Gli inglesi lo chiamano “sweet tooth” (letteralmente “dente dolce”), e chi ce l’ha è un vero patito dei dolciumi, quello che noi definiremmo più comunemente un goloso. Anche da noi, infatti, esistono persone con la passione per la pasticceria e i cibi zuccherini in genere. Eppure siamo certi che, anche senza essere tra queste, più di una volta vi sarà capitato di non saper rinunciare al dessert, magari proprio al termine di una ricca cena e sentendovi già sazi. Ma com’è possibile? Perché, contrariamente ai gusti e alla voglia apparente, si finisce per cedere quasi sempre alla tentazione di un’ultima portata?
La risposta ha un nome preciso: sazietà sensoriale specifica, o sensory-specific satiety (SSS), e aiuta a capire alcune delle abitudini alimentari più diffuse, ben oltre la scelta del dessert.
La sazietà sensoriale specifica e il senso di pienezza
La sazietà sensoriale specifica è un fenomeno psicologico noto alla scienza almeno dal 1980 e Barbara J. Rolls, direttrice del Laboratorio per gli studi delle Scienze Nutrizionali alla Penn State University, è una dei maggiori esperti in materia. È a lei e ai suoi colleghi (E.A. Rowe, E.T. Rolls, Breda Kingston, Angela Megson e Rachel Gunary) che si devono infatti alcuni degli esperimenti più citati e replicati ancora oggi e alcune delle riflessioni più note sull’argomento. Argomento, anzi istinto che, secondo la tesi della studiosa, viene fortemente condizionato dalla varietà dei sapori che proviamo durante il pasto. Passare da un alimento salato a uno dolce, ad esempio, può portarci a superare il nostro stesso senso di pienezza e a mangiare di più di quanto saremmo pronti a dichiarare, solo perché abbiamo inconsapevolmente voglia di cambiare gusto. Al contrario, più il menù è monotono e ripetitivo, e più facile sarà raggiungere l’appagamento, anche se apparente.
Attenzione però a non confondere la sazietà sensoriale specifica con un altro fenomeno, definito come “allestiesia”, ovvero il cambiamento della percezione sulla base dello stato d’animo personale per cui, nel caso del cibo, un alimento può sembrarci buono per poi diventare, a causa di una serie di influenze psicofisiologiche, neutro o addirittura spiacevole. “Ne ho già avuto abbastanza di un certo cibo, voglio qualcosa di diverso, è in questo che consiste principalmente la sensory-specific satiety” ha spiegato Rolls in una recente intervista. Questo significa che, quando ci viene proposto un dessert, non necessariamente siamo arrivati al punto di massima soddisfazione, ma semplicemente ci siamo stancati di provare sempre lo stesso sapore: si tratta perciò di una sazietà relativa, non assoluta. E sensoriale, come le sperimentazioni di Rolls hanno dimostrato.
[elementor-template id='142071']3 esperimenti sulla sazietà sensoriale specifica
Nello studio intitolato Variety in a Meal Enhances Food Intake in Man (“La varietà nel pasto aumenta l’apporto di cibo nell’Uomo”) Barbara J. Rolls e il suo team hanno provato come la sazietà sensoriale specifica si attiva e come può influire sulla quantità di cibo che si decide di mangiare. L’équipe di ricerca ha sottoposto tre gruppi di volontari (ignari del reale scopo del test), di età compresa tra i 18 e i 25 anni e di entrambi i sessi, a svariate prove di assaggio con l’intento di analizzare diversi aspetti della SSS.
- Nel primo esperimento sono stati preparati quattro sandwich con quattro differenti farciture per ciascuna delle 36 volontarie coinvolte. Nella prima settimana, però, è stato servito loro solo un sandwich, lo stesso per ciascuna delle 4 portate del test (“plain condition”); mentre, nella seconda, si sono susseguiti tutti e quattro i gusti, uno dopo l’altro (“variety condition”).
- Il secondo esperimento ha invece riguardato 24 persone ambosessi a cui, come con i panini, sono stati offerti tre tipi di yogurt (noci, ribes nero e arancio), diversi non solo per sapore, ma anche per colore e consistenza. Come per il primo test, anche in questo caso la somministrazione è stata mono-gusto per i primi giorni e variata negli ultimi.
- 24 infermiere hanno invece partecipato all’ultimo esperimento in cui, con le medesime modalità dei primi due, sono stati presentati loro tre yogurt (fragola, ciliegia e lampone) diversi per sapore ma resi appositamente molto simili tra loro, per colore e consistenza.
Da tutte le prove è emerso che i soggetti erano propensi a mangiare di più (nella misura di ben un terzo) quando veniva presentato un piatto nuovo (ovvero durante la “variety condition”) rispetto a quando invece la ricetta si ripeteva sempre uguale per tutte le portate successive. Inoltre, nonostante tra la prima e la seconda vi fosse un calo delle quantità assunte in entrambe le condizioni, tale diminuzione era significativamente maggiore se il cibo era sempre lo stesso. Analoga perdita di interesse si è registrata anche nell’ultimo esperimento, in cui l’apparenza pressoché identica dei tre yogurt ha finito per omologarli agli occhi dei volontari: un’ulteriore prova della correlazione tra la sazietà sensoriale specifica e la varietà, anche superficiale, del cibo.
È così che si spiega allora quella comune inclinazione a mangiare più del solito e a superare la nostra naturale “misura” tipica di certe situazioni, come buffet e pasti con menù a più portate: cambiando continuamente tipo di cibo, il nostro appetito si rinnova. Ma perché il nostro organismo ricorre alla sazietà sensoriale specifica e quali effetti può avere sulla dieta di una persona?
Pro e contro della sazietà sensoriale specifica
“Ci incoraggia a passare da un cibo all’altro, per questo è una buona cosa”: Barbara J. Rolls è convinta che la sazietà sensoriale specifica abbia aspetti positivi e negativi. Tra i primi sottolinea la necessità, per gli esseri onnivori come l’uomo, di variare spesso l’alimentazione e garantire così l’assorbimento di diversi nutrienti utili per uno stato di salute e benessere. Una condizione che la progressiva assuefazione del gusto a certi sapori e il sopraggiungere della “noia papillare” possono stimolare, spingendoci inconsciamente verso cibi diversi. Un altro punto a favore di questo impulso è dato dalla distanza temporale che intercorre tra l’ingestione e la digestione. Si tratta infatti di una specie di meccanismo difensivo o conservativo che ci porta a esaurire in breve tempo la voglia di certi cibi, compresi quelli nuovi e sconosciuti (di cui magari siamo inizialmente entusiasti), prima che questi vengano processati dal corpo con conseguenze non prevedibili e potenzialmente non gradite.
Uno dei rischi più evidenti, però, non può che essere la deriva ingorda o, quanto meno, la possibilità di continuare a mangiare anche oltre il senso di sazietà vero e proprio, soprattutto quando altri fattori entrano in gioco: basti pensare a contesti di elevata socialità o, al contrario, ai pasti in solitaria, entrambe situazioni di probabile disinibizione e superamento dei nostri limiti. Se poi si considera che il corpo umano è programmato per immagazzinare grasso (come abbiamo visto quando ci siamo domandati se il calcolo delle calorie fosse o meno un buon sistema per dimagrire), si possono presupporre le implicazioni che tale tendenza potrebbe avere su alcuni disturbi legati al comportamento alimentare.
Infatti, per quanto la sazietà sensoriale specifica non dia ragione della scelta di un cibo piuttosto che di un altro, non è raro che si manifesti in casi in cui si passa dal sapido al dolce, dallo scondito al condito o semplicemente da un sapore all’altro, anche all’interno della stessa tipologia di cibo: questo spiegherebbe, ad esempio, perché siamo portati a mangiare più patatine fritte se abbiamo a disposizione delle salse o più palline di gelato se i gusti variano.
Oltre il dolce c’è di più: il “dessert stomach” e l’effetto sull’appetito
E se dopo aver mangiato il dolce, ci ritorna l’appetito? Merito, o colpa, del cosiddetto “dessert stomach”, lo “stomaco da dessert” appunto. Secondo questa tesi, elaborata qualche anno fa dal Dr. Arnold Berstad e dal collega Jorgen Valeur, del Lovisenberg Diakonale Hospital di Oslo, gli zuccheri aiuterebbero ad allentare la pressione sullo stomaco, preparandolo ad accogliere altro cibo. Agendo sul nervo vago, che controlla anche la digestione, tali sostanze sarebbero infatti in grado di produrre uno stimolo che rilassa le pareti dello stomaco, diminuendo la tensione data dalla pienezza e, in ultima istanza, potenziando la sua capacità contenitiva, almeno limitatamente al pasto in corso.
Il dessert stomach, combinato alla sazietà sensoriale specifica, può quindi aiutare a capire certi fenomeni di fame illimitata e cibo in eccesso. Possiamo così confermare che, come recita uno dei modi di dire sul cibo più comuni, l’appetito vien mangiando. Soprattutto cose diverse, dovremmo aggiungere.
E voi eravate già a conoscenza dell’esistenza della sensory-specific satiety e dei suoi effetti sul nostro comportamento alimentare?