In fatto di cibo, i confini tra buoni e cattivi, colpevoli e innocenti, non sono sempre netti. In passato abbiamo già accennato al caso glutine, cercando di mettere ordine sulle questioni relative a questa sostanza.
A salire sul banco degli imputati, questa volta, è l’olio di palma, protagonista delle cronache alimentari degli ultimi mesi. Abbiamo provato a ricostruire una vicenda fatta di accuse, smentite e confuse opinioni. Anche questa volta, metteremo le carte in tavola offrendovi tutti gli elementi di cui disponiamo, e cercheremo di rispondere con voi a questi dilemmi:
Perché ce l’hanno tutti con l’olio di palma? Fa davvero male? Dove e perché se ne fa uso?
Ma è proprio vero che fa male?
Entriamo subito nel vivo della questione. Il panorama è affollato e confuso, giacché in ambito scientifico i pareri sono discordanti. La prima accusa di cui deve rispondere il nostro imputato è l’alto contenuto di acidi grassi saturi a suo carico, causa di malattie cardiovascolari. Ed è proprio a questo proposito che gli esperti si azzuffano.
Citiamo le vicende susseguitesi su Il Fatto Alimentare perché è questa la testata che, da giugno ad oggi, ha affrontato la questione passando al setaccio ogni angolo. Le pagine dell’e-magazine, circa un mese fa hanno ospitato un’interessantissima disputa tra Elena Fattore dell’Istituto Mario Negri, (che sull’argomento ha condotto uno studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition nel 2014), e Anna Villarini, biologa nutrizionista presso l’Istituto Nazionale di Tumori di Milano.
La disputa
La prima ci tiene a sottolineare che i risultati dello studio indicano che quando l’olio di palma viene sostituito agli altri principali grassi o oli presenti nella dieta non vi sono delle evidenze scientifiche solide di un suo ruolo negativo per quanto riguarda il rischio di malattie cardiovascolari.
Anna Villarini ribatte che per quanto riguarda il rischio di malattie cardiovascolari, non possiamo escludere, visti anche gli altri studi citati (ma se ne possono citare anche altri), che un aumento di rischio ci sia, riferibile principalmente all’acido grasso palmitico. Per il principio di precauzione se ne dovrebbe vietare l’uso alimentare almeno fino a quando non ci saranno evidenze solide che non danneggi in alcun modo la salute e questo male si sposa con risultati di studi di breve durata.
Tutta colpa della nuova etichetta
Ma facciamo un passo indietro: quando e come è stato smascherato l’olio di palma?
Tutto cominciò con la storia della nuova etichetta prevista dalla nuova normativa europea (in vigore dal 13 dicembre), che prevede l’obbligo di riportare il tipo di materie grasse impiegate nei prodotti. Fu così che decine e decine di merendine vennero allo scoperto: la generica dicitura oli vegetali lasciò il posto a olio di palma.
A parlarne, è subito Il Fatto Alimentare in un articolo pubblicato lo scorso giugno: da quel momento, l’olio di palma non avrà tregua.
I complici dell’olio di palma
Fare una stima precisa dei prodotti che contengono l’olio di palma, chiaramente, è impossibile: sappiamo che sono centinaia. I consumatori consapevoli del nostro Paese sono tuttavia attrezzati, e hanno risposto bene all’invito che il Fatto Alimentare ha rivolto loro: stilare un elenco dei prodotti che non lo contengono.
Tra le ragioni per cui le aziende alimentari preferiscono l’olio di palma ad altre sostanze grasse c’è chiaramente quello dei costi, notevolmente inferiori rispetto (ad esempio) a quelli del burro.
In questo clima di accuse e diffidenza, chiaramente, qualcuno ha sentito la necessità di giustificarsi: lo ha fatto Barilla, che in un comunicato stampa ha fatto presente i motivi della preferenza accordata alla sostanza. Tra questi, la possibilità di sostituire con esso i grassi idrogenati, anch’essi assidui frequentatori del banco degli imputati, nonché, di tante etichette (per intenderci, la margarina fa parte di questi).
Apriamo a riguardo una sintetica partentesi: il grasso idrogenato è un olio vegetale che ha subito un processo di idrogenazione, che trasforma le caratteristiche del grasso in questione aumentando il livello di lipoproteine LDL, il cosiddetto colesterolo cattivo.
Barilla, insomma, sostiene di aver scelto il male minore…
E il pianeta cosa ne pensa?
Il pianeta non lo vede di buon occhio, anche perché per colpa sua rischia di rimetterci uno dei suoi polmoni verdi. Il 90% di tutto l’olio di palma usato nel mondo viene infatti prodotto in Indonesia e Malesia, dove a beneficio delle palme sono stati distrutti interi ambienti di foresta tropicale. Questo, ovviamente, con ricadute sensibili sulla fauna locale: la scomparsa delle ultime foreste dell’isola di Sumatra (imputabile in buona parte ai consumi mondiali di olio di palma) ha privato del loro habitat oranghi, tigri ed elefanti e rinoceronti, il cui numero diminuisce decennio dopo decennio.
La petizione
Per tutti i motivi elencati, l’amico grasso delle merendine è stato trascinato dal banco degli imputati alla petizione, portata avanti da Il Fatto Alimentare e Great Italian Food su Change.org, e tradotta poi in risoluzione parlamentare.
Ferventi per le sorti dell’olio di palma (e delle nostre merendine), non possiamo fare a meno di osservare: quanto è forte il potere dell’etichetta!