Giornale del cibo

Ruggiero su Agromafia: “Educare al cibo partendo dalle scuole”

La mafia è liquida, ha le mani in pasta, si nutre di agroalimentare perché gioca in un terreno morbido. E va oltre, ben oltre i numeri, quelli che Peppe Ruggiero conosce a fondo. Ma quei 16 miliardi di fatturato annuo dell’azienda Agromafia denunciati da Coldiretti ed Eurispes nel rapporto appena uscito non bastano da soli a spiegare come e quanto la criminalità organizzata attinge dalle filiere agroalimentari. Né bastano forse, ma sono un buon punto di partenza, i 3 miliardi di euro dei sequestri citati dal rapporto Ecomafia di Legambiente, di cui Ruggiero dal ’97 è uno dei curatori.

Peppe Ruggiero, 48 anni, giornalista, ha cominciato a occuparsi di queste tematiche mentre il riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata muoveva i primi passi. Nel suo libro “L’ultima cena”, pubblicato nel 2010 (non l’unico suo dossier sull’argomento e in generale sulle mafie), ha spiegato come i clan permeano il comparto, ci siedono accanto a tavola, entrano in tutti gli step della filiera agroalimentare.

Peppe Ruggiero

 

Nel 2010 il quadro descritto nell’Ultima cena era devastante. Dalle mozzarelle contraffatte al lavoro nero, dalle pressioni sui commercianti alle imprese messe su solo per lavare denaro sporco: i boss di oltre 30 clan che entrano direttamente nelle nostre case, accomodandosi a tavola accanto a noi. Cosa è cambiato da allora?

P.R. L’interesse della criminalità organizzata sul cibo o meglio sulla intera filiera alimentare è aumentato, si è diversificato, si è esteso. Se il racconto dell’Ultima cena veniva localizzato alla mia regione, la Campania, dal 2010 gli affari li ritroviamo con le stesse modalità al nord Italia: in Piemonte, in Lombardia, in Veneto. Hanno un centro di potere ben localizzato nella Capitale e li ritrovi in Puglia come in Sicilia.

Possiamo dire che hanno in mano l’intero ciclo della filiera che dall’origine, dai prodotti coltivati e allevati sul suolo, spesso inquinato, passa attraverso la loro lavorazione e il trasporto, attraverso supermercati, bar, ristoranti e negozi e arriva direttamente sulle nostre tavole. Questo succede perché come ha spiegato il magistrato Gian Carlo Caselli le agromafie sono una mafia liquida, da paragonare all’acqua per la stessa capacità di penetrare, di insinuarsi ovunque, cercando di assorbire, come un gorgo, le attività oneste, rendendole meno competitive. Sulle mafie che hanno le mani in pasta non ci sono zone franche.

 

Il rapporto appena uscito quantifica in 16 miliardi il fatturato dell’azienda agromafia. Sembrano persino pochi se si pensa che il valore dei beni dell’agroalimentare sequestrati nel 2014 (secondo il rapporto Ecomafia) sfiora i 4 miliardi. Di sicuro, sono numeri da colosso della finanza.

P.R. Non amo parlare di numeri, ma gli ultimi dati sono terribili. Del resto dove ci sono soldi, le mafie hanno le mani in pasta. E al di là dei numeri, il susseguirsi di inchieste e di sequestri sul cibo mafioso dimostrano che le organizzazioni criminali sono tornate forti e sono tornate alla terra. E con una certezza: i prodotti dell’agromafia ci presentano il conto. In termini di salute perché prodotti poco curati e controllati, fatti al risparmio per lucrare il massimo profitto con il minimo della spesa.  

E ci presentano il conto anche in termini di soldi, perché i loro prodotti costano caro. Sono in tanti a doverci guadagnare. Ed ecco che nel prezzo finale del prodotto si accumula il costo della corruzione, del pizzo, del favore. È una logica assurda dal punto di vista commerciale, non è così che funzionano le cose nel mercato, ma questo non è libero mercato, questo che raccontiamo è il monopolio protetto della criminalità organizzata.

 


Già nel suo libro parlava di buone pratiche. L’impegno di Libera non è mai venuto meno.

P.R. Oggi il cittadino, il consumatore è disposto a risparmiare su tutto ma non sull’intelligenza. Ha voglia e bisogno di conoscenza e di trasparenza. La conoscenza è il primo strumento necessario per sostenere qualsiasi protesta. È importante sapere, per denunciare. Per scuotere le coscienze di quella imprenditoria sana che è la maggioranza del nostro Paese. Ecco che raccontare l’esperienza di Libera Terra, dei prodotti coltivati sui terreni confiscati ai grandi boss diventa importante per riappropriarci dell’etica e della bellezza del cibo.

E soprattutto per riassaporare il profumo della legalità. Un profumo che ha il gusto di prodotti ispirati a logiche completamente diverse: non gli appetiti insaziabili delle mafie, ma la fame di giustizia, la sete di verità. Un profumo che si coltiva sulle terre un tempo di proprietà dei boss. Dobbiamo richiamare la responsabilità della politica, sollecitare meccanismi di controllo più efficaci sulla qualità di ciò che mangiamo, certificazioni che restituiscano trasparenza a tutto il processo produttivo.

 

Il riutilizzo dei beni confiscati alla mafia è ormai una realtà, e un gran numero di iniziative nate grazie a questa legge ne è testimone. Oggi sono 17.577 i beni sequestrati alla criminalità organizzata, ma 26mila i terreni e le attività in mano a condannati. E viene stimato in 20 miliardi lo spreco derivante dal mancato utilizzo di beni confiscati.

P.R. Quest’anno saranno vent’anni dall’approvazione della legge 109 sulla confisca e l’uso sociale dei beni delle mafie. Al di là delle difficoltà di applicazione della legge, quei beni hanno significato lavoro, crescita culturale e riscatto sociale per tante persone. Nel corso degli anni le esperienze positive si sono moltiplicate, c’è un’attenzione sempre più diffusa. Ci sono molte cose da migliorare, ma attenzione a generalizzare, a dire che tutto non funziona perché il rischio è di buttare via tutto il positivo che si è costruito e realizzato in questi venti anni, inculcando il cinismo e la rassegnazione. La repressione non basterà mai senza una presa di coscienza collettiva.

 

Italian sounding e falso made in Italy. Quanto la mafia riesce a entrare in queste tipologie di reato?

P.R. Fenomeni di collusione con la mafia sono emersi in più indagini ma nel settore della sofisticazione e contraffazioni siamo davanti ad una criminalità dei colletti bianchi altrettanto incisiva, più deleteria perché più diffusa. Assistiamo ad un salto di qualità e non sempre siamo attrezzati. Certo le leggi sono sufficientemente buone, ma devono essere rafforzate per evitare che si diffonda fra le imprese un senso di impunità e fra i consumatori la sensazione di una giustizia negata.  

Concordo con le proposte di persone più competenti di me come i magistrati Caselli e Guariniello che chiedono una struttura nazionale di coordinamento delle indagini sui reati agroalimentari. Ci sono molte realtà territoriali dove, mancando magistrati specializzati, i reati agroalimentari vengono scarsamente perseguiti. Per questo serve una struttura di coordinamento nazionale. Ma anche in questo caso la repressione da sola non basta.

Oggi il quadro è radicalmente cambiato: l’agroalimentare è un settore che riscuote attenzione vera. È uno dei pilastri della ricostruzione del Paese: da solo vale il 17% del Pil. Bisogna educare al cibo partendo dalle scuole. È inconcepibile che nei programmi scolastici non si parla di catena alimentare, di filiera alimentare. Cibo è geografia politica. Cibo è politica economica. Non capirlo significa non voler vincere la guerra.

L’impegno continua. Quello di Peppe Ruggiero, da anni al fianco di Libera, è notevole. Perché le pietanze dell’Ultima cena sono ancora in tavola, portate di un pranzo infinito cui, a differenza del finale del film “La grande abbuffata” di Marco Ferreri, non si riesce a mettere fine.

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