C’è una specialità che è talmente radicata su entrambi i versanti del Lago di Como da esserne un tratto identitario. Stiamo parlando del missoltino (missultìn o missultìt, nel dialetto locale): nient’altro che l’agone, specie ittica che abbonda nelle acque del bacino comasco-lecchese, sottoposto poi a salatura e a essiccazione naturale. In particolare, quest’ultima, ottenuta esponendo i pesci all’azione del sole e del vento attraverso filari disposti su strutture verticali, è un aspetto caratterizzante il paesaggio. Ma c’è tutto un mondo dietro la preparazione dei missoltini: dalla pesca dell’agone, che per anni ha scandito i ritmi e le abitudini degli abitanti dei paesi rivieraschi, alle successive fasi di lavorazione, fino al prodotto finito e al suo utilizzo in cucina, tra specialità tipiche e sagre dedicate, che sintetizzano efficacemente quello che è un vero e proprio caposaldo della cultura locale.
Alla scoperta del missoltino, un prodotto capace di raccontare un territorio
L’Italia è un autentico giacimento di risorse enogastronomiche. Piatti, specialità e prodotti che in molti casi vanno ben oltre l’aspetto culinario, raccontando le tradizioni dei luoghi in cui sono nati e si sono affermati. Lo abbiamo visto con il Peperone di Senise IGP, col boreto alla graisana o, ancora, con il formaggio Graukäse, solo per fare qualche esempio. Lo stesso discorso vale per il missoltino, ovvero un pesce d’acqua dolce che è diventato elemento caratterizzante di gran parte dei paesi affacciati sulle sponde del Lago di Como.
In che modo? Scopriamolo insieme in questo articolo.
Dall’Antica Roma al presidio Slow Food: com’è nato il missoltino e come è arrivato sino a noi
C’è una storia millenaria dietro il missoltino. Già nelle Epistole di Plinio Il Giovane, vissuto a cavallo del I secolo dopo Cristo, si parla dell’essiccazione e asciugatura sotto sale di piccoli pesci di lago in uso proprio sulle rive del Lario. Una tecnica che sembra essere stata introdotta da una colonia di Greci, popolo di abili pescatori, messi a guardia dell’antica Via Regina ai tempi del dominio romano. Tecnica vitale in un’epoca di scarsità di risorse e soprattutto senza sistemi di refrigerazione per la conservazione del cibo. Motivo per cui nei secoli si è radicata in tutte le comunità di pescatori del lago, tanto sulla sponda comasca quanto su quella lecchese, coinvolgendo intere famiglie, per le quali la pesca dell’agone e la conseguente lavorazione del missoltino era l’attività nonché la fonte di sostentamento principale.
In anni più recenti la pratica è stata via via abbandonata, troppo impegnativa e soprattutto poco redditizia, soffrendo in particolare l’importazione di pesci d’acqua dolce da paesi con cui è difficile competere sul mercato. C’è però una componente identitaria che ha preservato la cultura del missoltino, impedendo di vederlo scomparire, e che ora sta permettendo di valorizzarlo. Attraverso piatti della tradizione, riscoperti e rilanciati da osterie e locali storici del Lario e protagonisti di numerose sagre a tema, come quelle di Mezzegra (frazione del comune di Tremezzina, provincia di Como) e Dervio (LC), dove ogni anno viene allestita anche una mostra dedicata proprio alla preparazione e conservazione dell’agone chiamata “Dall’agone al Misultìn”. Ma anche attraverso l’istituzione di un Presidio Slow Food, che vuole rimarcare l’importanza di un prodotto che, oltre a contribuire alla ricchezza del patrimonio enogastronomico italiano, ha saputo diventare espressione autentica di un popolo e di un territorio.
Dall’agone al missoltino: la tecnica delle “tre S”
La base di partenza del missoltino è l’agone, pesce d’acqua dolce di piccola taglia – in media tra i 15-30 centimetri di lunghezza, nonostante qualche esemplare può arrivare fino a 60 centimetri – largamente diffuso in tutti i laghi prealpini: Maggiore, Garda, Iseo, Ceresio, Orta e, per l’appunto, Lario. Si trova soprattutto lontano dalle rive, dove le acque sono più profonde, eccezion fatta per la stagione riproduttiva. In quel periodo, compreso in genere tra la fine di maggio e i primi di luglio, gli agoni si avvicinano ai tratti di riva a fondo ghiaioso per deporre le uova. E lo fanno soprattutto di notte. La pesca si pratica quindi attraverso l’uso di reti volanti, che non toccano cioè il fondale, calate nel tardo pomeriggio e ritirate il mattino seguente, coi pesci di passaggio che vi rimangono intrappolati.
Dopo la pesca, si passa alla fase di trasformazione, ben sintetizzata come “tecnica delle tre S”: Sale, Sole, Sasso. La prima S si riferisce alla prima salatura degli agoni, che, una volta eviscerati e accuratamente lavati, vengono salati a secco. Passati due-tre giorni, col sale ormai penetrato nelle carni, si sciacquano per lavare via le eventuali impurità residue e si passa quindi alla S di “sole”. I pesci sono infatti appesi a delle rastrelliere con ganci in acciaio inox ed esposti all’azione dell’aria e del sole. Un metodo di essiccazione naturale che ricorda da vicino la tradizione nordica legata allo stoccafisso delle isole Lofoten. In realtà questa pratica, che è tratto caratterizzante il paesaggio delle comunità lungolago, è in uso principalmente nei mesi primaverili, quando il clima è più mite. Sia durante la stagione estiva, sia nel periodo invernale, si preferisce l’asciugatura in ambienti chiusi dotati di buona areazione e umidità controllata. Durante questa fase i tessuti interni dei pesci si disidratano e si fanno più sodi e compatti, determinando un cambiamento tanto nella dimensione quanto nel colore, che tende al rossastro. Proprio questi aspetti sono decisivi nel valutare quando (in genere dopo circa dieci giorni) si può passare alla terza S, quella di “sasso”. Il riferimento qui è alla pressatura: gli agoni essiccati vengono disposti a strati intervallati da foglie di alloro all’interno di contenitori metallici detti tolle e torchiati. La torchiatura – oggi compiuta ricorrendo al torchio a leva, un tempo invece con la pietra, cosa che spiegherebbe la S di “sasso” – viene ripetuta ogni giorno per permettere la fuoriuscita del grasso in eccesso. Ne viene sempre però lasciato uno strato in superficie, a mo’ di copertura, per preservare i pesci dall’esposizione all’aria. Al posto della tolla in passato si utilizzava un recipiente in legno chiamato missolta, che spiegherebbe quindi l’origine del nome “missoltino”.
Dopo qualche settimana sono pronti al consumo, nonostante la conservazione possa protrarsi anche per qualche mese. Per quanto riguarda il “Missoltino del Lago di Como essiccato al sole” Presidio Slow Food sono previsti dei controlli di qualità per verificare il rispetto del relativo disciplinare e una tracciabilità di filiera che permette di conoscere il produttore e la data di confezionamento di ogni singolo lotto. I prodotti destinati alla vendita possono essere commercializzati a peso, prelevandoli direttamente dalle tolle, confezionati in scatole di latta oppure sgocciolati e messi sotto vuoto.
Sapido, intenso e ricco di Omega-3: le caratteristiche del missoltino
Il missoltino si presenta nella sua interezza, quindi con tanto di pelle, testa e pinna terminale. E sempre nella sua interezza può essere mangiato, eccezion fatta per la lisca centrale, che in genere viene eliminata dopo averlo inciso e aperto longitudinalmente. La sua carne si presenta compatta ma tenera, mentre il gusto è sapido e intenso. Ricorda molto quello di alcuni pesci “poveri” del mare Adriatico, come le sarde, o le aringhe, più tipiche della cultura del Nord Europa e non a caso protagoniste del mangiare a Stoccolma. Il sapore forte li rende spesso divisivi, tra chi li ama e chi invece non ne sopporta nemmeno l’odore. Ad ogni modo le sue proprietà nutrizionali li rendono interessanti: hanno un apporto calorico simile a quello del pesce azzurro e vantano una ricchezza di grassi buoni, tra cui i famosi Omega-3, che sono anche fattore chiave nel renderli adatti all’essiccazione e alla lunga conservazione.
Il missoltino in cucina: un ingrediente di personalità in ogni piatto
Per come l’abbiamo descritto, va da sé che il missoltino in cucina gioca un ruolo da protagonista in ogni ricetta nella quale lo si impieghi. In particolare, la sua sapidità e il carattere deciso lo rendono ottimale nel creare contrasti agrodolci, come nel risotto con burrata e cipolla marinata. In questo caso i missoltini, dopo essere ben puliti dal grasso di conservazione, vanno grigliati e privati di testa e lische. Queste ultime si utilizzano, insieme a carota e cipolla, per preparare il brodo in cui cuocere il riso. La polpa, invece, viene sminuzzata e unita a metà cottura, lasciando magari qualche filetto intero da aggiungere a decorazione del piatto. La dolcezza lattica e la cremosità della burrata con la caratterizzazione aromatica della cipolla marinata sono un perfetto contraltare al sapore intenso dei missoltini. Allo stesso modo, possono essere serviti su una crema calda di zucca o di legumi, che con la loro dolcezza di fondo ne stemperano l’impronta sapida, esaltandola al contempo.
Per un piatto di carattere suggeriamo invece una semplice pasta lunga, come ad esempio le linguine, con aglio, olio e peperoncino: una base di sapori già importanti completati perfettamente dalla sapidità del missoltino. Restando in tema di primi, dal 2023 la
“Sagra del Misultìn” di Dervio propone i “pizzoccheri di lago”. Nient’altro che il formato della pasta dei famosi Pizzoccheri della Valtellina IGP, in una versione più delicata, capace di sposarsi al meglio col condimento a base di olio EVO e ragù di missoltini.
Altro spunto interessante è prepararli in carpione. Dopo averli puliti, deliscati e passati qualche minuto sulla griglia, i missoltini vanno disposti, senza sovrapporli, sul fondo di una pirofila. Li si irrora quindi con un intingolo di olio, aglio e cipolla, rosolati in padella e fatti poi stufare con l’aggiunta di acqua, aceto e aromi, come salvia e timo. Passate ventiquattro ore, avranno assorbito tutti gli umori del condimento e saranno dunque pronti per essere degustati a temperatura ambiente.
Il matrimonio perfetto è col “Tòc”
La specialità più tipica della tradizione lariana è però costituita dal binomio missoltini-polenta. Tra tutti i tipi di polenta ce n’è una, in particolare, che sa rappresentare al meglio la cultura del territorio. Si tratta del cosiddetto “Tòc”, che prevede una lenta e lunga lavorazione della farina di mais incorporando un po’ alla volta burro e formaggi locali. Il risultato è una polenta morbida, che sprigiona l’intensità aromatica del formaggio senza tuttavia risultare unta. L’usanza prevede che ogni commensale se la serva direttamente dal paiolo, prendendone una quantità da appallottolare e mangiare con le mani. Proprio da questo deriva la definizione “Tòc”, ovvero “che si tocca”. E l’abbinamento coi missoltini è un rito nel cuore di tutti i paesi affacciati sulle sponde del lago di Como, che si accompagna volentieri con un sorso di Ragel: bevanda a base di vino rosso, speziato con cannella, noce moscata e chiodi di garofano, scaldato con scorze d’arancia e di limone, zucchero e mele a pezzetti, che ricorda molto il vin brulè.
Noi ve lo abbiamo raccontato in tutte le sue sfaccettature, ma magari a qualcuno era già noto. Chi di voi ha già avuto occasione di conoscere e di assaggiare il missoltino?
Immagine in evidenza di: Angelo Colombo