Che la domenica sia il giorno più balordo della settimana lo sappiamo fin dalla giovinezza, quando Leopardi ci conquistò poetando su quell’agonica attesa del lunedì. Tutti, tranne i ruffiani che si dicevano contenti di tornare a scuola, eravamo col poeta e ci riconoscevamo nella sua instabilità emotiva: euforici il sabato per precipitare nella depressione più cupa il giorno dopo.
Non che le cose siano cambiate di molto con l’età adulta. Sarà il trauma leopardiano, sarà che la domenica è veramente chiusa, introversa, asociale, fatto sta che in giro si sente ripetere continuamente che è una schifezza di giornata. E lo dico sempre anch’io, anche se un ricordo infantile bello, anzi magnifico, legato alla domenica ce l’ho: è quello del pranzo domenicale, un momento talmente gioioso che – ora mi rendo conto – lo annettevo ad honorem al sabato, del quale era l’ultimo istante.
La domenica vera cominciava alle tre del pomeriggio, con la digestione e i compiti. E voi li ricordate i pranzi della domenica? Passando davanti alla porta della signora Rosa si sentiva l’odore di ragù che poi andava a mescolarsi all’odore di cotolette spifferato dalla porta accanto della signora Gina. E coì via, in una babilonia di profumi tutti buoni, tutti domenicali. Oggi non è più così: se non proprio estinto, il pranzo domenicale è sicuramente ridotto male.
Il culto del weekend e soprattutto il culto delle presunte follie del sabato sera che obbligherebbero a dormire fino all’una del pomeriggio, hanno ridotto il pasto tradizionalmente più importante della settimana alla cenerentola di tutte le occasioni di convivio. Il colpo di grazia glielo ha dato la moda del brunch americano.
Sapete cos’è, vero? E’ quell’ibrido mostruoso tra la prima colazione (breakfast) e il pranzo (lunch) con un buffet che offre spudorati mescoloni di caffellatte e salmone affumicato, brioches e wurstel. Come dire “stai sicuro che non ti lascio digiuno come a una colazione al bar e che non ti appesantisco con un pranzo domenicale della nonna. Ho preso un po’ da questo e un po’ da quella“. Con un effetto che fa star male un italiano al solo racconto, aggiungiamo noi. Comunque, tranne nel caso di un invito a un brunch, ora alla domenica mattina scatta il coprifuoco e non ti si fila più nessuno.
Gli inviti fioccano per le cene del venerdì, diluviano sul sabato sera – quando chi è invitato è sempre convinto di avere qualcosa di meglio da fare – ma mai che un’anima pietosa ti aiuti in quel vero giorno di passione che è la domenica. Dico a voi che avete famiglia: avete idea di cosa sia la domenica di un single? Negozi chiusi, telefono muto e soprattutto niente donna a ore da venerdì, che vuol dire cucina sommersa di piatti sporchi e frigo desolato.
L’alternativa è tra il tozzo di pane con la crosta di formaggio e la solitudine al ristorante fra le allegre famigliole che si pigliano finalmente la loro rivincita sul mito del singleguardandolo come si guarda un cucciolo abbandonato che non si ha intenzione di raccogliere. Le cose non vanno meglio fra le famigliole. Lui alle nove del mattino è già spazientito dai bambini che non è abituato ad avere intorno. Lei, almeno quel giorno, vuole riposarsi per davvero e a cucinare non ci pensa proprio. O è la trattoria o è la fine.
Siete convinti? Allora non indugiate più e adottate un amico, un’amica o una famiglia dall’una alle tre della prossima domenica. Eviterete di sicuro una crisi depressiva, potreste addirittura scongiurare una crisi coniugale. Pensate a un menu adatto alla stagione e alla circostanza senza lesinare tempo (tanto mica invitate tutte le domeniche) e pensate a una tavola apparecchiata come si deve e che faccia il più possibile “domenica”.
Tirate fuori una tovaglia ricamata, meglio se non è troppo preziosa perché metterebbe soggezione. Basta che abbia un’aria da giorno di festa. Di solito sono sufficienti il colore bianco, i doppi bicchieri, uno per il vino e l’altro per l’acqua, i tovaglioli di stoffa e non di carta, un mini-centrotavola purché non sia di un solo fiore, che farebbe “ristorante”. Ricordate che una tavola impeccabile non suscita particolari clamori in un invito a cena, ma vi farà sembrare un perfetto anfitrione all’ora di pranzo. Il perché non lo so, è un mistero.
Ah già, dimenticavo, l’invito che spiccherete sarà a colazione o a pranzo? Una volta al mattino si faceva colazione e a mezzogiorno il pranzo. Oggi si tende sempre più a chiamare “colazione” entrambi i pasti sia quello meridiano che quello mattutino, ammesso che quest’ultimo abbia luogo. Perché? Credo che sia colpa dell’attuale mitologia della leggerezza a tavola.
La parola “pranzo”, se ci pensate, suona come impegnativa e formale, e nei pranzi formali, si sa, si mangia sempre troppo. La parola colazione, invece, associata com’è ai digiuni mattutini di noi italiani, ricorda una situazione di maggiore leggerezza e informalità. Ma fa “fighetto”.
Come regolarsi? Per dirimere la controversia non possiamo invocare neppure l’etimologia. Pensate che il termine colazione deriva da “collatio“, che era la “raccolta collettiva” serale dei monaci intorno al desco. Quindi in origine indicava addirittura la cena. Vi do un consiglio: invitate i vostri amici con la frase “venite a mangiare da noi domenica all’una?”. Ma invitateli. Buona domenica.
di Martino Ragusa