Giornale del cibo

Tutti i segreti e la ricetta della polenta bergamasca

La polenta per i bergamaschi non è un piatto, ma un atto d’amor”. Così il ristoratore Lio Pellegrino sintetizzò perfettamente il valore della polenta per i bergamaschi. Basti pensare che in provincia di Bergamo non si distribuiscono le carte in senso orario, ma nel senso in cui sta girando la polenta; o che gli emigranti orobici anche in America non ne hanno mai abbandonato l’uso. Dunque, se già la pecora gigante era bergamasca, la polenta lo è ancor di più.

Inoltre, qui è tutt’altro che un piatto invernale: si consuma sempre, in particolare la domenica, poi che si tratti di agosto o dicembre poco importa. Ma la polenta non è solo bergamasca e la sua storia si intreccia inevitabilmente con quella degli esseri umani che fin dall’epoca preistorica macinavano cereali o legumi e li impastavano con l’acqua. È l’essenzialità dei suoi elementi costitutivi, acqua e farina, che l’hanno resa un piatto universale in altre zone d’Italia, così come in gran parte dei popoli nel mondo, con declinazioni differenti a seconda del cereale presente (mais giallo o bianco, di sorgo o miglio, grano saraceno o farina di castagne).

Eppure, che si chiami fufu, porridge, banku, ugali o, appunto, polenta, c’è una costante che resta: la polenta scalda, sazia e si accompagna a quasi ogni cibo, un po’ come il riso in altre tradizioni. Ci sarebbero molte riflessioni da fare sugli usi legati alla sua preparazione e alle modalità di consumo nei luoghi a noi più lontani, ma altrettanto si può dire su quelli nostrani; così oggi vi parliamo della ricetta della polenta bergamasca e dei suoi principali abbinamenti, a partire dalla scelta del granoturco, che ci sta molto a cuore e da cui dipende gran parte della buona riuscita di questo piatto.

Tutto quello che c’è da sapere sulla polenta bergamasca

mais spinato gandino

Prima ancora della farina di mais, per preparare la polenta ci vuole tempo, poiché si tratta di un piatto lungo e lento. Nessun vero bergamasco, infatti, userà mai la polenta espressa, così come è da considerarsi un falso qualsiasi versione fatta al forno, in teglia o con un mescolatore automatico, come vedremo in seguito. Dunque, una volta certi di avere qualche ora a disposizione, potete procedere con la scelta del granoturco, senza nemmeno prendere in considerazione farine precotte o non autoctone. Leggete qui!

Come scegliere il mais o granoturco?

Nella provincia di Bergamo, il mais è talmente importante che oggi qui si trovano l’Unità di Ricerca per la Maiscoltura, con circa 750 varietà di mais italiane e oltre 5000 accessioni di varietà di altri paesi; l’Ordine dei Cavalieri della Polenta, fondato nel 1976 a Spirano; e la prima Regia Stazione di Maiscoltura a Curno dal 1920. Questo  terreno intorno a Bergamo, da sempre molto fecondo e ricco di acque, è adatto alla produzione di granoturco in grandi quantità, il melgòt. Per fortuna che l’attenzione sta tornando sui mais antichi, visto che a partire dagli anni Cinquanta le varietà tradizionali italiane sono state progressivamente abbandonate e soppiantate da ibridi di provenienza nordamericana, per maggiori potenzialità produttive.

E pensare che la storia del mais nel continente europeo ha 500 anni di storia. In particolare, le varietà autoctone della bergamasca sono lo Spinato di Gandino, il Rostrato di Rovetta, il Nostrano dell’Isola e il Rostrato dell’Isola Ambivere, l’ultimo ad esser stato riconosciuto dalla Banca del Germoplasma, grazie alla passione e al prezioso lavoro di recupero di un solo campo: quello di Daniele Caccia e della sua famiglia, davanti alla loro Trattoria Visconti di Ambivere, provincia di Bergamo, di cui vi parleremo presto.

Questa riscoperta delle varietà locali, favorita dalla crescente tutela e valorizzazione della biodiversità, nasce anche dal desiderio di riscoprire il vero sapore antico della polenta (anche se in realtà ricordiamo che dalla farina di mais si possono ricavare tantissimi altri prodotti quali biscotti, gallette e dolci vari). Infatti, il gusto, il sapore, la consistenza, il colore e la granulosità variano molto a seconda della farina utilizzata; se non doveste trovare queste varietà, l’importante è comunque scegliere una farina locale e bramata, cioè macinata a grana grossa con una granulometria tra i 350 e gli 850 micron. In passato, quasi ogni famiglia bergamasca aveva un mulino di riferimento vicino a casa, a cui alcuni conferivano il mais per sostenerne l’attività, mentre altri lo portavano semplicemente per la macina A questo proposito, ricordate il bellissimo ruolo del garzone al mulino nel film “L’Albero degli zoccoli”, ambientato proprio nella bassa bergamasca?

La ricetta della polenta bergamasca

In ogni casa bergamasca che si rispetti c’è un paiolo di rame o di alluminio in cucina, anche se, così come le farine di mais sono state sostituite da quelle industriali, anche il paiolo di rame è stato spesso soppiantato da altre versioni elettriche, che evitano di mescolarla per ore a mano. Ma non credete che sia proprio questo lavoro, seppur lungo e faticoso, a renderla un piatto unico? Utilizzando la macchinetta elettrica e non il bastù, cioè il bastone tondo per rimestare la polenta, si deve far partire l’ingranaggio nel momento in cui si dovrebbe iniziare a usare il bastone.

Le dosi che seguono cambiano in funzione della farina che avete scelto, con una crescita diversa a seconda del granoturco, dell’umidità, della temperatura e anche della stagione. In generale, una polenta soda è più adatta a selvaggina o stracotto d’asino, mentre con baccalà, lumache e formaggi bergamaschi si consiglia una polenta più morbida. In questo caso, vi basterà aggiungere alla fine un po’ di acqua bollente mescolando energicamente fino alla consistenza desiderata.

Ingredienti 6 persone

Procedimento

  1. Ponete sul fuoco il paiolo con acqua e una cucchiaiata della farina di mais scelta, che resterà in superficie. 
  2. Quando la poca farina inizierà a muoversi portandosi al centro, salate l’acqua, abbassate il fuoco e versate a pioggia 3/4 della farina circa, mentre con l’altra mano mescolate energicamente con un cucchiaio di legno grande o con il classico bastone da polenta, il bastùn o il tàrel. 
  3. In seguito è fondamentale fermarsi: coprite e lasciate gonfiare per 2 minuti la farina; poi aggiungete lentamente la farina restante. Evitate in assoluto che si formino grumi, quindi imprimete all’intera massa un movimento vorticoso. 
  4. Da questo momento contate minimo 45 minuti di cottura. Ricordate che “menare la polenta” è un’arte: chi dirige il bastone è il polso, non il gomito che invece non deve proprio muoversi; inoltre non mescolatela in continuazione, ma solo ogni 5 minuti, mentre dopo si possono aumentare progressivamente gli intervalli, fino al quarto d’ora finale. 
  5. Tenete il fuoco moderato e costante, facendo attenzione che la polenta non schizzi. 
  6. Una volta terminata la cottura, la polenta sarà una massa dura staccata dalla crosta che si forma attorno al paiolo (quello stesso che la domenica sera in casa dei bergamaschi trovate sempre in ammollo nell’acqua per far levare quella crosta coriacea ai bordi). La prova della perfetta cottura si fa tradizionalmente versando mezzo cucchiaino di polenta sul palmo della mano: se sfregandola si appallottola senza appiccicarsi, allora è pronta. 
  7. Tutto sta nella mossa finale: con un gesto rapido, secco e sicuro rovesciate sull’asse di legno già coperto con un telo di lino umido la polenta, che deve presentarsi piuttosto dura, con la forma del paiolo. I lembi di questo telo andranno a proteggere la polenta, soda e grossolana, dal contatto diretto con l’aria e la manterranno calda e umida fino al momento del consumo. Infine, il padre capofamiglia la taglia e ne fa le dosi.

Gli abbinamenti

Nei momenti storici più difficili, per le famiglie più povere la polenta era, lei sola, l’alimento quotidiano per antonomasia: si mangiava a colazione con grappa e zucchero, noci e latte; poi per pranzo e cena con verdure o con quello che c’era; basta chiedere a qualche nonno! Solo i ricchi l’accompagnavano con altre pietanze, che si sono diffuse poi nel tempo, come la polenta consa, con burro, panna, salvia, grana e aglio o il più noto polenta e osei, cioè polenta e uccellini, anche se ormai oggi in disuso, come racconta Giovanni Triulzi: “i residenti in città sia nel periodo estivo che invernale salivano alla croce dei morti e pranzavano alla trattoria Baracchetti con polenta e osei; poi ci fu il divieto, così la polenta si inizia a mangiare con coniglio arrosto o alla cacciatora. Oggi la trattoria è chiusa perché i figli e i nipoti non trovarono un accordo e i bergamaschi persero la vera gita fuori porta”.

Infatti, uno degli abbinamenti più diffusi attualmente è la polenta e coniglio (anche con pancetta), tipico piatto della domenica, o polenta con salumi, carne o funghi, vista la vicinanza con le montagne; o ancora, ovviamente, polenta e formaggi, che sia Branzi, Taleggio o meglio ancora, Strachitunt. A proposito, ricordate che vi avevamo raccontato di quella pallina di polenta che veniva messa nella mano con un po’ di Gorgonzola per scaldarsi? Era proprio la merenda mattutina della bassa bergamasca, lo ricorda una canzoncina che fa: “ciapà mpo de polènta còlda e apèna facia ‘n di mà, mètega sura ù tòch de talècc e po’ amò de la polènta, schisala co i mà e fan ona balina. Fa rodelà, co i ma o còl rampì, la balina sura la stua còlda, fina a fala dientà brustulida, quase sèca de fò. Dovrà ona polènta mia tròp mòla”, tradotto “prendi un po’ di polenta calda e appena fatta nelle mani, metterla su un pezzo di Taleggio e poi ancora polenta, schiacciarla con le mani e farne una pallina. Farla rosolare sulla stufa calda. Non deve risultare troppo morbida.”

Tornando agli abbinamenti, sempre insieme al formaggio, è possibile accompagnare la polenta anche con il burro, o con il Branzi e il Formai de Mut nella più nota polenta taragna, tipica dell’alta Lombardia, fino alla Valtellina, che varia anch’essa di casa in casa. Ciò che è importante ribadire è che tutte queste versioni sono declinazioni “ricche”, mentre in passato la polenta si consumava da sola, anche fino a 2 kg al giorno a persona. Tanto che  tra la famiglie più povere si diffuse la pellagra, sconfitta molto lentamente solo dopo l’Unità d’Italia. E in questi tempi, le massaie delle famiglie più povere crearono una serie di varianti a base di polenta e latte giocando sulle differenti temperature e consistenze, specialmente per la sera, mentre altre, per darle sapore, facevano polenta e aringa affumicata.

Insomma, oggi come ieri, la polenta non ne è mai avanzata, anche perché nei rari casi in cui accade, viene riutilizzata fritta o alla brace, la polenta brüstülìta, e solo in ultimissima istanza (dove non arriva quasi mai) destinata alle galline. Dunque, uno dei piatti più sostenibili che ci sia.
Infine, vi ricordo la forte carica sociale della polenta, cioè una di quelle portate che non si mangia mai da soli, come per esempio le  lasagne oil  cous cous, perché come scrisse Lio Pellegrini ci sono piatti che sono più atti d’amore verso qualcuno. E poi, c’è da dire che questo è il mio personale racconto sulla polenta, fondato su quanto imparato nelle case e nelle osterie, leggendo testi e facendo domande; ma ognuno, in tutta la provincia di Bergamo, così come in tutto il mondo, avrà sempre una sua personalissima storia sulla polenta! Dunque, ora non vi resta che invitare a cena un bergamasco!

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