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PIWI: dall’Unione Europea via libera ai vitigni resistenti nelle DOC

andrea federici/shutterstock.com

 

Con il regolamento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale lo scorso 6 dicembre 2021, l’Unione Europea ha dato il suo via libera all’inserimento dei vitigni resistenti alle malattie fungine o Piwi”nei vini a Denominazione di Origine.

La decisione ha diviso il settore enoico: anche se per molti rappresenta un passo in avanti verso una viticoltura più sostenibile e green, c’è chi guarda con diffidenza a queste varietà, considerandole una minaccia per la tradizione e la tipicità delle eccellenze italiane. Ma facciamo un passo indietro: cosa sono queste varietà resistenti e perché stanno diventando l’emblema di una nuova viticoltura a basso impatto ambientale?

Giovane pianta di vite Johanniter, varietà resistente/piwi-international.de

Cosa sono i “Piwi”? Caratteristiche delle uve naturalmente resistenti

La parola Piwi è in realtà un’abbreviazione della parola tedesca Pilzwiderstandsfähige, e significa letteralmente “viti resistenti ai funghi”, e come suggerisce l’origine della parola, nascono in Germania già a fine ‘800. Queste varietà sono resistenti perché ottenute attraverso tecniche di manipolazione genetica – da non confondere con gli OGM, con cui non hanno nulla a che vedere. Si tratta infatti di nuove piante che nascono da incroci multipli tra varietà di Vitis Vinifera, l’unica specie vinificata in Europa, con una piccola parte di altre specie di origine americana o asiatica.

Da questi incroci si ottiene una nuova varietà, comunque riconducibile al genere Vitis Vinifera, che eredita però dalle altre specie i geni di resistenza alle principali malattie fungine, come l’oidio e la peronospora, due vere e proprie piaghe della viticoltura. Per contrastare la proliferazione di questi funghi, nella viticoltura convenzionale si usano enormi quantità di pesticidi, le più alte rispetto a tutti gli altri prodotti agricoli prodotti nell’UE. 

vitigni resistenti/piwi-international.de

Va un po’ meglio nellagricoltura biologica o biodinamica, dove contro i funghi della vite, al posto dei pesticidi, si usa da decenni una soluzione a base di zolfo e rame, chiamata “poltiglia bordolese”. Il rame è però un metallo pesante che si accumula e rimane a lungo nel terreno, tanto che l’Unione Europea nel 2019 ha ulteriormente diminuito le quantità consentite per anno, e punta a sostituirlo nei prossimi anni con materiali più rispettosi del benessere del suolo, come la zeolite, sostenuta da studi incoraggianti.

Le varietà resistenti invece non contraggono queste malattie, per cui la necessità di trattamenti antifungini, i più invasivi, è azzerata o estremamente ridotta. È vero che queste viti sono esposte ad altri agenti patogeni – come i batteri che causano il cosiddetto “giallume”, o ai virus, che spesso causano l’arricciamento delle foglie – ma sono malattie per cui si lavora sulla prevenzione più che sui trattamenti, spesso inefficaci.
Ad oggi sono circa un centinaio i vitigni PIWI registrati in Europa.

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Vini Piwi: come sono?

Con queste premesse, non è difficile capire perché ci sia così tanto interesse verso queste nuove varietà dal punto di vista della sostenibilità ambientale. Ma cosa dire invece della qualità, e della “prova al palato”, di questi vini?

I risultati sono incoraggianti: nonostante alcune varietà acquisiscano caratteristiche completamente nuove, altre, come il Sauvignon Ritos o il  Sauvignon Nepis, “figli” del Sauvignon Blanc, risultano praticamente indistinguibili dal genitore. Forse non è così per i degustatori più esperti, ma sicuramente per il consumatore medio la differenza è impercettibile.

Altre varietà stanno riscuotendo successo anche tra gli appassionati, come il Bronner nell’Alto Adige, da cui si ottiene l’omonimo vino che nelle sue espressioni migliori viene affinato in legno, acquisendo complessità e potenziale di invecchiamento.

Cabernet Blanc/wein.plus/it

Ad oggi sono tante le varietà prodotte e coltivate in Italia. Si tratta probabilmente di nomi semisconosciuti, ma è probabile che diventeranno sempre più comuni nei prossimi anni.

Partiamo dai Piwi bianchi: oltre ai già citati Sauvignon Nepis e Bronner, spiccano il Solaris, sempre più coltivato in Alto Adige, e il Johanniter, più coltivato in Veneto e spesso prodotto come vino frizzante con metodo ancestrale.
Interessante anche il Cabernet Blanc, altra varietà che ricorda il Sauvignon Blanc negli aromi, dall’acidità spiccata e spesso vinificata sullo stile dei “fumé blanc” californiani. Il vino viene affinato in botti di rovere sulle fecce fini dei lieviti, depositatisi al termine della fermentazione, per ottenere un vino ricco e complesso dal grande potenziale di invecchiamento.
Tra i rossi invece troviamo il Merlot Khorus, Cabernet Cortis e il Prior, spesso vinificati insieme, il Gamaret, principalmente coltivato in Valle d’ Aosta, e il Cabernet Carbon, varietà speziata discendente dal Cabernet Sauvignon, che dà vini di colore intenso, dal grande corpo e dalle interessanti potenzialità di invecchiamento. Di origine tedesca, in Italia questa varietà è coltivata soprattutto in Veneto e Alto Adige.

Piwi nelle DOP, tra entusiasmo e sospetto

Abbiamo visto che, nonostante i benefici, le varietà resistenti non sono ancora viste di buon occhio da tutti in Italia.

Tra i sostenitori ci sono personalità illustri del settore: Luigi Moio, presidente dell’OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino), e il prof. Attilio Scienza, uno dei più grandi esperti mondiali di viticoltura e genetica della vite, in occasione di un convegno organizzato dalla Fondazione Edmund Mach a San Michele all’Adige, hanno accolto la decisione come un punto di svolta nell’enologia italiana, e dichiarato l’importanza della sperimentazione con queste varietà al fine di ottenere vini di qualità elevata, che possano diventare sul lungo termine un’espressione dei territori di provenienza.

Altri però, come Roberto Stucchi Prinetti, presidente del Biodistretto del Chianti, sono di parere contrario: la decisione dell’Unione Europea di consentirne l’uso nelle DOP sarebbe lo “stravolgimento di uno dei valori aggiunti fondamentali delle denominazioni e dell’agricoltura biologica, cioè la territorialità”.

Cabernet Carbon/ebschule-mueller.de

Le posizioni contrarie come questa sostengono dunque la tesi che queste nuove varietà potrebbero, se introdotte massivamente in viticoltura, contaminare i vini DOC, snaturandone quel carattere di tipicità legato a decine o centinaia d’anni di adattamento dei vitigni autoctoni al loro territorio. Altra preoccupazione è che questa apertura spinga a espandere i confini delle DOC, consentendo di piantare le vigne in territori meno vocati, ma che potrebbero diventare appetibili proprio grazie alla maggiore resistenza delle varietà Piwi.

Per noi è ancora presto per dare pareri definitivi sui vitigni Piwi: come d’abitudine, ci poniamo in maniera aperta e curiosa verso le novità che fanno bene all’ambiente, e possiamo affermare che un Bronner, assaggiato di recente a una degustazione in Alto Adige, ci ha stupito particolarmente per aromi ed equilibrio.

E voi avete già avuto modo di provare qualche vino Piwi? Siamo curiosi di scoprire le vostre opinioni, favorevoli o contrarie, ma sicuramente… resistenti!

 

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