Immagini, rumori, odori: entrare in un supermercato, o in un qualunque altro negozio, è un’esperienza ricca di stimoli che spesso, più che sul piano razionale, vengono registrati a livello inconscio. La nostra mente, già impegnata in attività come ricordare la lista della spesa e trovare i prodotti che ci occorrono (per dirne solo alcune), non sempre è attenta anche agli input visivi, sonori e olfattivi a cui siamo esposti. Eppure, proprio questi contribuiscono a condizionare le nostre scelte d’acquisto, anche se noi non ce ne rendiamo conto. Il neuromarketing e le scienze cognitive hanno lo scopo di individuare i processi cerebrali che entrano in gioco di fronte a sollecitazioni di diversa natura, per poterli decifrare e catalogare in comportamenti più o meno standard. Ma a cosa serve tutto questo? Oltre che per avere una conoscenza più approfondita del nostro sistema intellettuale in generale, alcuni risultati possono (e vengono già) utilizzati per prevedere e influenzare le scelte d’acquisto all’interno dei punti vendita.
Per quanto si tratti ancora di materie in fase di studio ed esplorazione, sapere che esistono e conoscere alcuni dei principi su cui si basano ci può aiutare a capire meglio i condizionamenti, anche “positivi”, che possono influenzare il nostro modo di fare la spesa. Probabilmente non sapremo difenderci, ammesso che ci sia qualcosa da cui farlo, ma almeno potremo consolarci dopo aver ceduto, per l’ennesima volta, all’acquisto di un inutilissimo-ma-buonissimo-non-so-che.
[elementor-template id='142071']Neuromarketing: cos’è e quali strumenti utilizza
Il neuromarketing è una disciplina nata nel 2002 dagli studi del Professor Ale Smidts, esperto di Marketing Research della School of Management di Rotterdam e in Italia si è concretizzata con la fondazione nel 2016 dell’Ainem, Associazione Italiana di Neuromarketing. La principale area di applicazione del neuromarketing è, come suggerito dalla parola stessa, il marketing, ovvero il complesso di attività promozionali con finalità commerciali come la pubblicità, il packaging, il product placement (l’inserimento di uno o più prodotti all’interno di trasmissioni televisive di vario tipo). I suoi strumenti consistono invece in una serie di rilevazioni biofisiologiche a cui si aggiungono, in particolare, tre tecnologie:
- la risonanza magnetica funzionale (fMRI), ovvero la mappatura delle aree del cervello che si attivano in corrispondenza di una determinata stimolazione;
- l’elettroencefalogramma (eeg) che, rilevando il potenziale elettrico del cervello, riesce a misurare il grado di interesse provato per qualcosa;
- l’eye-tracking, indicatore comportamentale che traccia lo spostamento degli occhi su una superficie.
Se, per certi versi, questi studi aprono a nuove e più profonde conoscenze del sistema neuronale e percettivo degli utenti, è anche vero che ben prima della loro affermazione il marketing si era già avvalso di analisi sul comportamento del cervello del consumatore, derivate ad esempio dalla psicologia e dalla neuroeconomia (basti pensare al volume uscito nel 1957, “Persuasori occulti” del giornalista Vance Packard). E aveva messo in pratica tecniche di persuasione e strategia di vendita tuttora efficaci. Quello che però il neuromarketing aggiunge oggi è una migliore comprensione di una componente fondamentale del processo di acquisto di ciascuno di noi: l’emozione.
Le emozioni sono il primo motore d’acquisto
A dispetto di quanto molti di noi sarebbero pronti a scommettere, tra il 75 e il 90% delle decisioni prese da ogni individuo sono basate su una scelta di tipo irrazionale. Diversi sono gli scienziati che hanno confermato la teoria secondo cui la nostra mente opera su due livelli paralleli: uno più razionale, logico e lento e uno più inconscio, veloce e istintivo, responsabile della maggior parte delle nostre valutazioni, anche in virtù della sua rapidità. Il neuromarketing serve a indagare proprio l’area emozionale che guida così tanta parte dei nostri giudizi.
Tra gli esperimenti più interessanti che hanno dimostrato l’importanza di questa componente va citato quello del maggio 2018 condotto dal professore di marketing Raj Raghunathan e dal dottorando Szu-Chi Huang dell’Università di McCombs, in Texas. Servendosi di due immagini di galline, una in carne e “naturale” e una deperita e “geneticamente modificata”, hanno diviso il campione di studenti coinvolti in due gruppi a cui hanno chiesto di scegliere quale delle due galline preferissero. Per decidere, sono state fornite loro alcune informazioni aggiuntive: al primo gruppo è stato comunicato che la gallina in forma era più sana ma meno saporita di quella emaciata, mentre al secondo gruppo è stato detto l’esatto contrario. Entrambi i gruppi hanno preferito la gallina più sana, ma per ragioni completamente opposte che valorizzavano nel primo caso la salute più del sapore, e nel secondo il sapore più della salute. In sintesi, il condizionamento visivo – ed emotivo – suscitato dalla gallina “brutta” è risultato molto più potente di quello razionale che, invece, è entrato in gioco solo in un secondo momento per giustificare la scelta fatta. Un fenomeno che è stato infatti definito del “post-hoc” e che ribadisce quanto le impressioni contino e hanno effetto soprattutto, afferma Raghunathan, proprio sulle persone che pensano di esserne immuni.
Ma cosa si intende esattamente per emozioni? Secondo il neuroscienziato António Damásio, le emozioni (da non confondere con i sentimenti) “riguardano delle attività che avvengono all’interno del corpo, nei muscoli, nel cuore, nei polmoni, nelle reazioni endocrine” e sono, come abbiamo visto, il motore di numerose azioni che compiamo quotidianamente. Il marketing emozionale fa leva proprio sulle sensazioni basilari comuni ai più, come ad esempio la paura, spesso sfruttata nelle offerte last minute, che lavorano proprio sul timore di non riuscire a ottenere ciò che si vuole in tempo. I sensi sono ciò che stimola le emozioni e dunque sono il veicolo attraverso cui anche il marketing deve muoversi per orientare il consumatore. È questa la teoria di Martin Lindstrom, autore danese tra i principali esperti di neuromarketing, che afferma come la semplice visione di un prodotto non sia sufficiente a garantire l’attenzione dell’utente, ma che solo lo sviluppo di una proposta multisensoriale, che coinvolge ad esempio anche olfatto e udito, è in grado di farlo. Sembra fantascienza (o fantamarketing), almeno finché non ci si sofferma su alcuni dettagli ricorrenti delle nostre esperienze di acquisto, come la presenza di jingle natalizi nei negozi prima delle feste o la disposizione degli scaffali nei supermercati.
Neuromarketing e scelte d’acquisto: cosa influenza il modo in cui facciamo la spesa?
Sono circa 300 le marche diverse che il nostro occhio percepisce mentre facciamo la spesa, ma non tutte e 300 finiscono nel nostro carrello. Come mai? Escludendo le ovvie ragioni economiche e di necessità, bisogna considerare la componente emotiva che sottostà alle nostre azioni. La stessa che punti vendita più o meno grandi hanno imparato a prevedere e sfruttare a loro vantaggio distribuendo in modo per nulla casuale reparti e prodotti nel tentativo, spesso riuscito, di guidare il visitatore al loro interno secondo un preciso schema di (aumento dell’) acquisto. Per farlo è necessario sfruttare il fattore tempo in due sensi: la velocità del processo decisionale e la durata della visita. Una permanenza più lunga all’interno dello store si tradurrà, con ogni probabilità, in un carrello più pieno; meno tentennamenti si dimostreranno davanti a uno scaffale e più numerosi saranno gli acquisti “di pancia” o, meglio ancora, d’impulso.
Ma veniamo al supermercato. Prima di tutto, l’ingresso: quest’area è comunemente nota come la zona di decompressione, utile al consumatore per orientarsi e prendere confidenza con l’ambiente circostante. Di conseguenza questo spazio è più spesso adibito ad area promozionale o di benvenuto, una tecnica utile a stabilire, tramite cartellonistica o addirittura personale dedicato, un clima di reciproca fiducia, cercando contemporaneamente di prevenire i furti al supermercato (secondo il principio che si è meno propensi a rubare a persone o entità gentili). In secondo luogo, il percorso. A farci caso, si noterà che gran parte dei punti vendita sono organizzati per una navigazione in senso antiorario, il che favorisce la fruizione dei prodotti, oltre che del negozio, da destra verso sinistra. Considerando che la maggior parte della popolazione è destrimane e che il senso diffuso di lettura è destrorso (parte da sinistra ma termina destra) questo direzionamento inconsapevole catturerà l’attenzione – e l’azione – del consumatore con più facilità.
Se è vero che la prima impressione conta, anche la prima merce esposta fa altrettanto: verdure apparentemente “fresche” o prodotti da forno profumati sono spesso posti all’inizio del tragitto, i primi per lasciare una sensazione di genuinità, i secondi perché non c’è niente di più potente dell’olfatto per stimolare un’emozione. Anche il gusto vuole la sua parte, e allora ecco che nei banchi gastronomici non mancano quasi mai gli assaggini gratuiti, complici di un processo di “ricatto implicito” che invoglia l’utente all’acquisto in virtù di una mutualità coatta che suona tanto simile al do ut des dei latini. Dicevamo poi dell’udito: un esperimento condotto dall’Università di Leicester ha dimostrato come la musica possa condizionare attivamente la scelta di acquisto. In particolare, il test ha riguardato la sezione dei vini di un supermercato in cui, a giorni alterni, sono state diffuse una melodia francese e una tedesca, con il risultato che il 77% dei consumatori ha finito per comprare un vino di marca francese o tedesca a seconda della melodia che aveva inconsapevolmente udito. Ascrivibile al tatto è infine la percezione del pavimento del supermercato: secondo alcuni, infatti, lo scorrere delle fughe sotto alle ruote del carrello dà la sensazione di muoversi di fretta, portando così le persone a rallentare mentre si muovono tra gli scaffali.
Proprio gli scaffali sono quelli che, più di tutto il resto, portano i clienti a fermarsi più a lungo in cerca di ciò che gli occorre. Non è una semplice casualità se il banco di latticini e prodotti caseari, notoriamente i più acquistati, è posto sempre in fondo al locale: questo costringe gli avventori a passare davanti ad altre corsie e quindi ad altri articoli. Se poi la disposizione interna viene modificata periodicamente, questa operazione sarà forzatamente ripetuta anche per chi sa già perfettamente dove vuole arrivare. L’altezza occhi è quella prediletta per i prodotti più costosi e varia a seconda di chi è il target: se si tratta di cereali per bambini, ad esempio, questi saranno collocati più in basso, così come, sempre negli scaffali inferiori, trovano posto farina, sale e i loro simili a poco prezzo. Il “trucco” del costo ridotto e sotto il segno del 9 è poi abbastanza famoso: secondo la cosiddetta teoria dell’effetto di ancoraggio, stabilire un prezzo di partenza alto farà sì che lo sconto applicato venga sentito come più vantaggioso. Mentre le cifre che terminano in “9” (€ 9.99, € 19.99, etc) sfruttano la rapidità di elaborazione del cervello che, quando sottoposto a numerosi stimoli come nel caso del supermercato, riduce al minimo i tempi di razionalizzazione registrando così quelle tonde come più costose delle cifre decimali.
Casi di neuromarketing: il packaging
Dal supermercato al singolo prodotto, il neuromarketing e i suoi parenti sono sempre più spesso gli ingredienti a cui ricorrono le aziende per assicurarsi la selezione e la fedeltà dei consumatori. Così anche il packaging, indispensabile per il confezionamento, diventa terreno fertile per la conquista all’attenzione del cliente finale: in fondo, se l’involucro non ci attrae non saremo certo propensi ad acquistarlo. Ecco allora che ricercatori e businessmen si sono interrogati sull’effetto e sull’efficacia del packaging sugli acquirenti. Tra gli esempi di neuromarketing più famosi, vanno citati:
- Il caso Pepsi vs. Coca Cola. Leggendaria come la diatriba tra McDonald’s e Burger king, quella tra Pepsi e Coca Cola è diventata anche oggetto di un esperimento di neuromarketing, portato avanti nel 2003 dal pioniere della disciplina Read Montague. Ai soggetti venne chiesto di bere da due bicchieri anonimi due bevande non meglio specificate – una era Pepsi e l’altra Coca Cola – e di dichiarare quale fosse la loro preferenza. L’ago della bilancia premiò decisamente la Pepsi, fino a quando non venne mostrato ai volontari la confezione delle due bevande. A questo punto, il 75% di loro si schierò a favore della Coca Cola: come l’fMRI rilevò, un’altra area del cervello si era attivata alla vista del packaging, quella deputata al discernimento razionale. Evidentemente, i valori espressi dal brand tramite la confezione (e le altre attività di marketing) avevano convinto i partecipanti che – a dispetto di quanto da loro stessi percepito con il semplice senso del gusto – la cola rossa fosse migliore.
- La zuppa Campbell. A seguito del coinvolgimento di 40 consumatori in un doppio esperimento di neuromarketing, nel 2008 l’etichetta bianca e rossa della nota zuppa venne modificata con un nuovo font e l’aggiunta del fumo nell’immagine di prodotto per dare al barattolo un tocco più moderno e stimolare l’appetito di chi la vede. Un intervento che, a dire il vero, non ha portato agli incrementi di vendita sperati.
Il neuromarketing “positivo”
Viste con gli occhi del consumatore senza difese, le applicazioni del neuromarketing e delle altre scienze cognitive rischiano di sembrare solo l’ennesimo strumento a vantaggio del consumismo. Ma come alcune ricerche dimostrano, oltre ai condizionamenti più subdoli, è possibile immaginare anche un altro risvolto. Il professore di psicologia sociale dell’Università di Utrecht Esther Papies ha infatti rilevato che la semplice distribuzione di alcuni volantini di ricette contenenti le parole “salutare” e “a basso contenuto calorico” all’ingresso di un supermercato, ha portato le persone sovrappeso a una riduzione del 75% dei loro acquisti di snack e alimenti ipercalorici. Un aumento del 24% di frutta e verdura è stato invece il risultato del test condotto da un altro accademico, il professore Brian Wansink di Cornell, che si è limitato a dividere il carrello degli acquirenti in due, etichettandone una come espressamente destinata solo a ortaggi e frutta. L’implicazione di norme sociali sottostanti come in quest’ultimo caso, o l’induzione inconsapevole a uno stile di vita più sano e a scelte di consumo diverse, possono quindi portare ad effetti desiderabili lontani da logiche di marketing nude e crude, come appunto la diffusione di una dieta bilanciata o persino la progressiva riduzione del problema dell’obesità infantile e adulta. Probabilmente, se presentato in una modalità nuova, anche il cibo brutto potrebbe evitare di finire sprecato e portare, alla lunga, a una nuova cultura della spesa alimentare.
Senza cedere a facili paternalismi, potremmo quindi concludere dicendo con questa riflessione: più che vittime di marketing occulto e subliminale, potremmo provare a sentirci e ad agire come protagonisti di scelte che possono – a loro volta – condizionare il mercato e le sue logiche, portandolo verso meccanismi più inclusivi, sostenibili e lungimiranti, come quello della spesa a filiera corta, ad esempio. Cosa ne pensate?