I prodotti tipici italiani sono nati grazie al marketing? Intervista a Edoardo Armenio

prodotti tipici italiani

 

In Italia poche cose sono unanimemente apprezzate e condivise quanto le tradizioni gastronomiche. Tuttavia, anche le origini e l’autenticità di questo patrimonio sono messi in discussione, come abbiamo visto nella nostra intervista al professor Alberto Grandi sul suo saggio Denominazione di origine inventata. Ma i prodotti tipici italiani sono dei falsi storici? Le nostre eccellenze alimentari, celebrate nel mondo, nascono solo negli anni Settanta e sono frutto dell’industrializzazione e del marketing? Per approfondire questo argomento, che tocca molte delle nostre più solide certezze, abbiamo interpellato Edoardo Armenio, direttore didattico dell’Accademia Internazionale Enogastronomi e Sommelier (AIES), con sede a Bologna, già docente Slow Food.

Prodotti tipici italiani: autentici o falsi storici?

prodotti tipici italiani pasta
Marian Weyo/shutterstock.com

La ricostruzione di Alberto Grandi, senz’altro suggestiva, risulta tuttavia spiazzante rispetto alle convinzioni più diffuse sui prodotti tipici italiani. Secondo Edoardo Armenio, questa visione si presta a osservazioni, innanzitutto per una visione che appare a tratti quasi “demolitiva” nei confronti della tradizione italiana, che lascia piuttosto perplessi. Un prodotto tradizionale è sempre il frutto di modalità produttive tramandate nel tempo, e non deve sorprendere il fatto che questi passaggi determininino anche dei cambiamenti.

Le ricette, i prodotti tipici e le specialità gastronomiche, nel loro persistere, si trasformano. “Se pensiamo alle grandi specialità italiane, il portato del tempo ci dice che certi prodotti si sono evoluti, ma questo succede in tutto il mondo, e non equivale necessariamente a una negazione dei valori tradizionali, culturali e storici, aderenti a una determinata collettività, propri di queste produzioni, anzi, a volte è il contrario. Si pensi ad esempio alla pizza: è vero che in tutto il Mediterraneo sia siano diffusi involucri di un qualche ‘impasto-contenitore’ attraverblso tempi e civiltà, ma è altrettanto evidente che tra una pita greca e una pizza italiana ci siano palesi differenze per le tecniche e i modi di preparazione, ma non solo” aggiunge Armenio.

Pertanto, una narrazione siffatta rischia di essere piuttosto riduzionista e non rende giustizia a un patrimonio consolidato, già accuratamente descritto negli atlanti curati dal professor Corrado Barberis dell’Istituto di sociologia rurale (Insor), dedicati proprio alle specialità gastronomiche italiane. 

Le specialità italiane sono “creature” del marketing?

Nel saggio di Grandi, al marketing è attribuito un ruolo particolarmente incisivo nella costruzione del mito dei prodotti tipici italiani. Rispetto a questo fattore, Armenio ricorda, per quanto ovvio, che anche i ‘prodotti tipici’ sono fatti per essere venduti: queste specialità sono destinate e comunicate al mercato, che le ha sempre recepite nelle loro diverse forme e peculiarità. Pertanto, porre il marketing come elemento centrale può essere fuorviante.

Invece, nel caso del falso made in Italy e delle imitazioni industriali, raffinate tecniche di comunicazione sollecitano con enfasi il consumatore, ricorrendo all’italian sounding, o richiamando con diciture e simboli quei valori originari che si vogliono riprodurre artificiosamente. Quindi, non sono solo il gusto e la lavorazione a essere imitati, come nel caso del falso Grana Padano e del Parmesan, che già nel nome richiama il territorio dell’originale imitato, ma anche i valori propri dei prodotti.

Secondo Edoardo Armenio, se si riduce la nostra tradizione gastronomica a una mera operazione di marketing si rinuncia a una radice di autenticità e di effettivo legame con la storia di una comunità, nonché con metodi produttivi e aspetti sociologici decisivi per identificare un prodotto, come afferma il professor Barberis nei suoi testi. Non di rado, alla mancanza di autenticità si supplisce con un racconto inventato ad arte, legato alle emozioni del potenziale acquirente o a occasioni di consumo che nulla hanno a che fare con la genuinità (genus, origine).

È un dato di fatto che il commercio – soprattutto ai giorni nostri – si avvalga di strategie di marketing e storytelling, ma questa evidenza prevale nettamente nelle imitazioni, spesso in modo caricaturale. Il prodotto copiato, o fake, ammanta la sua apparenza di un’autenticità che in realtà non può offrire, puntualizza Armenio. Ad esempio, “tutti possono riconoscere la differenza tra una saporita mozzarella ‘tipica’ – prodotta con latte locale in una zona di tradizione consolidata secondo procedimenti specifici ma nota in un ambito di prossimità – e una mozzarella ‘sosia’ fatta in serie da latte di provenienza varia, di sapore neutro, perché deve piacere a un pubblico eterogeneo, ma promossa da un’allettante pubblicità. Tutto questo, a ben vedere, fa risaltare ancor più l’autenticità della prima e la forma meramente imitativa della seconda. Lo stesso vale per un panettone opera di un maestro pasticciere meneghino e della sua abilità esperienziale, posto a confronto con altri che, con lo stesso nome, vengono venduti a prezzi modesti nella grande distribuzione, poveri di aromi e sapori, ma magari forti di poderose campagne pubblicitarie e d’immagine”.

Sono le imitazioni a puntare tutto sul marketing 

prodotti tipici italiani parmigiano
HQuality/shutterstock.com

Affermare – come fa Grandi – che il Parmesan del Wisconsin segue modalità produttive più vicine a quelle praticate in Emilia fino ai primi del Novecento può anche avere fondamenti di carattere storiografico, ma rischia di negare l’autenticità e il percorso di crescita del Parmigiano-Reggiano a casa nostra, peraltro inconfondibile sul piano sensoriale, grazie anche a un latte davvero ‘figlio di un territorio’. “Se a distanza di 150 anni e migliaia di chilometri, continuano a chiamarlo ‘Parmesan’ è perché, come Ulisse, sentono ancora forte il richiamo delle sirene”.

Sullo sfondo, poi, ci sono anche aspetti legali significativi: la legislazione europea protegge le origini delle produzioni locali attraverso il sistema delle denominazioni, mentre quella anglosassone le disconosce, tutelando invece solo i marchi di impresa. In proposito, aggiunge Armenio, “possiamo citare il fatto che gli Stati Uniti, ad esempio, non riconoscono, o comunque non tutelano, alcune importanti denominazioni vinicole europee. Anche approfittando della diversità delle legislazioni, il marketing può avere facile gioco nel promuovere imitazioni, ammantandole di valori che non possono in realtà detenere”. 

I prodotti tipici italiani nascono solo negli anni ‘70?

Nella ricostruzione illustrata in Denominazione di origine inventata, il successo commerciale e l’affermazione dei prodotti tipici italiani sono collocati negli anni Settanta del secolo scorso, un decennio determinante per la svolta industriale delle produzioni di casa nostra. Riflettendo su questo passaggio significativo, Edoardo Armenio parla di una transizione più graduale, ma anche di elementi radicati nel tempo, via via sviluppatisi nel contesto contemporaneo.

Secondo Armenio, “va premesso che i prodotti tipici sono infatti il grande bacino cui l’industria ha attinto – e non il contrario – anche in modo predatorio, per coltivare scopi del tutto propri. Per altro verso, anche in passato, una parte delle produzioni tradizionali era già incanalata in forme aziendali: si pensi ad esempio alla pasta secca o al settore conserviero. Dal secondo dopoguerra, questa tendenza sembra incrementata”.

prodotti tipici italiani pasta uovo
SunKids/shutterstock.com

Industrializzazione e tradizioni

Tuttavia, è cruciale capire come questa transizione ha agito, e se lo ha fatto tutelando un’autenticità di valore propria delle specialità in questione, precisa Armenio. “Ritorniamo al caso delle paste secche, che è emblematico e vanta radici secolari. Anche in passato, infatti, le produzioni avevano vocazione mercantile e hanno in qualche modo anticipato gli assetti moderni, ma questa stessa modernità, finché rispetta un valore autentico, non è necessariamente un ‘rinnegare le tradizioni’. In sostanza, l’aspetto industriale non va demonizzato in quanto tale, il punto è stabilire se e come vengono conservati i rapporti di valore e l’identità del cibo.

A connotare l’italianità in ambito gastronomico, inoltre, non è la sola origine della materia prima, ma anche il saper fare. Nondimeno, “il consumatore è chiamato a collaborare, perché comprare una pasta presuppone il fatto di sceglierla tra tante, volerla cucinare e preparare anche il condimento. Non chiede collaborazione ed è senz’altro alienante l’acquisto, per qualche motivo, di un prodotto già pronto, pallida imitazione dell’originale. Si pensi che all’estero si vendono paste pronte in barattolo da scaldare, dove il condimento è incorporato, con tanto di richiami di italianità, ma è ragionevole ritenere che la natura e il valore di quel cibo sia pari al mero consumo e nient’altro”.

“In visioni più ampie, anche sociali, i rischi di perdita di identità ci sono. Si pensi alle nuove generazioni, che più difficilmente hanno conosciuto il passaggio delle tradizioni in ambito familiare. In passato, la trasmissione intergenerazionale era favorita da uno stile di vita legato a rapporti familiari stabili e alle comunità locali. Oggi la parcellizzazione dei nuclei familiari – che si riducono o si allentano, anche perché figli e nipoti si trasferiscono per lavoro – e anche la precarietà, inevitabilmente, favoriscono la dispersione e il meticciamento di questo patrimonio”.

Le denominazioni di origine vanno usate in modo appropriato

Un altro passaggio significativo nell’argomentazione di Alberto Grandi è la critica all’aumento incontrollato delle denominazioni di origine, che il nostro interlocutore condivide, almeno in parte. Lo strumento della tutele di origine (Doc/Dop/Igp/Stp) – di per sé positivo e valido, perché protegge il legame tra persone, tradizioni, luoghi e produzioni – purtroppo rischia di essere asservito a logiche particolaristiche, riducendosi a concessioni da parte della politica a una base territoriale, in cerca di strumenti di valorizzazione commerciale. Anche disciplinari di produzione permissivi, o comunque eccessivamente larghi, non sono buoni strumenti. In ambito vinicolo, sottolinea Armenio, “negli anni si è osservata una proliferazione di Dop oggettivamente poco significative, che attribuiscono denominazioni di origine a prodotti in realtà privi di autenticità. Oppure, capita di riscontrare, all’interno di una Doc, la presenza di vini eccessivamente differenti da un punto di vista organolettico”.

Questa situazione finisce per creare confusione e sovrapposizione, sottraendo credibilità ai prodotti Dop. In quest’ambito, emerge l’importanza di un altro elemento accessorio e prossimo all’autenticità, ovvero la riconoscibilità organolettica dei prodotti tipici. Ad ogni modo, non sono concetto e funzione della denominazione a essere sbagliati, ma lo è il suo asservimento a logiche che dovrebbero essere avversate proprio dalla ratio delle tutele di origine. Pertanto, è fondamentale che le Dop siano usate solo in modo appropriato e scrupoloso, conclude Armenio.

prodotti tipici italiani prosciutto
HQuality/shutterstock.com

Quale impatto possono avere i dazi sui prodotti tipici italiani?

In ultima analisi, non si può trascurare quanto l’attualità ci propone, con scelte protezionistiche di taluni Paesi che rischiano di danneggiare notevolmente le esportazioni alimentari italiane. “Al di là delle temute ripercussioni, misurabili nel medio periodo, risulta assodato tra gli esperti di commercio internazionale che i dazi non sono uno strumento ottimale per gestire i problemi commerciali. Tra l’altro, quelli recentemente varati dagli Stati Uniti fanno parte di una partita più ampia, ove si giocano gli interessi di altri settori economici, quali quello aeronautico. In questa partita, il nostro food & wine è coinvolto di riflesso. Insomma, tutto assomiglia a una sorta di corto circuito che, nel medio-lungo periodo, produce un impoverimento generale” afferma Armenio.

Questo non equivale, più in generale, alla negazioni di evidenti problemi di concorrenza sleale o della necessità di riequilibrio degli scambi. Ad ogni modo, si tratta di aspetti che andrebbero prevenuti e gestiti con lungimiranza dai governi.

Valorizzare l’eccellenza

Anche al netto delle politiche protezionistiche, come pure delle mode alimentari, nel mercato globale, molti operatori indicano nell’eccellenza il fattore che assicura le maggiori chances di successo.

“Ma cos’è, oggi, l’eccellenza? È un concetto complesso da definire. La qualità, come bontà organolettica e salubrità, e un bollino Dop o Igp bastavano ieri, ma ora si vuole di più. L’eccellenza chiede di incorporare e ‘patrimonializzazione’ quei valori, già più volte richiamati, quali l’autenticità, l’inimitabilità, la riconoscibilità. Bisogna coniugare una visione collettiva – che esige una rigorosa, non opportunistica e coerente adesione da parte di tutti gli operatori – e i talenti individuali del ‘saper fare’. E, in tutto questo, bisogna essere attenti al contesto in cui si opera: tra i tanti aspetti, la sostenibilità ambientale e sociale deve essere oggi in massima considerazione”.

Non è una sfida facile. l’Italia è stata autorevolmente definita ‘un Paese di eccellenze individuali e debolezze di sistema’, mentre altrove le debolezze individuali sono colmate facendo sistema in modo efficace. Tuttavia, secondo Armenio, è questa la consapevolezza richiesta oggi: rendere più intensa e tutelata la nostra straordinaria inimitabilità e, naturalmente, comunicarla e farla meglio comprendere.

 

Cosa ne pensate del dibattito sui prodotti tipici italiani?

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