di Chella
(…)
Se il mare fosse de tocio leri-lerà
e i monti de polenta leri-lerà
o mamma che tociade
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Questa strofa della canzone friulana La mula de Parenzo ci descrive le potenti visioni (traveggole!) dettate dalla fame che accomunava una percentuale altissima di popolazione dell’Italia settentrionale, tanto da sognare Alpi da mangiare ‘pucciate’ in un Mare di sughetto. La polenta è stata la principale se non la sola fonte di nutrimento nella civiltà contadina del nord Italia (dispregiativamente chiamatipolentoni) almeno fino alla seconda guerra mondiale, con una popolazione talmente priva di mezzi e denutrita che spesso era malata di pellagra e rachitismo, malattie dovute a un’alimentazione priva di proteine e vitamine. Raramente era accompagnata da condimento, spesso era solo insaporita, magari da un’aringa affumicata, o da una fetta di lardo. Quindi un piatto poverissimo, lontano anni luce dalle allegre “polentate” dei nostri giorni, ricchissime dei condimenti più saporiti e costosi.
La farina di mais per fare la polenta ha tre diverse dimensioni, dalla più grossa alla più sottile sono: bramata, dosata, fioretto. Non sono minimamente in grado di dare proporzioni o dosi, ma in casa mia, sia mia madre che mia nonna paterna facevano così: portavano ad ebollizione l’acqua salata e poi vi versavano la farina facendola scorrere pianissimo, fino a “saturare” il tutto. La quantità giusta di farina si capisce quando l’acqua non l’assorbe più e la farina non affonda, rimanendo in superficie. A questo punto bisogna armarsi di calma e mescolare, mescolare, mescolare…
Quando è cotta? Dopo circa tre quarti d’ora, l’impasto “segue” bene il cucchiaio di legno e la pentola rimane pulita nei bordi. Una volta pronta dovreste versarla su un tagliere rotondo, di legno. Naturalmente perché quest’ operazione non si traduca in una catastrofe dovete usare due accorgimenti: il primo è di fare una polenta ben soda e non molle, il secondo è di usare un tagliere bagnato con acqua. Una volta rovesciata sul tagliere senza strani spargimenti, le date una bella forma a cupola aiutandovi con il cucchiaio di legno bagnato e usato a rovescio (lato convesso). Nelle case contadine e povere di tanti anni fa non esisteva “il coperto” individuale e si mangiava tutti prendendo dal tagliere posto al centro del tavolo, per questo era indispensabile avere questa collinetta stabile al centro. Più semplice e pratico, anche se meno scenografico: potete metterla in una capiente coppa di coccio o di ceramica, da cui poi si prende a cucchiaiate.
Poi c’è la polenta istantanea, che ci semplifica tanto la vita, imita abbastanza bene la consistenza della polenta vera, poco il gusto, per niente il profumo. Il profumo della polenta semplice, scondita, è buonissimo, dà un senso diverso e direi più compiuto al sapore, un po’ come la differenza tra un cous-cous vero (il profumo del grano!) e quello precotto, per usare un altro piatto della cucina povera che oggi si può preparare molto facilmente.
Con cosa possiamo tradurre il tocio della canzone?
Con i pesci: il baccalà mantecato, seppie e piselli, sarde in saor, baccalà in umido, zuppa di pesce senza spine.
Con la carne: ragù, salsiccia ai ferri, salsiccia in umido, stufati di cacciagione, lepre, fagiano, cinghiale, fegato alla veneta, trippa in umido, polpette al sugo. E poi con sugo di funghi, con le verdure lesse… insomma, le possibilità sono molte.
Avanzata e fredda si può tagliare a fette e abbrustolire, oppure friggere.
Mangiare finchè ce n’è!