Oggi, parole come confini, frontiere, migrazione e migranti, sono entrate a far parte del vocabolario quotidiano e riempiono le pause delle nostre giornate, quando accendiamo la televisione, leggiamo un giornale, o apriamo i social network. Ci troviamo in un’epoca in cui, se da una parte i confini tra i Paesi sono sempre più labili e le identità dei popoli più fluide e in movimento, dall’altra, invece, si irrigidiscono: si alzano muri e barriere, si decide chi deve stare di là e chi di qua, e la parola confine assume un significato sempre più ristretto ed esclusivo.
Tuttavia, mentre ci si chiude dietro a delle linee, fisiche o immaginarie, e per le persone è più difficile attraversarle, c’è qualcosa che continua a muoversi: il cibo. Girando per le strade di qualunque città italiana – da Milano a Roma, da Torino a Napoli – ci imbattiamo in ristoranti che propongono il sushi e i ramen giapponesi, l’hamburger americano, la famosa moussakà greca, o ancora il guacamole messicano o il cous cous e il kebab arabo? Grazie alla cucina, realtà e identità culinarie a noi lontanissime sono sempre più vicine, tanto da ritrovarcele sotto casa. Così, oggi, partendo da questa riflessione sui confini, attraverseremo il Mediterraneo e parleremo della cucina palestinese e dei punti di contatto (o le differenze) con quella italiana. Per intraprendere questo viaggio, ci siamo ispirati al libro “Ricette di confine. Il cibo narrato dalla Palestina occupata”, pubblicato quest’anno per la casa editrice effequ, e abbiamo intervistato la sua autrice, Silvia De Marco, per scoprire i segreti e le storie dietro a una tradizione culinaria antica e ricchissima… Siete pronti a partire con noi?
Una storia dietro ogni piatto: ecco “Ricette di confine”
Due tra gli elementi che più identificano un popolo sono sicuramente il cibo e la cucina. Basti pensare all’Italia che, di questi, ne ha fatto addirittura un brand – il made in Italy – esportato in tutto il mondo e diventato sinonimo di eccellenza del prodotto, ma anche di tradizione e di memoria. Esatto, perché dietro ogni ricetta c’è una storia, e tramandare un piatto significa creare una memoria condivisa. Perciò, se vogliamo conoscere un popolo e la sua essenza, la cucina è il mezzo più veloce per farlo: lo sa bene Silvia De Marco, che in Palestina ci ha vissuto quattro anni, occupandosi di progetti educativi con bambini e ragazzi, e che, dopo aver cucinato per mesi insieme agli abitanti del luogo, ha scritto “Ricette di confine”. Si tratta di un libro-ricettario che raccoglie non solo ingredienti e procedimenti per realizzare piatti sfiziosi, ma anche aneddoti e storie di vita di chi abita nella Palestina occupata. A questo proposito, l’autrice commenta: “durante la mia permanenza in Palestina, la passione per il cibo mi ha in qualche modo dato una chiave di accesso a situazioni e sapori che sono diventati ricordi indelebili in me. Davanti ai fornelli ci si capisce anche se non si parla la stessa lingua, e se la si parla, spesso vengono fuori conversazioni molto interessanti e personali”.
Italia e Palestina: due cucine con ingredienti comuni
A unire Italia e Palestina non c’è soltanto il Mar Mediterraneo, ma una base comune di ingredienti: infatti, olio d’oliva, grano, verdure, legumi, spezie e frutta secca sono solo alcune delle materie prime della tradizione culinaria palestinese, che richiamano alla memoria piatti della nostra cucina, soprattutto di quella meridionale. “Avendo avuto la possibilità di entrare in diverse cucine palestinesi, da nord a sud, passando per Gaza, sono rimasta stupita dallo scoprire come tante ricette mi abbiano ricordato il cibo italiano – spiega Silvia – Gli ingredienti principali sono quelli della cucina mediterranea, come anche la preparazione, se si tralascia la presenza di qualche spezia in più”.
Quindi, a unire Italia e Palestina ci sono degli alimenti semplici e facilmente reperibili (ma ricchi per quanto riguarda l’apporto energetico), delle preparazioni non poi così diverse, e anche un riconoscimento delle tradizioni culinarie come fondamento di un’identità sociale. “Per i palestinesi il cibo è uno degli elementi portanti della propria identità, legato alla centenaria tradizione contadina e peschereccia” – continua Silvia – e l’amore per il cibo e per la terra che lo produce sono elementi che riesco bene a comprendere, forse anche per le mie origini meridionali. In Palestina, oltretutto, il cibo e la cucina diventano una forma di resistenza all’occupazione che tenta di sradicare un popolo non solo dalla sua terra, ma anche e soprattutto dalla sua cultura”.
Alcune preparazioni dal libro “Ricette di confine”
“Per me il cibo è sempre stato sinonimo di familiarità e piacere: adoro cucinare e mangiare bene, e farlo a casa con persone care è una delle cose che mi dà più soddisfazione. Ho imparato a cucinare prima di tutto da mia madre, la classica cucina mediterranea fatta di ingredienti semplici e buoni. Poi ho continuato a sperimentare e ricercare nuove ispirazioni, da sola o in compagnia, mi diverto comunque” – aggiunge Silvia rispondendo alla domanda su cosa sia il cibo per lei e raccontandomi di come questa ricerca di sperimentazione e nuove ispirazioni l’abbia portata a cucinare insieme ad Ameen, Alaa, alle donne dei campi profughi, a Salma e altri ancora. Perciò, adesso vi racconto alcune delle ricette tratte dal suo libro “Ricette di confine”, facendo un confronto tra cucina palestinese e cucina italiana e andando a scoprirne le somiglianze e le differenze.
Uova in purgatorio vs. shakshuka
“La prima volta che, ignara di cosa fosse, ho ordinato una shakshuka in un ristorante a Gerusalemme, sono rimasta quasi delusa nello scoprire che l’esotica pietanza dal nome affascinante altro non è che lo stesso uovo al sugo che prepara mia madre”: queste le parole di Silvia che introducono la ricetta di un piatto che ha discendenze lontane. In Italia, si tratta di un’antica ricetta di origine napoletana, economica e molto facile da prepare, e si chiamano così perché, nell’”ova ‘mpriatorio”, il bianco contrasta con il rosso del pomodoro che richiama alla mente le anime del Purgatorio avvolte dalle fiamme. È mai capitato anche a voi di andare in un ristorante straniero, ordinare un piatto dal nome bizzarro ed esotico, e invece ritrovarvi davanti qualcosa di familiare?
Nell’una e nell’altra ricetta gli ingredienti sono gli stessi, a parte un’aggiunta di parmigiano per la versione italiana: servono 8-9 pomodori medi, ben maturi, 3-4 uova, qualche spicchio d’aglio, pepe nero, olio d’oliva, prezzemolo (o basilico, in Italia), e un pizzico di sale. Anche le preparazioni sono simili: per prima cosa, dovete pelare i pomodori e tagliarli in pezzetti non troppo grandi. Metteteli in una padella – dove intanto si sarà fatto imbiondire l’aglio insieme a un filo d’olio – e lasciateli cuocere a fiamma alta per qualche minuto e, poi, eliminate l’aglio, coprite e continuate la cottura a fuoco basso per circa una decina di minuti. A questo punto, le preparazioni variano leggermente: per la ricetta italiana, dovete aggiungere le uova prima di coprire la padella, formando quattro buchi (stando attenti a non romperle) e lasciare cuocere fino a quando l’albume si rapprende e il tuorlo è ancora morbido; in quella palestinese, si continua la cottura del pomodoro, poi si aprono le uova direttamente in padella e, con un mestolo, si mischiano al sugo. Infine, aggiungete sale, pepe e prezzemolo a piacimento. Adesso siete pronti a gustarvi il vostro piatto ben caldo, accompagnato da una fetta di pane nostrano per fare la scarpetta nel caso delle uova in purgatorio, oppure servito in un piatto insieme al pane arabo per la shakshuka!
Waraq malfuf: gli involtini di riso palestinesi
Chi non ha mai mangiato degli involtini di riso? Ne esistono di tutti i tipi, di riso e peperoni, per esempio, o con le melanzane, con la carne macinata o i gamberetti, avvolti nella verza, nella vite oppure fritti, provenienti dalla cucina greca, asiatica, mediorientale, ma anche mediterranea: insomma, c’è l’imbarazzo della scelta! Anche Silvia conferma questa ampia diffusione, quando scrive: “gli waraq malfuf sono involtini ripieni di riso, delizia ampiamente confermata nella cucina mediterranea; è possibile trovarne versioni simili in Turchia, Grecia, Siria, Libano, Iran. I più comuni sono quelli fatti con le foglie di vite (waraq dawali)”. Ma in questo caso, presentiamo degli involtini in cui, al posto della vite, si usa il cavolo cappuccio (malfuf). In Italia, ne esistono diverse varianti, e per il ripieno ci si può sbizzarrire usando le uova, il pomodoro, oppure altre verdure, e si possono insaporire con parmigiano e cuocere in forno. Siete pronti a segnarvi la ricetta?
Per cucinare questa delizia, vi serviranno: un cavolo cappuccio intero, una tazza di riso, aglio, cumino, pepe nero, sale, limone, circa 400 grammi di carne macinata (potete farne anche a meno, se preferite realizzare un piatto vegetariano), e infine dello yogurt bianco d’accompagnamento.
Per la preparazione, dovete seguire questi passaggi:
- per prima cosa, bisogna realizzare il rivestimento esterno dei nostri involtini e perciò partiamo dal cavolo cappuccio. Mettetelo in una pentola piena d’acqua, coprite e portate a bollore; vedrete che, man mano, le foglie inizieranno a staccarsi e, a quel punto, toglietele, rimuovete la parte bianca centrale (non buttatela, vi servirà più avanti!) e tagliatele in pezzetti leggermente più piccoli di una mano.
- Nel mentre, occupatevi del riso: dovete lasciarlo in ammollo nell’acqua tiepida per circa un quarto d’ora, poi, una volta scolato, conditelo con sale, pepe e cumino; se avete intenzione di usare la carne, aggiungetela adesso e mischiatela col riso.
- Ora prendete una pentola e, con gli scarti bianchi del cavolo che avete conservato, ricoprite il fondo: è un ottimo stratagemma per evitare che i vostri involtini si brucino!
- Adesso viene la parte più delicata, ossia quella del creare gli involtini, e Silvia scrive: “appiattite le foglie tenere su di un piatto e sistemate un cucchiaino di riso sul bordo inferiore. Piegate verso l’interno i due lembi laterali e arrotolate la foglia come un sigaro. Appoggiate i rotolini così ottenuti a uno a uno sul fondo della pentola, componendo vari strati, e inserite le teste d’aglio sbucciate ma intere tra gli involtini”.
- A questo punto, bisogna aggiungere acqua fino a ricoprire tutti gli waraq malfuf e cuocere per circa mezz’ora, fino a quando l’acqua non si sarà asciugata.
Seguendo queste indicazioni, cucinerete dei perfetti waraq malfuf: ora non vi resta altro che servirli con una bella innaffiata di limone e lo yogurt bianco e… buon appetito!
Kofta kebab: cos’è davvero e le differenze tra Italia e Palestina
Uno degli street food che ha conquistato le strade delle nostre città è il kebab: ma quando pensiamo al “kebab” siamo proprio sicuri di ciò che intendiamo? Infatti, dovete sapere che, in realtà, in arabo la parola “kebab” significa semplicemente “carne arrostita”: perciò, se vogliamo gustarci un bel panino imbottito di carne fatta cuocere sul lungo spiedo verticale, dovremmo parlare di shawarma. “Se vi trovate in Palestina e ordinate un kebab, non sorprendetevi di ottenere della carne grigliata anziché il panino che immaginavate”: così spiega Silvia nel suo libro “Ricette di confine”. Carne grigliata, quindi. E dal momento che l’estate è ufficialmente iniziata – e così anche la stagione dei barbecue al fiume o in giardino con gli amici – perché insieme al solito castrato e salsiccia non proponete qualcosa di diverso dal solito?
Cosa vi serve: carne macinata e carne d’agnello macinata (in quantità variabili a seconda delle persone), una cipolla media, due spicchi d’aglio, prezzemolo, due cucchiaini di pimento (anche conosciuto come pepe della Giamaica), una pita secca, sale, pepe e, ovviamente, gli immancabili spiedi di legno! Per la preparazione di una grigliata perfetta sul barbecue, si consiglia di immergere gli spiedini in acqua fredda e di tirarli fuori solo poco prima di essere utilizzati (così non bruceranno). In un recipiente, mettete la carne macinata insieme all’aglio, alla cipolla e al prezzemolo che avrete tritato precedentemente nel frullatore e alla pane ben strizzato (l’avrete già lasciato ammorbidire in un poco d’acqua), e state pronti a sporcarvi le mani: mischiate fino a ottenere un composto ben amalgamato e modellate il tutto attorno allo spiedo, creando una specie di salsiccia che lo ricopre quasi completamente. Ci siete, potete procedere alla cottura: quattro minuti da una parte, quattro dall’altra e il vostro spiedino è pronto!
Il caffè: storia di un comune amore tra Italia e Palestina
Siamo arrivati in fondo e, come a conclusione di un bel pasto, non può mancare il… caffè! Vi ricordate la famosa e divertentissima scena del film “Benvenuti al Sud”, in cui Claudio Bisio e Alessandro Siani devono consegnare la posta e si ritrovano “costretti” ad accettare un caffè per ogni casa in cui entrano? Be’, non solo in Italia questa bevanda a base di caffeina ha un ruolo così centrale. Infatti, la storia del caffè si perde nel tempo: di origine araba, per la loro cultura servire il caffè è un vero e proprio atto cerimoniale, di grande ospitalità. Perciò, come gli attori nel film, guai a rifiutarlo! A questo proposito, l’autrice scrive: “Il caffè viene offerto continuamente durante la giornata, nelle situazioni e nei luoghi dove meno ci se lo aspetta. Capita di andare dal macellaio, o in una bottega di alimentari, e trovare sul bancone il thermos pieno di caffè caldo e i bicchierini di carta impilati a portata dei clienti che aspettano il proprio turno”. Inoltre, si beve amaro: è accompagnato da dolcetti o datteri che, con la loro dolcezza, completeranno il sapore aromatico.
Ma cosa cambia tra il caffè italiano e il qahweh sadah? Le differenze sono due:
- il gusto speziato: il caffè arabo si contraddistingue da un particolarissimo aroma speziato, dovuto dalla presenza di semi di cardamomo che vengono tostati separatamente e poi macinati col caffè.
- il metodo di preparazione: se noi italiani usiamo la moka per prepararci il caffè, in Palestina si usa la dallah, una caffettiera speciale che assomiglia a una brocca (ma voi potete usare un pentolino normalissimo). Mettete dell’acqua a bollire in un pentolino e, poco prima che l’acqua arrivi a bollore, aggiungete due cucchiai di miscela di caffè arabo (se lo preferite dolce, dovrete aggiungere lo zucchero prima). Il caffè inizierà a bollire, perciò abbassate la fiamma e mescolate la schiuma che si sta formando, ma fate attenzione a controllare il bollore (il consiglio è quello di sollevare il pentolino dal fuoco). Continuate a mescolare finché la schiuma non svanirà quasi del tutto: quello sarà il momento di togliere il caffè dal fuoco e di coprirlo con un pentolino… perché sì, dovrete lasciare riposare la bevanda qualche minuto prima di gustarla!
Non è importante solo la preparazione, ma anche il servizio: il caffè arabo va versato lentamente, passando da una tazza all’altra, in modo che la parte iniziale – che è anche quella dal sapore più intenso e gustoso – si spartisca in maniera equa. Insomma, com’è che si dice, Paese che vai, caffè che trovi? Che sia amaro o zuccherato, speziato o dal sapore più delicato, basso o alto, l’amore che c’è dietro la preparazione di un caffè, però, è lo stesso.
Tra cucina, tradizione e convivialità: il segreto di “Ricette di confine”
Ciò che accomuna la cucina italiana e quella palestinese, oltre agli ingredienti e ad alcune ricette (altro esempio, la pita è una specie di antenato della nostra pizza), c’è anche una certa convivialità nel “vivere” il cibo. “L’aspetto della cucina palestinese che mi ha affascinata è la preparazione dei piatti, specialmente se fatta in compagnia, come spesso accadeva. Molte ricette prevedono tempi di attesa tra un passo e l’altro del procedimento, e queste pause diventano momenti per stare insieme, scambiarsi due chiacchiere e, ovviamente, sorseggiare caffè arabo!”. Una convivialità e una condivisione che forse in Italia è andata un po’ perduta col tempo, perché le persone hanno sempre più fretta e sempre meno tempo da dedicare a una vera pausa, ma che sarebbe bello poter recuperare.
Eccoci arrivati alla fine del viaggio e, tra involtini di riso e finti kebab, ci siamo avventurati in un mondo lontano – ma non poi così tanto – alla scoperta di piatti sfiziosi e nuove ricette, ricordandoci che, se per alcuni il confine può essere un limite, per altri è un orizzonte.
Vi sono piaciute queste ricette “di confine”? Quale pensate di provare per prima?