Giornale del cibo

L’insostenibile spaccio del nuovo

Ogni tanto mi capita di leggere di start-up che propongono innovazioni dal sapore antico, insomma, delle novità vecchie. Una di queste realtà, assistita da ricerche di grosse università americane, ha scoperto che esiste la commensability, ovvero che condividere insieme ai colleghi sul posto di lavoro la pausa pranzo è un piacere, che mangiare insieme è più bello che mangiare da soli perché il cibo è un collante sociale, che mangiare in compagnia contribuisce alla felicità dei dipendenti e quindi che – udite amministratori delegati –  aumenta la produttività dell’azienda.

La start-up propone servizi che facilitano il mangiare in azienda, che non sarebbe una cattiva idea se fosse presentata con un poco più di onestà intellettuale. Il fenomeno è in crescita, ci informano. Da quando? A me risulta lo sia da 200 anni. E naturalmente l’uso smodato dell’inglese, invece di dirlo in italiano, aiuta a lanciare una start-up innovativa e le sue novità vecchie: ecco allora che mangiare insieme in una mensa aziendale sarebbe smart, faciliterebbe il team building e donerebbe alla affamata forza lavoro un innovativo (!) benefit aziendale.

Novità vecchie: mangiare insieme è più bello

social eating

Un paio di mesi fa la rivista “Senzafiltro” mi ha chiesto un articolo sulle mense aziendali. In quell’occasione scrissi che la prima mensa risaliva al castello medioevale e al monastero: luoghi frequentati da migliaia di persone dove venivano allestite grandi cucine, in genere circondate da campi dove si coltivava il cibo che sarebbe stato cucinato e consumato (chilometro zero, distanze quantistiche!).

In un passato più recente, ovvero nella seconda metà del settecento, comparvero, invece, le mense nelle fabbriche. Prima all’interno di una serie di azioni di “welfare completo”, dall’abitazione all’istruzione, passando per il cibo, messe in atto dagli industriali, poi come risultato dei conflitti tra la classe operaia e i “padroni”.
In particolare, pare che la prima mensa di questo tipo fu introdotta a New Lanark, un villaggio operaio inglese fondato nel 1780, nella convinzione che un’alimentazione equilibrata migliorasse la salute. Erano presenti, inoltre, un grande magazzino, una cucina per cibo di alta qualità con tre camini e sei cuochi, la sala da ballo e corsi di cucina.

Un paradiso. Ricordate questo punto, ci sarà utile più avanti: la sala mensa serviva anche per corsi di cucina, incontri culturali e serate di musica e ballo.

Spacciare il vecchio per nuovo non funziona

Trovo insopportabile lo spaccio del vecchio per il nuovo. E temo che questi tentativi si areneranno sulla spiaggia del ridicolo, soprattutto se si chiamerà, per esempio, social eating aziendale una, più o meno tradizionale, mensa aziendale. Continuano le start-up: “oltre al cibo si potranno ordinare e organizzare corsi di cucina e altri momenti di condivisione, tutto per rendere più felici le persone. Una persona felice lavora più volentieri!”

Leggo su Pagina99 che David Chon, direttore dell’incubatore d’imprese di Alpha Group, “ha suonato le trombe dell’apocalisse”: infatti, potrebbe non essere lontano lo scoppio di una bolla per molte start-up i cui conti non reggono. Sostenuta quasi esclusivamente da fondi alla ricerca disperata di investimenti, molta di questa economia sarebbe vicino a un redde rationem. Sto pensando di lanciare una start-up caritatevole per ospitare in mensa fondatori, ideatori, soci e amministratori delegati spacciatori di novità vecchie e di futuro antico che sono rimasti senza lavoro. O c’è già qualcosa di simile?

 

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