Olio di palma: nuovi pareri scientifici e certificazioni

Olio di Palma

Difficile mantenere uno sguardo d’insieme quando parliamo di olio di palma.
Il Giornale del Cibo torna ad occuparsene alla luce delle recenti novità che riguardano sia la salute, con il nuovo report Efsa,  sia la questione ambientale e le nuove certificazioni.
Luca Mercalli, nella sua trasmissione in onda su Rai3, lo ha recentemente definito “un prodotto aggressivo”, e la sua é soltanto una delle tante voci, più o meno autorevoli, a scagliarsi contro questo prodotto dell’industria alimentare e cosmetica. La disputa sull’olio di palma è attuale e anima le forze in campo. Eppure, al netto di detrattori e sostenitori, sempre più spesso si parla di olio di palma sostenibile.

Da un lato la salute

Il parere dell’Efsa

L’anno scorso avevamo intervistato in merito il Prof. Lucio Lucchin che ci aveva insegnato il principio del “poco, ma buono”.
Oggi lo scenario è cambiato: il report pubblicato dall’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa)  il 3 maggio, sembra porre finalmente fine al dibattito. In questo studio decennale viene infatti dichiarato che l’olio di palma contiene sostanze tossiche di cui una, la 3-MCPD, è considerata cancerogena, e per questo se ne sconsiglia il consumo, soprattutto da parte di bambini e adolescenti.
Un risultato clamoroso e una vittoria per la petizione lanciata 18 mesi fa su Change.org da Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade contro l’invasione dell’olio di palma, sostenuta da 176 mila firme.

Reazione delle aziende e principio di precauzione

Carrello supermercato

L’attenzione all’olio di palma sostenibile e al consumo viene portata avanti in tutto il mondo da molte ONG e associazioni ambientaliste che denunciano l’impatto ambientale e sociale dovuti alla massiccia produzione di olio di palma. In Italia sono numerose le aziende anche importanti, come Alce Nero e Gentilini, che hanno scelto di rinunciare totalmente all’utilizzo di questo grasso nei loro prodotti, come specificato in etichetta con la dicitura palm oil free.
Vi avevamo già parlato anche del caso di Plasmon che ha eliminato l’olio di palma da alcuni prodotti per neonati.
Qualche giorno fa anche il colosso Coop ha annunciato con un comunicato che applicherà il principio di precauzione, scegliendo di ritirare 120 prodotti a proprio marchio contenenti il discusso olio tropicale.
La stessa Aidepi – Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane – che aveva investito grandi fondi in comunicazione e pubblicità per rassicurare sul consumo di olio di palma, pochi giorni fa ha annunciato di voler fare nel più breve tempo possibile tutte le scelte necessarie per la massima tutela del consumatore.

La questione ambientale

Tuttavia, se le critiche all’olio di palma per i suoi effetti dannosi sulla salute possono essere accomunate con similari prudenze consigliate anche per il consumo degli altri grassi saturi e dei prodotti che li contengono, parlare di olio di palma sostenibile e della sua produzione non è banale: la questione ambientale è diventata talmente urgente da richiedere interventi forti per regolamentare la filiera.

Vantaggi di resa: oli vegetali a confronto

L’oro rosso – per il suo colore originario dovuto alla presenza di carotenoidi – è l’olio vegetale più utilizzato al mondo e rappresenta il 35% della produzione mondiale. Si tratta di un grasso vegetale largamente usato nell’industria alimentare perché:

  • economico
  • abbondante
  • ottimale in termini di friabilità e conservazione del prodotto.

È facile capire, quindi, i vantaggi della sua versatilità: aspetti che abbiamo preso in considerazione nella recente intervista a Lorenzo Barbanti dell’Università di Bologna, in cui abbiamo messo a confronto resa e sostenibilità di olio di palma, colza e girasole.

Un business fuori controllo

Semi palma

Si sa che la produzione dell’olio di palma, concentrata in Malesia e Indonesia, è responsabile di deforestazione selvaggia e incendi atti a creare nuovi spazi di coltivazione, con conseguente perdita della biodiversità, a scapito delle popolazioni dei villaggi, della flora e della fauna locali. Non solo, tra il 2000 e il 2013 l’Indonesia ha triplicato le proprie piantagioni e sono sempre più numerosi i villaggi messi in ginocchio a causa delle multinazionali che si appropriano di nuovi terreni senza che la popolazione locale possa rivendicare alcun diritto su di essi.
Nel 2014 c’è stato un accordo di sostenibilità tra i grandi produttori, ma il governo indonesiano si è opposto poiché il 40% della produzione è in mano a piccoli coltivatori che non hanno le stesse possibilità di adattarsi a standard elevati e, di fatto, sarebbero tagliati fuori dal mercato con gravi ripercussioni economiche per la loro sussistenza.

Si può parlare di olio di palma sostenibile?

La produzione di olio di palma ha ricadute positive sui paesi di produzione perché crea occupazione e aumenta il PIL. E’ ugualmente vero che gli incendi in Indonesia e il fenomeno del land grabbing sono una vera piaga e stanno creando danni all’ecosistema e alle popolazioni, difficilmente riparabili.

Basta pensare che i dati sull’annuale report di Global Forest Watch dicono che nel 2014 si sono persi a livello globale 18 milioni di ettari. L’80% di questa deforestazione è da attribuire alle piantagioni di olio di palma, caucciù e soia.

Come spesso accade il problema non è il prodotto in sé, ma le distorsioni del mercato, la mancanza di regole e controlli, le condizioni del lavoro e i metodi produttivi. Tutti temi dei quali si fa carico, o così dovrebbe essere, RSPO, la tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile di cui vi abbiamo già parlato in passato. Nato del 2004 questo organismo raggruppa tutti gli attori della filiera per certificarne la sostenibilità in termini di ambiente, diritti e criteri etici.

Olio di palma sostenibile: certificazione e principi

Oggi gli standard della RSPO sono considerati non sufficienti e in grandissima parte non rispettati, soprattutto per quanto riguarda il divieto a utilizzare pesticidi pericolosi o a trasformare terreni torbosi in piantagioni.
Per questo motivo nel novembre 2013 è nato il Palm Oil Innovation Group (POIG), promosso da Greenpeace e WWF insieme ad altre ONG e produttori rispettosi delle foreste.
Si tratta di un vero e proprio organismo di certificazione, più rigoroso rispetto al RSPO in quanto si basa sul principio della “deforestazione zero” e molte sono le grandi multinazionali che vi hanno già aderito, tra le quali l’italiana Ferrero.
Spostando il focus dal prodotto al metodo di produzione e regole sostenibili, il POIG offre uno scenario di speranza per il futuro. E sembra funzionare. A fine 2015, infatti, sono state rilasciate le prime tre attestazioni.

Il processo di certificazione si basa su tre principi fondamentali e non negoziabili:

  • responsabilità ambientale
  • partnership con le comunità locali
  • integrità aziendale e del prodotto.

Una questione di metodo

Bambino indonesiano

Per dirla con le parole dell’attivista ambientale Vandana Shiva: “Il primo cambiamento necessario per creare delle economie vive consiste nell’attribuire valore alla ricchezza reale […] a nostra disposizione, rappresentata dal terreno, dall’acqua, dalla biodiversità, dal nostro lavoro creativo e produttivo e dai rapporti interpersonali” (Vandana Shiva, Le nuove guerre della globalizzazione, sementi, acqua e forme di vita – UTET Libreria, 2005).

In quest’ottica, attraverso regole giuste e condivise, anche la guerra dell’olio di palma potrebbe cessare, a vantaggio di un’economia sostenibile.

La sfida è aperta.

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