Presentato a Roma nell’estate 2018, il Quarto rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Rizzetto di Flai Cgil fotografa le condizioni in cui si trovano a “lavorare” migliaia di braccianti e operatori agricoli in Italia. Ma non soltanto, sottolinea infatti come il business del lavoro grigio e nero ha un valore pari a 77 miliardi ed incide per il 15% sul valore globale del settore agricolo. Un fenomeno che non conosce confini geografici e coinvolge il Sud come il Nord Italia, che non conosce distinzioni di passaporto perché nelle maglie dello sfruttamento ci sono cittadini italiani, richiedenti asilo, migranti in generale.
Agromafie e caporalato: i numeri del Quarto rapporto Flai Cgil
Caporalato e agromafie sono, innanzitutto, un business che, secondo le stime, raggiunge i 208 miliardi di Euro. Parte sono derivanti dallo sfruttamento del lavoro irregolare che è pari a 4,8 miliardi di Euro, il lavoro irregolare in sé vale 77 miliardi, l’evasione contributiva invece “frutta” a chi persegue queste pratiche illecite ben 1,8 miliardi. Un fenomeno, dunque, con una ricaduta importante su un settore come l’agroalimentare cruciale per l’economia italiana.
Tuttavia l’Osservatorio dedica molta attenzione anche alla raccolta di dati relativi ai lavoratori. Sono almeno 400.000 quelli esposti al rischio di un impiego irregolare, in nero o con “lavoro grigio” e potenzialmente sotto l’egida di un caporale. 132.000 si trovano in condizioni di vulnerabilità, personale e professionale, tale per cui lo sfruttamento può rappresentare un vicolo senza via d’uscita. Ben il 39% dei rapporti di lavoro in agricoltura, infatti, sono irregolari.
A questo trattamento sono sottoposti cittadini italiani e non. Secondo il Crea, infatti, il 16,5% dei lavoratori stranieri in agricoltura ha un rapporto informale e il 38,7% ha una retribuzione che non rispetta, al ribasso, i vincoli stabiliti dal sindacato.
Dal Nord al Sud, anatomia dello sfruttamento in Italia
Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Puglia, Basilicata e Sicilia: sono queste le Regioni dove i ricercatori hanno analizzato il comparto agricolo grazie a inchieste, raccolta dati e interviste. Il quadro che emerge è che, in tutti e sette i territori, esistono realtà dove lo sfruttamento è la norma e i braccianti vivono e operano in condizioni al limite della dignità.
Non ci sono tutele contrattuali, né assicurative, né diritti, ferie o permessi. I lavoratori sotto caporale vengono pagati in media tra i 20 e i 30 euro al giorno, talvolta a cottimo (3 o 4 € per 375 kg di frutta o verdura): secondo la Flai Cgil, complessivamente il salario è inferiore al 50% di quanto previsto dal Contratto nazionale per settore.
A ciò si aggiungono le spese che un bracciante deve al caporale che lo “assume”, per fare solo alcuni esempi:
- 5 € in media per il trasporto
- 1,5 € per l’acqua
- 3 € per un panino.
La giornata lavorativa non dura mai meno di 8 ore e arriva fino a 12, ed è ancor più pesante per le donne che, in media, guadagnano il 20% in meno degli uomini, come sottolineato anche dal rapporto Oxfam 2018 dal titolo “Sfruttati”.
Agroalimentare, un’azienda su 4 ha un caporale
Impressionante anche la stima che l’Osservatorio fa del numero di aziende che, in Italia, coinvolgono un caporale per assicurarsi la manodopera di cui c’è bisogno: sono, infatti, 30.000 circa il 25% delle attività con dipendenti in tutto il territorio nazionale. E non tutti i caporali sono uguali: infatti si legge nel rapporto Flai Cgil come il 60% delle aziende ricorra a “caporali capi-squadra” (che gestiscono i braccianti in condizioni di irregolarità parziale) e i veri e propri caporali collusi con organizzazioni criminali e mafiose.
Una questione grave, affrontata e monitorata anche da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare che curano un rapporto dedicato proprio al fenomeno. Ciò che emerge è che si tratta di una condizione ormai cronicizzata sul territorio italiano dove, nonostante la legge promulgata nel 2016 che inasprisce le pene per i caporali, si stenta ancora a trovare la via della legalità. Anche (e non soltanto) perché si percepisce il fenomeno come una questione che riguarda solamente gli stranieri, che si incrocia con il tema della sicurezza e che c’è soltanto al Sud, in realtà come quella di Rosarno. Invece i rapporti, le inchieste e le interviste raccontano una storia diversa: il cibo “sporco” di produce anche al Nord e arriva nel piatto di tutti.
Conoscevate il valore dell’economia basata sul caporalato in Italia e quanti braccianti sono coinvolti nel fenomeno?