Sul pesce allevato da tempo circolano notizie false o incomplete, che hanno intaccato la fiducia dei consumatori riguardo alla sua sicurezza e alla sua qualità, come abbiamo visto occupandoci di acquacoltura e fake news. Una recente inchiesta ha riacceso il dibattito, in particolare distinguendo sommariamente le produzioni in base alla loro provenienza nazionale e al presunto contenuto di grassi. Ma il pesce d’allevamento è sicuro? Possiamo fidarci dei controlli e di ciò che offre il mercato? Per approfondire l’argomento, abbiamo interpellato Valentina Tepedino di Eurofishmarket, veterinaria specializzata in igiene, allevamento e ispezioni alimentari, referente nazionale della Società di Medicina veterinaria preventiva per i prodotti ittici.
Pesce d’allevamento: sicuro o no?
L’ultimo decennio ha visto aumentare nettamente il consumo di pesce in Italia, una richiesta in gran parte soddisfatta dall’itticoltura, che tuttavia troppo spesso sconta una fama negativa. Questa tendenza è stata alimentata anche da servizi televisivi privi di reale approfondimento e dal tono eccessivamente allarmistico, dai quali è emerso un quadro poco rassicurante. Dopo la puntata Muto come un pesce di Report, abbiamo chiesto alla dottoressa Tepedino se fosse davvero così semplice evidenziare la differenza tra un’orata italiana pescata e un’altra allevata, oppure tra pesci allevati di provenienza greca e italiana. “Far credere al telespettatore che si possa valutare l’origine, il metodo di produzione e la qualità del mangime utilizzato in itticoltura mostrando, all’eviscerazione di un’orata, il suo contenuto di grasso – com’è stato mostrato nel servizio sopra citato – è offensivo della sua intelligenza, oltreché assolutamente privo di basi scientifiche. Al momento, non ci sono analisi ufficiali in grado di verificare la provenienza geografica del pesce d’allevamento, figuriamoci se è possibile farlo a occhio nudo, osservandone il grasso periviscerale”.
Inoltre, aggiunge l’intervistata, “in merito alle questioni relative alla sicurezza dei mangimi somministrati in acquacoltura, è importante ricordare che il sistema di controlli a garanzia di ciò che arriva sulla nostre tavole conta numerosi passaggi, e nel caso in cui un prodotto dovesse sfuggire a un primo anello, ve ne saranno comunque diversi altri da superare. Se possono emergere casi di contaminazione di qualsiasi sorta, è proprio grazie alle maglie fitte di una rete d’ispezioni della quale possiamo fidarci. Pertanto, allarmismo e sensazionalismo sono del tutto ingiustificati”.
Pesce d’allevamento: possiamo fidarci dei mangimi?
Il passaggio dell’inchiesta in questione sul pesce d’allevamento si è concentrata, in particolare, sulla qualità e sugli ingredienti dei mangimi, che per chi esegue le ispezioni “sono una delle voci più controllate e controllabili, oltre a essere la prima a essere considerata: tutto quello che contengono deve essere dichiarato”, ha sottolineato Tepedino. “Il fattore più importante è proprio il mangime, dal quale parte la valutazione del rischio. Dunque, viene controllato per una serie di eventuali contaminanti, poi si esaminano le carni dei pesci per le stesse sostanze. L’eventuale presenza di mercurio, cadmio, piombo, PCB o altro è comunque scrupolosamente verificata. Non c’è nessun vantaggio a usare prodotti scadenti, e tantomeno contaminati. Per questo aspetto, il pesce allevato è più sicuro del pescato, del quale non si può conoscere in anticipo la qualità sanitaria di ciò che mangia”.
Lo stesso discorso vale per gli antibiotici, perché “i mangimi medicati, contenenti farmaci, si possono utilizzare solo sotto prescrizione di un veterinario, e il pesce d’allevamento può essere macellato solo dopo avere rispettato i cosiddetti tempi di sospensione, successivi alla somministrazione e utili a eliminare gli stessi dalle carni dei pesci. Anche in questo caso, quindi, deve essere tutto sotto controllo e indicato in un registro di carico e scarico sotto vigilanza, anche da parte dell’autorità ufficiale competente per quel territorio”.
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Presenza di farine animali: è un rischio?
“L’uso di farine derivanti dalla macellazione di polli e suini – in passato ampiamente diffuso per economicità e valore nutrizionale, ma in seguito sospeso per anni dopo il caso BSE (mucca pazza) – è stato da tempo riammesso, in quanto le sperimentazioni hanno dimostrato che le temperature e la processazione della lavorazione escludevano qualsiasi problema di sicurezza. Anzi, nell’ottica di un’economia circolare sarebbe un peccato sprecarle, anche perché diversamente il loro smaltimento avrebbe costi rilevanti. “Dal punto di vista della sostenibilità, è necessario non disperdere risorse che possono essere utilmente impiegate per produrre alimenti per l’uomo, riducendo la pressione sugli stock di pesce selvatico. Queste farine sono state riammesse in quanto sicure e di ottima qualità nutrizionale. Voler evidenziare come un vanto la scelta di non utilizzarle in quanto ‘scarti di allevamenti intensivi’ – come spesso si legge nei capitolati della grande distribuzione o si dichiara in certi servizi giornalistici – non è a mio parere coerente, specialmente quando la comunicazione e la filiera produttiva puntano sull’ecologia e sull’ottimizzazione energetica”, ha aggiunto l’esperta di Eurofishmarket.
“Sui mangimi vigono molte limitazioni, e da veterinaria posso confermare che si eseguono prelievi e controlli su vari aspetti. Lo sforzo dei produttori è concentrato per trovare soluzioni sempre più sostenibili, per limitare l’uso di pescato e risorse vergini nella mangimistica, senza intaccare il valore nutrizionale finale e i costi di produzione, anzi ottimizzando questi aspetti. In questo senso, sono allo studio anche soluzioni che utilizzano micro-alghe e insetti. Inoltre, le aziende del settore – numericamente poche ma molto forti – investono tanto in ricerca e sviluppo, e non vogliono certo danneggiare la loro immagine per stare al gioco di metodi di allevamento scorretti, non consoni e non sostenibili, anche alla luce delle nuove esigenze del mercato”.
Pesce d’allevamento e additivi nei mangimi
Nell’inchiesta citata, si dava risalto all’uso di additivi nella mangimistica, a tal proposito Tepedino ricorda che “ciascuno di essi deve essere autorizzato a livello comunitario dalla Commissione europea, la quale, previa valutazione dell’EFSA, ne consente l’utilizzo a specifiche condizioni. Tra queste, il fine, la specie di destinazione, gli eventuali tenori minimi/massimi e le raccomandazioni d’uso sono riportati in un atto legislativo pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’UE. Nella puntata, si parlava di ‘Functional Compounds Additives’, che – sempre secondo il servizio – sarebbero ‘quell’insieme di additivi chimici e nutrizionali utilizzati per fare ingrassare prima il pesce’. Non capisco cosa intendano con questa definizione, perché non esistono additivi autorizzati come promotori della crescita per l’alimentazione dei pesci, ai sensi del Regolamento (CE) 1831/2003. Quelli normalmente utilizzati sono vitamine e minerali, utili per soddisfare il fabbisogno dei pesci, garantendone la salute e il benessere. Inoltre, l’’’ingrasso’ del pesce non è assolutamente un risultato ricercato dagli allevatori”.
Nello specifico, invece, “E321 (Butilidrossitoluene, BHT) e E320 (Butilidrossianisolo, BHA) appartengono al gruppo degli additivi tecnologici e fanno parte del gruppo funzionale degli antiossidanti, così come stabilito dal Regolamento (CE) 1831/2003, che ne fissa anche i limiti massimi. Sono utilizzati per evitare l’ossidazione nei mangimi con prodotti sanguigni, perché il ferro in essi presente è un potente pro-ossidante, soprattutto in presenza di acidi grassi polinsaturi, oppure perché contengono componenti facilmente soggetti all’ossidazione, come il carotenoide astaxantina. In ogni caso, tutti gli additivi per i quali esiste un tenore massimo sono riportati sul cartellino del mangime”.
Pesce d’allevamento al supermarket: la qualità è soddisfacente?
I dubbi che si possono avere sul pesce d’allevamento comunemente in vendita – considerando la sicurezza sanitaria un pre-requisito per la commercializzazione – riguardano la qualità, intesa come insieme di valori aggiunti che per il consumatore potrebbero rappresentare un motivo in più per acquistare un prodotto. Fra questi, ad esempio, si possono citare la consistenza più soda delle carni, o una gestione particolarmente attenta al benessere dei pesci.
Secondo Tepedino, “i produttori – a loro stessa tutela – dovrebbero pretendere delle linee guida istituzionali, magari di matrice europea, utili per attribuire una classificazione ai prodotti ittici di allevamento, in base a diversi aspetti. Questo renderebbe più trasparente il sistema di attribuzione della qualità, e soprattutto ne consentirebbe un controllo da parte dell’autorità ufficiale competente. Il consumatore, di conseguenza, sarebbe sicuramente più tutelato rispetto alle proprie scelte d’acquisto. In Europa, eccetto quella sul biologico, non esiste una normativa specifica per l’acquacoltura convenzionale che fissi limiti sulla quantità di pesci per metro cubo d’acqua, mentre c’è in Norvegia. Il Paese leader mondiale nell’allevamento del salmone, infatti, da diversi anni si è dotato di norme precise sul benessere dei pesci d’allevamento e sulla classificazione degli stessi.
In Italia, come nel resto d’Europa, esistono al momento solo autocertificazioni, certificazioni e bollini di qualità volontari, e sicuramente sarebbe utile seguire l’esempio norvegese per creare dei riferimenti istituzionali. Quello dell’Alaska è un altro esempio positivo – anche se relativo alla pesca – perché questo Stato americano ha costituito un marchio ufficiale, riconosciuto gratuitamente a chi opera rispettando le regole e le linee guida governative della pesca sostenibile”.
Il pesce allevato fuori dall’Italia è più scadente?
In merito a una classificazione sommaria stilata solo in base alla provenienza geografica, la nostra interlocutrice non ha dubbi. “Non ritengo sia giusto generalizzare e affermare che l’allevamento di un Paese è migliore rispetto a quello di un altro, perché i produttori vanno valutati singolarmente. Non possiamo dire che in Grecia si lavora male: i consumatori devono capire che questo ragionamento non ha senso, e anche tra chi opera in Italia possono esserci notevoli differenze”.
Favorire la qualità, aiutando consumatori e aziende
Secondo l’esperta di Eurofishmarket, come abbiamo visto nel nostro approfondimento sulla trota, “le caratteristiche igienico-sanitarie sono altamente controllate, e gli episodi negativi – associabili a espedienti per limitare i costi di gestione – non rappresentano certo la regola. Se la sicurezza costituisce un prerequisito, lo stesso non si può dire della qualità – sensoriale, nutrizionale e di allevamento – per cui, come si accennava, mancano, in generale, norme specifiche e un controllo ufficiale mirato. Anche sui prodotti ittici è aumentata la presenza di bollini con ogni tipo di certificazione volontaria – filiera, ambiente, etica, aspetti salutistici, ecc. – che però potrebbero finire per confondere i consumatori. Al momento dell’acquisto, quindi, può risultare più semplice affidarsi ai prodotti con marchio del tipo ‘patto qualità’ della catena di fiducia”.
Di questo lavoro e di tale competenza, tuttavia, dovrebbe essere deputata un’istituzione pubblica, a tutela dei consumatori come dei produttori, anche per contrastare la concorrenza sleale e vincere qualsiasi conflitto di interessi. Al momento, infatti, chi acquista non ha un criterio per selezionare un pesce allevato in base a una categoria qualitativa riferita ad una specifica norma o standard istituzionale. In questo dunque sarebbero utili delle linee guida istituzionali o norme utili magari a creare delle classificazioni di qualità, che aiuterebbero a distinguere tra le produzioni, motivando le differenze di prezzo. Oggi chi lavora molto bene si vede messo alla pari di chi ha una produzione ‘standard’. Questo sistema, nel tempo porta ad abbassare la qualità, non ad alzarla, perché chi alleva nel migliore dei modi deve sostenere costi di gestione maggiori. Su questo aspetto, pertanto, è necessario concentrare gli sforzi”.
Al di là dei pregiudizi sbagliati, per Valentina Tepedino “i prodotti da acquacoltura sono, in linea generale, controllati e sicuri dal punto di vista igienico-sanitario, e anche gli aspetti qualitativi vengono sempre più ricercati e monitorati. Il pesce allevato in modo eccellente assomiglia moltissimo a quello selvaggio, sia sul piano sensoriale che per i valori nutrizionali. Anche per le produzioni allevate in modo ‘standard’, tuttavia, le differenze non sono particolarmente significative”.
Mangiate abitualmente pesce d’allevamento? Avete mai avuto dubbi sulla sicurezza e sulla qualità?