Molti non lo sanno, ma caporalato, agromafie, criminalità, arrivano fino nel piatto, poiché l’agricoltura rappresenta un business molto remunerativo per le organizzazioni criminali. Questo è quanto emerge dal 5° rapporto “Agromafie” redatto da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare pubblicato nel 2017 e riferito ai dati dell’anno precedente. Ad allarmare è la crescita del volume d’affari che, nel 2016, ha toccato quota 21,8 miliardi di euro, in crescita del 30% rispetto al 2015. In che modo, però, questi dati si traducono in ciò che mangiamo?
V rapporto Agromafie: cosa fanno le mafie?
L’intera filiera del lavoro agricolo e dell’allevamento, dalla produzione alla vendita, rappresentano terreno fertile per infiltrazioni di stampo criminale, organizzazioni attratte dalla possibilità di guadagno e, come sottolinea il rapporto, capaci di mimetizzarsi, evitando azioni eclatanti e nascondendo l’effettiva natura delle attività poste in essere. Questo è quanto emerge sin dalle prime pagine del rapporto agromafie, che pongono l’attenzione sulla distribuzione geografica dell’illecito che, a differenza di quanto spesso si possa credere, non coinvolge solo il Meridione. Al contrario, fenomeni come caporalato e agromafie si sono espanse anche al Centro-Nord del Paese dove magari è minore il grado di violenza ed intimidazione, ma non necessariamente il livello di influenza nei processi decisionali o di distribuzione economica.
Le attività illecite sono concentrate nei seguenti ambiti:
- condizionamento del prezzo del raccolto,
- gestione di trasporti e distribuzione,
- controllo di catene di supermercati,
- esportazione di vero (o falso) made in Italy,
- investimento e proliferazione dell’Italian sounding,
- creazione ex novo di reti di smercio al minuto.
Tutto ciò è possibile, come dimostrato da alcune indagini di Magistratura e Forze dell’Ordine, addirittura attraverso finanziamenti pubblici ed europei: nel 2016, la Guardia di Finanza ha sequestrato patrimoni dal valore di 150 milioni di euro e ben 35 milioni di euro ottenuti tramite forme di finanziamento percepite in maniera indebita.
[elementor-template id='142071']L’ombra del caporalato, in Italia e all’estero
Secondo le stime di Coldiretti, ben 1 prodotto su 5, tra quelli che arrivano sulla nostra tavola dall’estero, è frutto di una forma di sfruttamento o non rispetto delle tutele dei lavoratori. Un dato che assume ancor maggiore valore se si tiene in considerazione che ben il 30% dei prodotti agricoli e d’allevamento che compongono la spesa degli italiani è importato. Un esempio è quello del pomodoro e della passata che, oltre ad arrivare nei porti italiani dopo essere stati prodotti secondo norme non conformi con il diritto dei lavoratori, possono essere anche esportati con l’indicazione di Made in Italy sull’etichetta. Ed è questo uno dei motivi per cui, lo scorso marzo, è stato introdotto l’obbligo d’origine in etichetta anche per pomodori, salse e passate.
Lavoro nero e lavoro grigio (ovvero quei casi in cui la condizione di irregolarità è parziale) sono, come rileva il rapporto, diffusi anche in Italia: un fenomeno complesso perché tocca trasversalmente questioni diverse tra loro come l’accoglienza dei migranti, il rispetto dei diritti dei lavoratori, la pressione della grande distribuzione sui produttori per abbassare i prezzi, l’effettiva infiltrazione mafiosa, ma anche la presenza di intermediari. Le molteplici forme di sfruttamento, molte delle quali ancora invisibili, possono portare ad una vera e propria condizione di schiavitù, come evidenziato anche dal rapporto GRETA sul caporalato in Europa, per i braccianti agricoli.
Ciò che evidenziano con speranza Coldiretti, Eurispes e l’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare è come, sul territorio, si stia realizzando una forma di alleanza sia tra istituzioni, come nel caso del progetto congiunto delle Regioni del Sud contro il caporalato, sia al livello della società civile per contrastare il fenomeno. Progetti che mirano alla valorizzazione di eccellenze del Made in Italy come il pomodoro o gli agrumi, rappresentano, dunque, azioni concrete, da sostenere e valorizzare. Oltre al fatto che, come ci hanno raccontato i responsabili di Sfrutta Zero e SOS Rosarno, queste realtà dimostrano che un’alternativa non solo è possibile, ma esiste già anche nei territori che, nel sentire comune, sono considerati più difficili.
Dai campi al piatto: cibo sporco
Se da un lato, dunque, il V rapporto Agromafie evidenzia come esista una strategia contro il caporalato capace di coinvolgere attori differenti, denuncia anche come la criminalità organizzata riesca ugualmente ad arrivare fino alla tavola. Tra le azioni più diffuse ci sono le frodi alimentari, la sofisticazione di materie prime e prodotti, la macellazione clandestina, l’ampliamento del controllo sociale sul territorio di coltivazione, la gestione di ristoranti e catene sia in Italia che all’estero. Quest’ultimo è un business particolarmente diffuso nelle grandi città come Roma e Milano e coinvolge, secondo quanto stimato dai ricercatori, più di 5.000 attività commerciali e ristorative.
In questo modo, la longa manus delle organizzazioni mafiose si spinge fino a ciò che mangiamo, spesso inconsapevoli, mentre all’estero Coldiretti denuncia l’impiego della parola “mafia” per etichettare prodotti che dovrebbero richiamare l’italianità come le noccioline piccanti “Chilli Mafia” o le spezie “Palermo Mafia Shooting”.
In conclusione, il V Rapporto Agromafie elenca ed evidenzia quanto venga fatto, anno dopo anno, dalle Forze dell’Ordine per arginare e contrastare l’infiltrazione di caporalato e agromafie nel settore agroalimentare in Italia. La strada sembra tracciata, sarà davvero sufficiente per contrastare efficacemente il fenomeno?