Il menù del giorno prevede: risotto alla monzese. Oltre a essere uno dei risotti della tradizione lombarda, è un piatto rappresentativo di Monza e un po’ di tutta la Brianza. Le teorie sulle sue origini sono contrastanti e persino avvolte da un manto di leggenda popolare, così com’è dibattuto il modo di prepararlo: con zafferano o senza? Sfumato con vino bianco o rosso? Proveremo a fugare ogni dubbio, partendo dall’unica certezza, il suo ingrediente principe: la luganega.
Il risotto alla monzese tra tradizione e leggenda

Tracce e documenti storici che permettano di datare l’origine di questo piatto e come si è radicato nelle abitudini locali non ce ne sono. Esiste, invece, una leggenda legata a una strega di nome Giubiana: creatura dalle mostruose fattezze, con le sue lunghe gambe si aggirava nei boschi della Brianza saltando di albero in albero in caccia di bambini. Di notte si spingeva persino fuori dal bosco, allungandosi fino alle finestre delle stanze dove dormivano per rapirli e cibarsene. Il terrore seminato dalla strega spinse una madre a tenderle una trappola: preparare un enorme pentola di risotto con salsiccia e zafferano da lasciare fuori dalla finestra. La Giubiana ne venne irresistibilmente attratta, vi si avventò con voracità, dimenticandosi non solo dei bambini, ma anche del sopraggiungere dell’alba. La luce del sole così la sorprese, disintegrandola.
Questa leggenda si è tramandata nel tempo, con mamme e nonne a usarla come monito per scoraggiare figli e nipoti dall’idea di avventurarsi per boschi. Ma soprattutto si è tradotta in un’usanza popolare, quella di allestire roghi su cui bruciare in pubblica piazza il fantoccio di una strega. Un atto simbolico che in numerosi comuni brianzoli si celebra annualmente intorno alla fine di gennaio. Questa circostanza fa pensare che si tratti di un rituale antico, risalente all’epoca pre cristiana: si dava idealmente fuoco alla terra arida dell’inverno per fertilizzarla con le sue stesse ceneri ed evocare al contempo buoni auspici per l’imminente avvento della primavera. Qualcosa che ricorda l’usanza dei falò di Sant’Antonio, ricorrenza che cade il 17 gennaio e che viene similmente celebrata in diverse parti d’Italia. Ma tornando all’argomento di partenza: il rogo della strega inscenato in Brianza ha il suo naturale epilogo in una liberatoria mangiata collettiva, dove si cucinano pentoloni di quel risotto che liberò la popolazione autoctona dall’incubo della Giubiana.
Piatto povero o dell’alta borghesia? Con o senza zafferano? Tra tanti dubbi, una certezza: la luganega
Quanto appena raccontato fa pensare a una tradizione contadina e quindi induce a collocare il risotto alla monzese come “piatto povero”. Cosa che anche il suo ingrediente principe sembrerebbe indicare: la salsiccia, infatti, è un insaccato che rimanda al tempo in cui del maiale non si buttava via niente. Ma l’elemento caratterizzante del risotto alla monzese è in realtà la luganega e in particolare quella lombarda riconosciuta come PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale). Un macinato di carne suina insaccata sì, ma ben diverso da una comune salsiccia. Innanzitutto per la particolare forma: stretta (4-5 cm di diametro), allungata (circa 20 cm di lunghezza) e ripiegata su se stessa a mo’ di chiocciola. A caratterizzarla però è anche il contenuto: carne di puro suino macinata piuttosto finemente, arricchita con Grana Padano, vino, erbe aromatiche e infine insaccata in budello naturale. In passato si usava aggiungervi persino del brodo di carne. Non una preparazione da tagli di seconda scelta, ma una ricchezza di ingredienti più affine allo status benestante della borghesia brianzola, cui porta anche il secondo dibattuto elemento.
Già, perché sullo zafferano esistono due diverse scuole di pensiero: c’è chi lo ritiene imprescindibile e chi, invece, sostiene che il vero risotto alla monzese non sia giallo. Quest’ultima teoria è più in linea con l’idea che sia un piatto di origine contadina, dove quindi non c’era spazio per la rara e costosa spezia che oggi vanta varietà autoctone, come lo Zafferano dell’Aquila DOP, ma che un tempo era unicamente importata dall’Oriente.
La presenza o meno dello zafferano è il più evidente ma non unico elemento di discordia. Alla base della preparazione c’è un soffritto di burro e cipolla, nel quale si fa prima rosolare la luganega e poi tostare il riso. A questo punto si sfuma col vino bianco… anzi, no. Forse è meglio il rosso.
Vino bianco o vino rosso? Ecco l’altro nodo cruciale al quale non c’è soluzione. O meglio, la soluzione esiste e consiste nell’accettazione pacifica di queste due correnti di pensiero. Chi ama sfumare col vino bianco ne predilige la delicatezza e questo in genere si sposa meglio con l’aggiunta dello zafferano e quindi con la versione più borghese del piatto. Chi, al contrario, predilige il rosso vuole imprimere una sferzata di colore, ma soprattutto di carattere, privilegiando i sapori decisi più in linea con le ricette di una cucina povera, ma di sostanza.
Le altre variazioni sul tema si giocano invece su piccoli accorgimenti. In alcune versioni si preferisce utilizzare lo scalogno in luogo della cipolla per un gusto più dolce e aromatico, soffriggendolo magari nell’olio anziché nel burro. Quest’ultimo, tuttavia, è più coerente alla tradizione lombarda, tant’è che non di rado viene aggiunto a tocchetti anche in fase di mantecazione, insieme al Grana Padano grattugiato. C’è, infine, chi adotta l’accorgimento di rosolare la luganega a parte per unirla al riso verso metà cottura o addirittura soltanto alla fine, così da apprezzarne meglio la freschezza e giocare su un diverso grado di consistenze.
Al netto delle interpretazioni, il risotto alla monzese si serve all’onda, con quella caratteristica cremosità che abbraccia e amalgama insieme gli ingredienti: una strutturata base aromatica su cui la consistenza carnosa e la “dolce sapidità” della luganega si erge a protagonista.
La nostra ricetta del risotto alla monzese
Non esiste una ricetta ufficiale del risotto alla monzese. E tra tante interpretazioni e possibili accorgimenti, abbiamo scelto di proporvi questa nostra versione:
Ingredienti per 4 persone
- 300 g di riso per risotti (tipo Carnaroli)
- 250 g di luganega
- 40 g di burro
- 1 L di brodo di carne
- 1 cipolla bianca
- 40 g di Grana Padano DOP grattugiato
- ½ bicchiere di vino rosso (tipo Barbera)
- q.b. sale
- q.b. pangrattato
Ingredienti facoltativi
- q.b. pepe
- qualche pistillo di zafferano
- q.b. timo
Procedimento
- Se vuoi preparare la versione gialla, prima di tutto metti in infusione in una tazzina i pistilli di zafferano con del brodo tiepido per circa un’ora.
- Fai sciogliere ¾ del burro con la cipolla tritata in una pentola antiaderente sufficientemente larga e alta. Fai quindi rosolare mescolando spesso finché la cipolla risulterà traslucida.
- Aggiungi nella pentola il riso e fallo tostare a fiamma vivace per qualche istante, rimestando per evitare che si attacchi alla pentola.
- Sfuma col vino e, una volta che l’alcool è evaporato e i chicchi di riso risultano asciutti e sgranati, aggiungi 2-3 mestoli di brodo e eventualmente anche lo zafferano.
- Prosegui la cottura a fiamma media aggiungendo ulteriore brodo man mano che il riso si asciuga.
- Priva la luganega del budello con un’incisione longitudinale e sgranala con le mani in una padella antiaderente. Scottala qualche minuto a fiamma vivace girandola spesso per renderla uniformemente colorata.
- Dopo circa 15 minuti e comunque col riso giunto alla cottura desiderata, aggiungi il burro rimanente e il Grana Padano per mantecare e unisci anche la luganega.
- Aggiusta di sale e pepe, impiatta e servi.
Il risotto alla monzese è un piatto da gustare caldo, appena fatto. Qualora però dovesse avanzare, può essere conservato in frigorifero per un paio di giorni e cucinato magari gratinato al forno oppure al salto.
La versione proposta adotta l’accorgimento di rosolare la luganega a parte per poi unirla al riso a fine cottura. Oltre al vantaggio di non aggiungere ulteriori grassi, facendo quindi in modo di sfruttare direttamente il suo, si evita di stracuocerla. I bocconcini sodi e carnosi creano così un piacevole gioco di consistenze con la cremosità del risotto, accentuata dall’amalgama tra grana e burro. Se preferite, tuttavia, potete rosolare la luganega direttamente nel soffritto di burro e cipolla e portarla a cottura insieme al risotto. Infine, un accorgimento sul riso. C’è chi predilige tostarlo in una pentola antiaderente asciutta, aggiungendovi poi il soffritto preparato a parte. Questa tecnica, detta “tostatura a secco”, permette di impermeabilizzare meglio i chicchi, che rilasciano meno amidi migliorandone la tenuta in cottura.
Vi abbiamo fatto venire voglia di risotto alla monzese? Vi sentite propensi a preparare in casa la vostra versione o siete più orientati a provarlo in una delle osterie di cucina tradizionale brianzola?
Immagine in evidenza di: goffredo iacobino/shutterstock