Da circa vent’anni, il persico africano è in vendita sui banchi del pesce europei e italiani, dove in genere si distingue per essere uno dei prodotti ittici meno costosi, motivo che contribuisce a renderlo attraente per i consumatori. Diverse inchieste, però, si sono occupate di questa produzione, rivelando aspetti apparentemente poco rassicuranti, lontani dai criteri di pesca sostenibile e di sicurezza alimentare. Quindi, il persico africano è sicuro? Da dove proviene e qual è la filiera che lo porta fino ai supermercati? Con l’aiuto di Valentina Tepedino di Eurofishmarket, veterinaria ed esperta di acquacoltura, cercheremo di saperne di più.
Pesce persico africano: origini e caratteristiche
Lungo fino a due metri per altrettanti quintali di peso, il persico africano o del Nilo (Lates niloticus) ha un aspetto minaccioso, reso tale anche da un’enorme bocca munita di denti aguzzi e da una gobba pronunciata sul dorso. Questo predatore, diffuso in molti dei principali fiumi e laghi dell’Africa centrale, predilige i bacini privi di forti correnti, mentre la pigmentazione grigia nel dorso e bianca sul ventre ne facilita il mimetismo. Prolifico, vorace e molto adattabile, non ha faticato ad ambientarsi in gran parte delle acque interne del continente, spesso grazie a immissioni volontarie da parte dell’uomo – come nel caso del pesce siluro in Europa – per avviarne la pesca e lo sfruttamento alimentare.
È importante precisare che il Lates niloticus non va confuso con il pesce persico (Perca fluviatilis), pescato in Italia e in Europa. Di taglia e spessore molto inferiore e dai filetti più chiari, questo pesce è ben più pregiato e costoso. Le carni del persico africano, invece, sono di colore rosato, poco saporite ma morbide, peculiarità che insieme alla bassa quantità di scarto e di spine – limitate alla dorsale e alle lische ventrali – sono complessivamente apprezzate dal mercato. Facili da pulire e da cucinare, i filetti si prestano per le panature e le cotture al forno, alla griglia o in padella.
Sul piano nutrizionale, il persico africano ha poche calorie e una discreta quantità di proteine; la presenza di colesterolo non è trascurabile, mentre l’apporto di minerali è piuttosto scarso. Una porzione da 100 grammi di filetto indicativamente contiene:
- Calorie: 81 kcal
- Proteine: 15 g
- Carboidrati: 2 g
- Grassi: 1 g
- Colesterolo: 70 mg
- Potassio: 256 mg
- Sodio: 92 mg
Come si spiega il boom commerciale del persico africano?
Nei primi anni Duemila, le importazioni in Italia di pesce persico africano sono aumentate di dieci volte, un dato che testimonia il successo di questa produzione nel mercato nazionale. La grande domanda, oltreché per le caratteristiche sopra citate, si spiega soprattutto per il prezzo, inferiore rispetto a quello del merluzzo e di altri pesci. Oltre al successo in Europa, il persico africano è molto richiesto anche in Cina, dove la vescica natatoria, considerata un cibo afrodisiaco, viene venduta a peso d’oro.
Grazie a questa spinta commerciale, è nato e cresciuto un business molto rilevante, con l’insediamento di importanti gruppi multinazionali europei e asiatici, che impiegano manodopera locale a basso prezzo, sulla quale può reggersi l’economicità finale del prodotto. Nelle zone di pesca, tutto ciò ha generato cambiamenti significativi a livello sociale, economico e ambientale.
Persico africano: come viene prodotto e lavorato?
Il persico africano commercializzato in Europa proviene dal Lago Vittoria – il più grande bacino africano, grande quasi quanto l’Italia e diviso tra Uganda, Kenya e Tanzania – dove viene pescato e lavorato in stabilimenti locali. Dopo il surgelamento, che in genere avviene nell’arco di 24 ore, il pesce viene esportato per via aerea in Olanda, da dove poi raggiunge l’Italia. Come precisa Valentina Tepedino, questo avviene perché il margine di guadagno non giustifica più l’importazione diretta, in quanto negli ultimi anni questa produzione ha subito soprattutto la concorrenza di pesci d’allevamento, tra i quali il più economico pangasio. Quando il persico africano ha vissuto il suo boom commerciale, peraltro, l’acquacoltura non era ancora rilevante come oggi.
Le principali aziende che lo sfruttano praticano una pesca industrializzata con potenti imbarcazioni e grandi reti, ma a livello professionale sono utilizzati anche i palamiti (lenze lunghe e spesse, armate di molti ami). La pesca di sussistenza delle popolazioni locale, che utilizzano piccole barche di legno, a motore o a remi, ha un impatto molto minore, almeno quando è praticata correttamente.
Persico africano e degrado ecologico del Lago Vittoria
Le criticità legate al persico africano – reali o solo temute – dipendono dalle condizioni ambientali e sociali del bacino da dove proviene il pescato venduto a livello internazionale, raccontate per la prima volta al grande pubblico dal documentario L’incubo di Darwin, del 2004. L’introduzione di questo grande predatore nel Lago Vittoria, avvenuta nella seconda metà degli anni Cinquanta, ha causato squilibri all’ecosistema locale, spingendo alcune specie autoctone verso l’estinzione. Non a caso, il Lates niloticus è stato inserito nella lista IUCN delle cento specie invasive più dannose al mondo. Nel corso degli anni, inoltre, i prelievi eccessivi per soddisfare un crescente mercato e l’inquinamento avrebbero danneggiato la stessa industria della pesca. A questi problemi, si aggiungerebbero le condizioni sociali e di vita dei lavoratori locali.
Il persico africano è sicuro?
Sulla salubrità di questo pesce da anni esistono dubbi, alimentati da inchieste giornalistiche e documentari, che puntano il dito contro il degrado ambientale del Lago Vittoria e il sistema produttivo alla base delle esportazioni. Parlando di sicurezza alimentare, però, Valentina Tepedino sottolinea che “oggi sul persico africano non ci sono problemi di natura igienico-sanitaria. Spesso, i media se ne sono occupati agitando un eccessivo allarmismo, ma certe affermazioni andrebbero sempre supportate da dati scientifici”.
A questo proposito, Tepedino cita il caso del pangasio, anni fa demonizzato per la presenza di tracce di cianuro nel fiume Mekong, dove viene allevato. “I controlli ispettivi ufficiali e gli addetti all’autocontrollo per legge sono tenuti a verificare una serie di contaminanti e, a campione, vengono anche ricercate altre sostanze non previste dalla normativa. Le sostanze rinvenute nelle acque, tuttavia, non necessariamente sono presenti nelle carni. Pertanto, quando si effettuano delle vere indagini, quello che conta davvero è dimostrare l’effettiva presenza di qualsiasi eventuale sostanza non ammessa nelle carni del prodotto ittico sotto inchiesta e destinato al consumo umano”.
Se il prodotto finale non fosse sicuro, quindi, non potrebbe essere commercializzato. Va aggiunto, inoltre, che riguardo a questo pesce non si riportano casi recenti di contaminazione, aspetto che comunque non significherebbe un problema diffuso. “Proprio per il suo passato, questo prodotto oggi non ha problemi, dato che all’inizio degli anni Duemila ci sono state alcune segnalazioni, e di riflesso i controlli sono stati intensificati. Da allora, quindi, ha attirato un’attenzione molto forte sul piano sanitario. Attualmente, la filiera produttiva e gli stabilimenti sono controllati e generalmente ben gestiti, anche perché si tratta di un’industria molto importante che dà lavoro a tante persone. Un buon professionista del settore alimentare deve valutare i fatti, verificando la qualità nella gestione del prodotto e delle strutture, delle attrezzature e del personale con i quali gli alimenti entrano in contatto”.
Persico africano: fresco o decongelato?
In merito alla qualità e alla gestione, l’intervistata dichiara di riscontrare ormai da anni che questo pesce, al suo arrivo in Italia – anche triangolato da altri Paesi europei – pur riportando in etichetta lo stato fisico di prodotto ‘fresco’, è quasi sempre congelato. In Africa la maggior parte delle aziende, dopo la pesca, effettua una lavorazione immediata del prodotto in filetti, a cui segue un loro abbattimento, proprio a preservarne meglio la qualità. Ad ogni modo, secondo Tepedino, sarebbe meglio trovare questo pesce nel banco freezer e non del fresco, perché si avrebbe un prodotto più garantito.
Il pesce low cost va evitato?
Alla luce di queste considerazioni, si è portati a chiedersi quanto abbia senso acquistare pesce a basso prezzo prodotto a migliaia di chilometri dall’Italia. “Preferisco evitare il persico africano, avendo dubbi sul fatto che arrivi davvero fresco, mentre il pangasio non lo acquisto perché poverissimo di omega 3. Pur non avendo controindicazioni sanitarie, come a volte si è detto, risulta privo dei benefici nutrizionali che in genere si cercano nel pesce. Se negli allevamenti fosse nutrito con un’alimentazione mirata, però, questa lacuna potrebbe essere colmata, a patto di accettare un prezzo finale superiore”.
Persico africano e pangasio possono essere tranquillamente consumati, anche se sarebbero da preferire il pesce azzurro o qualsiasi altra specie pescata o allevata con un maggior valore nutrizionale. Inoltre, non si può più parlare di low cost come alcuni anni fa, perché oggi il filetto di pangasio è venduto a 8-10 euro al chilo, mentre si raggiungono i 12-15 euro per il persico africano. Quest’ultimo, aggiunge Tepedino, è migliore fra i due e avrebbe un buon profilo nutrizionale, che in parte un decongelamento mal gestito può disperdere. In ogni caso, “io sostengo i prodotti a filiera corta e consiglio di variare il più possibile le specie ittiche consumate”, conclude l’intervistata.
Avete mai mangiato il persico africano?
Altre fonti:
Report
L’incubo di Darwin
Eurofishmarket
Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN)