Entrare in un carcere non dovrebbe mai essere un’esperienza folkloristica, come se la visita fosse uno spettacolo a cui partecipare, nemmeno quando al suo interno c’è un ristorante come nel caso di InGalera a Bollate, Milano. Perché entrare in un carcere non significa varcare le porte di un circo con dentro animali, colpevoli, tenuti in gabbia, da osservare e magari anche da fotografare.
Entrare in un carcere significa trovare persone che, qualsiasi siano i crimini commessi e seppur con delle responsabilità anche forti, hanno delle storie, a volte, da raccontare. Storie che possono impressionare o emozionare, sicuramente trasportare, poiché questa è la concessione che l’uomo in quanto tale dovrebbe fare prima di tutto a se stesso.
Dunque, a mio parere, se liberi da qualsiasi spazio di giudizio, sono queste le premesse che dovrebbe porsi chi decide di entrare in un carcere, soprattutto in realtà come quella di Bollate, che, a differenza di altri, rende più vicina e possibile la relazione tra chi sta dentro e chi sta fuori. Nel giorno in cui noi siamo entrati nel carcere e abbiamo conosciuto più da vicino la realtà del ristorante InGalera, l’unico in una casa penitenziaria, c’era in corso una partita di calcio tra padri e figli.
Catering, studio e un giornale: vita nel carcere
Dal carcere di Bollate escono in media circa 250 persone al giorno: vanno a fare sport o volontariato, a insegnare italiano oppure a tenere lezioni di cucina. Possono anche studiare e laurearsi all’Università, come il responsabile dei catering che sta per concludere un percorso di Giurisprudenza. O ancora, appunto, lavorare nel catering che da anni “esce” da Bollate in occasione di vari eventi e che è stata la cellula primordiale dell’esperienza di InGalera. Ogni due mesi esce anche un giornale, “Carte Bollate”, un periodico di informazione scritto dai detenuti con l’aiuto di volontari esterni, per raccontare pensieri, riflessioni e problematiche dall’interno. Inoltre, proprio di recente, è stata inaugurata una mostra fotografica, “Riscatto”, con fotografie scattate dopo la frequentazione di un corso.
Insomma qui a Bollate l’importante è non far branda, cioè tenersi occupati e condensare il più possibile lo scorrere del tempo, nella profonda convinzione che far qualcosa sia comunque sempre meglio di non fare niente. Scopo principale, infatti, è quello di ridurre la recidività, poiché imparare un mestiere crea una possibilità di riscatto, una speranza. Ma la speranza, come tutte le cose più belle della vita, può anche invadere e diventare assordante, può avere la forma di un filo a cui ci si sente appesi tutti i giorni o quella di una chimera da rincorrere, a volte così sfuggente, altre così tangibile e concreta. Perché il tempo può essere tutto, ma anche niente.
Articolo 21: diritto di lavorare
Tutto questo ha un nome e si chiama Articolo 21. Il riferimento è all’Ordinamento Penitenziario e si tratta del è il beneficio di legge che permette al detenuto di uscire dal carcere durante il giorno per lavorare. Ne possono godere tutti, imputati e condannati, come pure gli ergastolani dopo l’espiazione di almeno dieci anni di reclusione. Viene proposta dalla Direzione e concessa a discrezione del Tribunale di sorveglianza:. Proprio l’Articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario è una delle condizioni che dà la possibilità di lavorare all’interno dell’unico ristorante nel mondo dentro una casa penitenziaria: InGalera.
Il ristorante InGalera
InGalera è stato inaugurato due anni fa, nell’ottobre del 2015, dentro al carcere di Bollate appunto. Il ristorante ha aperto dopo dieci anni di attività di catering in giro, con l’intento di voler continuare a dare qualcosa alla società, invece che chiedere. Il primo mese è stato un bombardamento mediatico continuo: giornalisti e tv all’ordine del giorno, New York Times compreso, poiché è innegabile che la notizia sia stata di forte impatto.
Ma quella di InGalera non è una favola sociale o un’esperienza da ricordare con un selfie, quanto una realtà fatta di persone che tutti i giorni lavorano sodo, come in un qualsiasi altro ristorante. E che a volte, magari, soffrono pure, anche se in realtà per il cuoco “questo non è un lavoro, ma un gioco, perché tanto cucinare e mangiare sono due azioni che comunque devi fare tutti i giorni”. Infatti, lui cucinava sia prima di entrare in carcere, sia prima del ristorante InGalera, tanto che i suoi compagni ancora si ricordano i profumi di pasticceria che uscivano dalla sua cella.
Il menù InGalera
Al ristorante InGalera fanno tutto loro: macinano la carne, preparano il pane, ma soprattutto vanno personalmente a fare la spesa. E ai commessi del supermercato non interessa chi essi siano, sono clienti, come tutti gli altri. Lo chef, ad esempio, è un amante del maiale: uno dei piatti forti, infatti, è il Filetto in crosta con fave di tonka. Poi c’è la Terrina di foies, la Lasagna aperta con pere e porcini, il Risotto con aglio nero e quaglia; come secondi il Salmone al Gin Tonic, la Millefoglie di Merluzzo confit con chips di rape colorate e poi il Gambero Killer e il Pollo alla Kiev in onore di Gualtiero Marchesi, perché il cuoco è stato uno dei primi a fare la Scuola di Cucina Alma. Infine, ovviamente, Polenta e aringa e Cassoeula poiché entrambi gli chef sono di origine milanese. Uno di loro ha anche scritto un libro: “I colori della mia vita”.
Se davvero siete interessati a capire profondamente che cosa significhi l’esperienza di InGalera, evitate di farvi selfie fuori dal locale; per qualcuno potrebbe essere persino umiliante. Provate invece ad entrare, davvero, dentro e ad avere, comunque, rispetto. Perché proprio in quel momento ci potrebbe essere qualcuno che sta cercando di riacquistare una dignità che alcune forme di detenzione sembrano cancellare.
Anche se su 60.000 detenuti circa in Italia ne lavorano solo 2000, oggi il lavoro in carcere sembra una realtà sempre più diffusa su quasi tutto il territorio nazionale. Basti pensare alla vicina Opera, sempre in provincia di Milano, dove la Cooperativa Sociale Opera in Fiore promuove il lavoro nelle carceri con manutenzione del verde, nursery per piante, giardini e orti verticali, ma anche laboratori artigianali di sartoria; o all’esperienza di Gorgona, l’unica isola penitenziaria d’Italia, dove insieme a ulivi e apicoltura, animali e caseificio, la storica cantina dei Marchesi Frescobaldi ha assunto tre detenuti per la produzione di un vino, Gorgona appunto. E a proposito di isole, che sappiamo essere da secoli luoghi ideali per le prigioni, che dire del carcere femminile della Giudecca, l’insieme di otto isolette che guardano Venezia? Lì, grazie alla cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri, le detenute curano un orto biologico e realizzano cosmetici di alta qualità a partire dalla distillazione di alcune piante coltivate, mantenendo viva l’antica tradizione veneziana della cosmesi artigianale.
E sempre in Veneto, nel carcere di Padova, vi avevamo già parlato dei Panettoni artigianali Giotto che nascono in un laboratorio di pasticceria unico, preparati con cura dai detenuti nella Casa di Reclusione Due Palazzi.