Sin da bambini ci viene insegnato, giustamente, a rispettare il cibo. Veniamo spesso rimproverati se ci rifiutiamo di mangiare qualcosa, se manifestiamo apertamente disgusto nei confronti di un piatto o un alimento, e siamo esortati ad assaggiare anche ciò che non ci piace. Eppure a tutti – chi più, chi meno – può succedere, o essere successo, di provare avversione verso determinati cibi. Perché questo accade? Come mai certi sapori, consistenze, ricette possono provocare repulsione in alcune persone e in altre no? È possibile imparare a mangiare anche ciò che ci repelle? Di queste e altre domande abbiamo parlato con Maria Piochi, Ricercatrice in Scienze e Tecnologie Alimentari presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
Qual è il ruolo del disgusto in ambito alimentare?

Se da un lato è importante un’educazione alimentare che ci insegni a rapportarci al cibo in modo rispettoso, insegnando ai bambini che è qualcosa di prezioso e che non va sprecato, dall’altro bisogna considerare che, come spiega Maria Piochi, “il disgusto è, a tutti gli effetti, un tratto della personalità innato negli esseri umani, come lo è anche la neofobia (una paura in ambito alimentare legata al timore di cibi nuovi o sconosciuti, ndr). L’aspetto interessante è che il disgusto nasce come meccanismo protettivo: infatti, è una risposta adattiva per evitare cibi deteriorati, tossici o pericolosi per la salute. Si tratta quindi di un’emozione potente, che ha la funzione di proteggerci”.
Cosa causa il disgusto? L’impatto di genetica e psicologia
Chiarito il ruolo primario che riveste il disgusto, parlare di cosa provochi questa risposta è molto complesso. “Sono tanti i fattori che concorrono. In primis, c’è da considerare l’aspetto biologico e genetico: persone diverse, a parità di contesto, possono avere un livello innato di disgusto differente (pensiamo a due fratelli nati e cresciuti nella stessa famiglia, per esempio). Spesso, sono proprio i soggetti più sensibili a queste sensazioni sensoriali a essere i più propensi a evitare determinati cibi”, sostiene Maria Piochi. Un tema, quello del legame tra gusto e DNA, che abbiamo affrontato anche nell’articolo dedicato alla possibilità che i gusti alimentari siano ereditari.
Vanno poi considerati i fattori psicologici: “Ci sono associazioni che vengono fatte sin da bambini, mentre altre si apprendono nel corso della vita: in base al contesto in cui cresciamo – continua l’intervistata – alcuni prodotti possono essere associati al disgusto, ad esempio perché richiamano un’idea di contaminazione biologica o parti del corpo umane (le interiora, insaccati preparati con sangue, ecc.). Un altro elemento che può contribuire è l’esperienza sensoriale. Sin dalla tenera età, i nostri sensi catturano elementi connessi all’aspetto, all’odore e alla texture dei cibi; questi ultimi possono evocare sensazioni che provocano disgusto in alcuni soggetti (pensiamo alle consistenze molli o vischiose, ad esempio)”.
E per quanto riguarda le differenze tra uomini e donne? “Le donne tendono a essere più sensibili, soprattutto in età fertile. Diversi studi hanno evidenziato che il disgusto aumenta in alcune fasi fisiologiche, come la gravidanza, quando la donna è più suscettibile, un aspetto collegato alla funzione evoluzionistica di questa risposta emotiva”, conclude la ricercatrice.
Il ruolo di cultura, ambiente e contesto familiare
“L’ultimo fattore importante nel determinare il nostro livello di disgusto – continua Maria Piochi – è quello familiare e culturale. L’ambiente e il contesto familiare in cui si cresce hanno un impatto cruciale. I bambini imparano imitando, per cui tendono a emulare alcune dinamiche familiari, prendendo come esempio i genitori. Le reazioni o i comportamenti che padre e madre hanno nei confronti dei cibi possono influenzare i figli e accentuare una risposta di disgusto verso alcuni prodotti. Il fatto che il genitore adotti una certa risposta verso un determinato piatto predispone il bambino a imitarlo. Ciò significa che se l’adulto mostra una marcata repulsione nei confronti di una pietanza, anche il figlio, probabilmente, sarà più propenso a evitarla”.
Anche il tema della cultura è essenziale: “Esistono culture in cui certi alimenti, essendo altamente familiari, non sono considerati ‘disgustanti’. Un esempio emblematico è rappresentato dagli insetti: in Asia vengono consumati da sempre, mentre in un contesto europeo, dove non si è abituati a mangiarli, tendono a provocare disgusto. Questo è spesso collegato alla neofobia, di cui parlavamo”, spiega la ricercatrice.
Il significato dei cibi: come influenza il grado di disgusto?

Esistono alimenti che possono generare disgusto per ciò che rappresentano. Maria Piochi evidenzia un aspetto molto interessante: “Oggi, per esempio, si parla di disgusto verso i prodotti legati alle nuove tecnologie, come la carne coltivata in laboratorio. Si tratta di una forma di avversione prettamente cognitiva, connessa a ciò che attribuiamo a quel cibo, all’aspettativa che abbiamo e alla paura del nuovo. Il senso di repulsione, quindi, può essere evocato anche da un concetto o da un’idea che vanno contro il contesto in cui siamo cresciuti. Non è un discorso sensoriale, in questo caso”. Un altro esempio interessante riguarda i vegetariani e i vegani in relazione al consumo di carne: “È un ambito di studio molto ampio: sono persone con convincimenti molto forti, che le portano a provare disgusto al pensiero di mangiare altri animali”.
Quali sono le forme di disgusto più comuni?
Pensando alle forme di disgusto più diffuse nella nostra cultura, Maria Piochi ci spiega che “da un lato c’è il tema del crudo (sia per quanto riguarda la carne e il pesce, che la verdura). Ci sono persone a cui i cibi crudi generano disgusto, questione legata alla sicurezza alimentare, secondo alcuni studi, poiché la cottura, in primo luogo, ha l’obiettivo di ridurre la carica microbica. Dall’altro, c’è il tema delle texture. Alcune consistenze provocano ritrosia, in particolare quella molle: pensiamo alle ostriche, ad esempio, alimento ‘critico’ anche per chi non ama i cibi crudi. Le ostriche sono un prodotto intrigante perché se possono essere causa di repulsione, allo stesso tempo sono considerate un piatto costoso e di nicchia”.
Qual è il tuo livello di disgusto? Provalo con un test
In virtù del fatto che il disgusto è un tratto della personalità e che ognuno può essere più o meno propenso, su base innata, a evitare certe pietanze, esistono test scientifici per conoscere il proprio livello di disgusto alimentare. Come ci racconta la ricercatrice, si tratta di un argomento molto studiato e ci sono scale scientifiche validate da ricercatori che hanno l’obiettivo di quantificare questo aspetto: “Molto famosa, per esempio, è quella proposta dai ricercatori Christina Hartmann e Michael Siegrist, del 2018, composta da una serie di domande. È interessante perché la scala prevede diversi domini, molti dei quali non hanno necessariamente a che fare con l’ambito alimentare, ma anche con altri aspetti come l’igiene e la contaminazione umana degli alimenti”.
È possibile superare il disgusto verso certe pietanze?

Considerato che il disgusto può essere un aspetto molto radicato in noi, c’è la possibilità di superarlo oppure è una condizione immutabile nel tempo? “La possibilità c’è, ma non è semplice, soprattutto se è ‘reale’ disgusto, quindi se è una caratteristica innata in noi. Tuttavia, esistono delle strategie utili per provare a ridurlo. Per esempio, si può cercare di aumentare l’esposizione a certi alimenti: in casi di disgusto lieve, questo può portare a un miglioramento. Allo stesso tempo, essendo un tratto della personalità – fermo restando il ruolo dell’ambiente – è comunque qualcosa che, a livello genetico, ci portiamo dietro”, risponde l’intervistata. “Ricordiamo inoltre che, proprio perché si tratta di un tratto della personalità, è dignitoso e giusto che ci sia: il disgusto non va necessariamente demonizzato, perché ha una valenza evoluzionistica”.
Come aiutare i bambini a superare il disgusto alimentare
Maria Piochi ci spiega che, posto che alcuni gusti sono innati, i genitori possono modulare questo aspetto, attraverso un meccanismo di rinforzo positivo o negativo: “Ad esempio, se il bambino non gradisce un dato alimento e viene lodato nel momento in cui cerca comunque di assaggiarlo, si mette in atto un rinforzo positivo. Viceversa, l’approccio tipico è il rinforzo negativo, ossia forzare a mangiare un cibo che disgusta: questo andrebbe sempre evitato”.
Se il piccolo si dimostra riluttante verso certe pietanze, quindi, il suggerimento è quello di non forzarlo, ma di cercare di introdurre l’ingrediente in modo graduale. “Una strategia può essere mascherare il suo grado di riconoscibilità, combinandolo con altri e giocando sull’abbinamento gastronomico. Anche invitare il bambino a cucinare insieme potrebbe aiutare a smorzare la ritrosia nei confronti di alcuni componenti, così come rendere la preparazione più divertente e attraente, lavorando sull’estetica del piatto. Consideriamo che una forzatura negativa potrebbe generare anche dei traumi: se un bambino viene costretto a mangiare qualcosa che proprio non vuole, probabilmente in futuro non tornerà più su quell’alimento. Inoltre, sarebbe opportuno che il genitore si ponesse come modello positivo, evitando di manifestare in modo troppo evidente un’eventuale avversione”, suggerisce la ricercatrice.
Al tempo stesso, Maria Piochi ribadisce l’importanza di mantenere un clima sereno e disteso: “Il momento di sedersi a tavola non dovrebbe diventare occasione di tensione o pressione, perché altrimenti non si riesce a uscire dalla situazione in cui il pasto è visto come qualcosa di negativo. È bene che si facciano degli sforzi per ridurre la resistenza del piccolo verso alimenti importanti per la sua nutrizione (pensiamo ai vegetali, per esempio), ma se le buone pratiche viste in precedenza non portano risultati, evidentemente quella forma di disgusto è una caratteristica intrinseca del bambino”.
Sebbene talvolta possa essere difficile da accettare e comprendere, quindi, il disgusto in ambito alimentare è qualcosa che deriva dalla nostra evoluzione e, in quanto tale, va rispettato. È certamente giusto provare a ridurre la propria sensibilità verso certi alimenti, soprattutto laddove questi sono importanti per una dieta sana ed equilibrata, ma senza necessariamente “condannare” questa emozione che fa parte di noi e che nasce per proteggerci.
E tu che ne pensi di questo argomento? Ci sono degli alimenti verso i quali provi disgusto o che non mangi volentieri? Raccontacelo nei commenti!
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