Perché se ne parla tanto e dappertutto?
Tutti parlano di cibo e tutti parlano dell’ossessione cibo. È generale sia l’ossessione sia la critica all’ossessione.
“Non se ne può più” dicono nei salotti buoni e nei tinelli proletari ma poi citano a menadito Master chef e magari hanno pure un blog.
Anche le interpretazioni sul perché di tanta passione si affollano, dalle più banali alle più acute. Tra queste, quella che mette in relazione la cibomania con la crisi economica. Tesi giudiziosa: con meno soldi da spendere è naturale che ci si alleni a diventare ristoratori di se stessi e mangiare come al ristorante spendendo molto, molto meno. Per imparare occorrono i maestri e meglio ancora se vengono a domicilio. Ed ecco spiegato il successo dei programmi tv, delle riviste di cucina e dei blog. Spiegazione corretta ma forse troppo frettolosa per essere assunta come definitiva. Insomma, ci deve essere dell’altro.
Guardiamo i contenuti delle trasmissioni tv e scopriremo che, inaspettatamente, la cucina dello spadellamento televisivo non è quella tradizionale. Con Fornelli d’Italia, Mengacci rimane il solo ad avere una trasmissione interamente dedicata ai piatti regionali. L’unico a brandire il mestolo di legno su un’orchestra fatta di massaie di provincia dall’italiano zoppicante e dal soffritto facile. Mature cuciniere del bel tempo che fu, portatrici sane di tante ricette della nonna e ancora felicemente inconsapevoli della scoperta dell’umami.
Il resto è innovazione. Dappertutto! I mestoli sono di silicone, si citano gli abbattitori, si caricano e scaricano sifoni, si pronuncia continuamente il verbo “impiattare” come se fosse un bel sentire.
Programmi come La Prova del Cuoco, Master Chef, Cuochi e Fiamme e via dicendo, insegnano soprattutto la cucina creativa e anche in rete la stragrande maggioranza dei blog è di cucina contemporanea.
Forse è proprio qui la chiave di una plausibile interpretazione del fenomeno della cibomania mediatica. La parola “creatività” conduce direttamente al concetto di rinascita. È come se tra tanta crisi economica vissuta, parlata, ascoltata, discussa e subita, la cucina fosse un’isola felice di speranza. Un posto dove sia ancora possibile esorcizzare i fantasmi persecutori di rovina che questa maledetta crisi diffonde e poter essere finalmente progettuali senza angoscia. Un posto, insomma, dove far pace con la parola “futuro”, dove la novità non è per forza sinonimo di nuova catastrofe, dove sia possibile riesumare una parola importante che abbiamo relegato agli incoscenti e ai delinquenti: ottimismo.
Articolo di Martino Ragusa