i più celebri marchi italiani in realtà tricolori non lo sono più, dall’altro la penisola, secondo produttore mondiale (dopo la Spagna, ovviamente), è anche il primo importatore. Il consumo interno di olio d’oliva, secondo la recente indagine di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla pirateria, raggiunge le 600mila tonnellate l’anno, contro una produzione di circa 400mila tonnellate. Così nel 2013 sono arrivate in Italia 460mila tonnellate di olio straniero. Spagna, Grecia, Tunisia. Numeri destinati ad aumentare visto il calare della produzione italiana a causa del clima e della fitopatologia della Xylella, mortale soprattutto in Puglia. Tutto questo, secondo il nucleo antifrode dell’Agenzia delle dogane, potrebbe avere un prezzo da pagare, sotto forma di profili penali per via di un presunto cartello tra Italia e Spagna che potrebbe essere l’oggetto della prossima inchiesta giudiziaria sull’olio. L’Antitrust, intanto, ha messo gli occhi sui 7 marchi indagati dalla Procura di Torino (che prendeva le mosse a sua volta dalla denuncia di una rivista, “Il test”), accusate di pratiche commerciali scorrette.
I numeri
Meglio ricordarli, per far capire quanto in Italia vale il mercato dell’extravergine. Nella penisola ci sono almeno 150 milioni di piante (250 milioni secondo Coldiretti), distribuite su una superficie di oltre un milione di ettari. Un sistema che occupa oltre 700mila aziende agricole, quasi 5mila frantoi e 220 imprese industriali. L’Italia può contare su almeno 500 cultivar, e ben 43 denominazioni di origine protetta. Il secondo produttore mondiale di olio d’oliva spera quest’anno (stime della Coldiretti) di tornare a 400mila tonnellate di prodotto, dopo le 300mila della scorsa drammatica stagione, e di tornare a un fatturato di 2 miliardi di euro.
Le verità del New York Times
Ridimensionata, criticata, alleggerita dallo stesso giornale americano. Ma oggi l’inchiesta del New York Times “Extra virgine suicide”, 15 tavole che illustrano “the adulteration of italian olive oil”, riemerge proprio come olio, galleggia nel torbido maremagnum che rischia di travolgere il settore. Fece ridere e provocò polemiche a non finire, era il gennaio 2014, il servizio, che interveniva all’americana e spiazzò i poco abituati lettori italiani. Un racconto in slide disegnato da Nichola Blenchman, art director del New York Times Book Review, e basato sul blog “La verità nell’olio di oliva” di Tom Mueller, raccontava dunque che “gran parte dell’olio italiano venduto come olio di oliva non viene dall’Italia ma da Paesi come Spagna, Marocco e Tunisia”. E che il porto di Napoli, l’unico raffigurato, arriva non solo l’extravergine ma anche olio di soia e altri a basso costo, etichettati poi come olio di oliva. E che, insomma, l’Italia è il più grande importatore mondiale. La retromarcia del Nyt, sollecitata dalle proteste italiane, arrivò qualche giorno dopo su alcuni aspetti dell’inchiesta, ma la sostanza del servizio rimane oggi intatta. Anzi, rafforzata.
Le etichette delle quali diffidare
Il consumatore, in questo miliardario balletto della contraffazione, è forse una delle poche vittime, insieme ai piccoli e medi produttori italiani che fanno della qualità e dell’originalità il loro punto di forza. Le associazioni italiane stanno dunque facendo a gara a stilare decaloghi che lo aiutino a evitare le fregature. L’etichetta della bottiglia di extravergine, per esempio: Altroconsumo avverte che sugli scaffali sono sempre più le etichette con diciture come “gentile”, “delicato” o “classico”, utilizzate dai produttori per descrivere il gusto del proprio prodotto a fini prettamente commerciali. Ebbene, queste definizioni non trovano un riscontro nelle caratteristiche previste dalla legge: “l’extravergine di oliva può essere definito solo amaro, dolce, equilibrato, fruttato e piccante”. E poi, meglio diffidare di prodotti che costano meno di 5 euro. Varrebbero meno del costo di produzione, se si trattasse di vero extravergine.