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Marco Martini: “Credo nella tradizione e nei sapori netti. Il km 0? Un’utopia”

Marco Martini ha da poco superato i 30 anni, eppure a sentirlo parlare ha già vissuto più vite professionali, fatte di fatica, esperienza, incontri, delusioni, determinazione e tanti obiettivi raggiunti. Tre stelle Michelin in tre differenti ristoranti: la prima all’”Open Colonna” (prima a Labico poi a Roma), una vera e propria scuola per lui, la seconda a “Stazione di Posta” (Roma), scommessa azzardata che ha però dato i suoi frutti, la terza in pochi mesi al “The Corner” (Roma), che presto diventerà “Marco Martini Restaurant”, la prima avventura che lo vede vestire anche i panni dell’imprenditore, per caratterizzarla con la sua cucina, rinomata per i richiami alla tradizione culinaria romana e per l’intensità dei sapori. Marco non crede in una cucina “sovrastrutturata”, è convinto che tradizione e sapori netti siano la giusta strada da seguire, senza inseguire il falso mito del km0. In questa chiacchierata emergono tanti elementi interessanti, quali ad esempio la grande difficoltà per uno chef nel perseguire la strada della massima attenzione per quel che concerne lo spreco alimentare.

Ma quando ha avuto inizio il cammino di questo ragazzo di Colleferro? Martini mi racconta d’essere entrato in cucina per necessità “perché ho un papà operaio che mi dava 5.000 lire ogni sabato. Sono un ragazzo molto ambizioso, anche troppo, ed ogni tanto mi dico che forse dovrei imparare ad accontentarmi”. Il suo inizio? Portando pizze nel suo paese, Colleferro, con uno scarabeo di colore bordeaux, togliendo subito il posto a chi lavorava nella pizzeria prima di lui. Il suo approccio grintoso nei confronti della vita è una eredità dello sport –Ho un innato agonismo, ereditato da 13 anni di rugby. Ero una frana a scuola ma mi sono diplomato in “Architettura, arredamento e restauro”, erano comprensivi e mi lasciavano dormire in aula perché sapevano quanto lavoravo, al terzo anno guadagnavo già più del professore” ha spiegato lo chef.

Marco Martini: lo chef stellato che ama le sfide lo spirito di squadra

La prima esperienza stellata

marco martini

Fonte immagine: facebook.com

Un percorso caratterizzato quindi dalla determinazione, dalla forte ambizione e dalla voglia di realizzarsi. Tanta forza aveva però bisogno di essere indirizzata nel migliore dei modi, per non sprecare energie e talento, ed arriva al momento giusto l’opportunità che gli cambia la vita: “sono andato a Labico da Antonello Colonna, sono cresciuto con lui, Alajmo, Corelli, Barbieri. Presi il mio primo stipendio, 890 euro, guadagnandoli agli Internazionali di Tennis, poi ho lavorato alla Festa del Cinema, lavorando anche il giorno del mio compleanno, dormivamo in 15 in una stanza all’ostello, ci occupavamo di tutti i pasti, ero in vista e Colonna pretendeva che la giacca fosse sempre pulita e quindi la lavavo di notte” – dichiara Marco, che aggiunge – “Alla conferenza di inaugurazione dell’Open Colonna, con 10 anni di anticipo sulle mode, preparai un buffet con “Porchetta e champagne“. Mi sono ritrovato a cucinare per 600 persone, e mi riconosco il merito di saper sempre ascoltare”.

Il periodo inglese e le “scommesse”

È chiaro però che ogni avventura ha un inizio ed una fine, perché Marco sente di aver appreso tutto ciò che era possibile da Colonna e decide quindi di guardarsi intorno, così dopo aver trascorso alcuni anni in quel ristorante, decise di andar via per una serie di motivi, ed un giorno riceve la telefonata di Heinz Beck: “parlavo al telefono con lui e tremavo per l’emozione. Esperienza importante ma con un tipo di cucina che non sentivo mia. Ho quindi inviato 3 curriculum a 3 grandi chef stranieri ed in 3 ore mi hanno contattato tutti: ho scelto di lavorare da Tom Aikens, e tra andata e ritorno, orario di apertura e chiusura, avevo a disposizione solo 3 ore per dormire; persi 12 kg in 4 mesi”, mi racconta.

La fatica ed il sacrificio sono temi ricorrenti nella sua carriera, che presto torna a mettersi in gioco nel nostro Paese.Dopo un periodo importante di apprendistato infatti, Marco ha voglia di tornare, e sapendo dell’opportunità a Stazione di Posta, decide di provare una nuova avventura. “Ho vinto il concorso “Chef Emergente” nel 2013 e conseguentemente la stella Michelin. La crisi economica della struttura e le difficoltà nello svolgere il lavoro quotidiano mi hanno fatto decidere di rischiare il tutto per tutto, anche ciò che non avevo al “The Corner“. Ho avuto una grande fortuna: tutta la brigata si è licenziata e mi ha seguito, perché lavoriamo in armonia” chiarisce lo chef.

Il valore del gioco di squadra

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La stessa armonia che diviene fondamentale perché Marco al tempo, ai momenti, preferisce le persone: il suo staff, il suo sous chef, la brigata ed i ragazzi che lo hanno seguito in questa ultima avventura: “ la cosa fondamentale per me è la serenità che ho a casa, perché sono un ragazzo emotivo e la presenza di mia moglie Paola mi permette di dare il meglio. Vincenzo Paolicelli, il mio sous chef da 10 anni, è un’altra figura basilare per la mia carriera: abbiamo condiviso tutto, gioie e dolori, gratificazioni e riconoscimenti.

Poco dopo un altro incontro decisivo, quello con Andrea (socio e responsabile di sala), che gli ha insegnato l’arte della mediazione. “Il rugby mi ha insegnato il rispetto ma non sapevo relazionarmi in alcuni casi, lui ha smussato i miei angoli”.

A questo punto Marco inizia a lasciarsi andare, non parla più solo della sua realtà e dei punti di forza del suo gruppo, ma anche di ciò che ritiene superfluo o superato “La forza è in questo gruppo: sono convinto che noi raggiungeremo tutti i traguardi possibili. Non servono più porta grissini da 1.000 euro se paghi i fornitori a 1 anno: noi siamo precisi, corretti, essenziali. Risulterò burbero ma non perdo mai di vista il rispetto, ci sono chef che camminano ad 1 metro da terra, comprano di tutto e magari non pagano i propri dipendenti”.

Marco non è molto interessato a curare le “pubbliche relazioni”, bada al sodo, a lavorare, a creare, ad ottimizzare il lavoro della cucina e della sala. È la classica persona che preferisce avere poche amicizie, che si possano contare sulle dita di una mano, ma i pochi punti di riferimento che ha sono essenziali. Tra questi Riccardo Di Giacinto, “grande chef, grazie al quale ho avuto l’opportunità di prendere in gestione questo ristorante” mi spiega lo chef, che ha voglia di parlare e raccontare il suo percorso.

Il rugby e l’importanza del rispetto

Il valore della squadra è ciò che ha ereditato dal rugby, sua scuola di vita, dove ha imparato rispetto, determinazione e sacrificio, che lo portano anche a decidere di  rischiare, perché ha sempre avuto le idee chiare come spiega: “A 22 anni ho fatto ricamare a mia madre 35 fazzoletti a mano perché sognavo d’avere un locale con 35 coperti. Poi però Antonello Colonna mi ha insegnato che per far quadrare i conti bisogna fare anche banchetti, ho capito che uno chef deve affrontare più sfide contemporaneamente. E’ stata una “scuola” che mi ha formato, sono un uomo di cucina, da presidio, e facendo forza su tutte le esperienze vissute ho deciso di provarci.

Le caratteristiche della sua cucina

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Ma come ha conseguito tanti riconoscimenti Marco Martini? Cosa distingue la sua cucina da tutte le altre? Marco anche su questo punto ha le idee chiare, poiché da sempre persegue una determinata filosofia per quel che concerne la proposta culinaria, ed è estremamente chiaro nell’illustrarmi le sue idee: è molto fiero di un grande complimento che gli è stato fatto in passato, “mi hanno detto che i miei piatti odorano di cucinato”.

Martini ama essere essenziale, gli piace chi lavora senza fronzoli, perché “ormai si fanno solo quadri, ma noi siamo operai, non dobbiamo raccontare poesie. Si deve badare al sodo, basta voli pindarici. E infatti, quando gli chiedo qual è il suo ristorante preferito rispondeIl Sanlorenzo, “perché Enrico Pierri lavora senza raccontar storie, grandi numeri ad una qualità eccelsa, questa è la strada”. Sperimentare e creare si, ma nel modo corretto, senza sovrastrutture,  perché è stanco di vedere “fermentazioni e cose di questo tipo. Torniamo alla tradizione, la gente ha voglia di mangiare, di cose essenziali, ma naturalmente presentate con la tecnica di un ristorante stellato. Il mio esempio è Crippa, una persona che, pur avendo conseguito ogni possibile riconoscimento, è rimasto un uomo di cucina”.

Uno sguardo al futuro

La chiacchierata diventa intensa, il tempo scorre, pensavo di registrare mezz’ora di conversazione ed invece mi accorgo che dovrò “sbobinare” una quantità di parole simile a quella che affrontavo ai tempi degli esami all’Università. Il discorso si sposta sul futuro, suo e del “The Corner”, che presto si chiamerà “Marco Martini Restaurant”: “Sono al centro del mondo, a pochi passi dal Colosseo, amo questo posto ma appena possibile mi piacerebbe poter apportare alcune modifiche per fare in modo che il ristorante possa essere quanto più vicino all’idea che ho nella testa: dalle sedie ai forni, dal pavimento all’impiattamento, sono tante le cose che voglio modificare”.

Lo chef mi dice anche che la maggior parte nel lavoro naturalmente consiste nell’elaborare nuovi piatti, ne cambia 40 all’anno, ed è al lavoro da maggio sul nuovo menu, ha talmente tanta adrenalina in corpo che quando torna a casa non riesce a prender sonno. “Faccio tesoro di quanto scrisse su di me Stefano Bonilli quando ero all’Open Colonna “in cucina c’è un ragazzo di 24 anni che dovrà girare il mondo non per copiare ma per capire” continua Marco.

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A questo punto diventa naturale parlare anche dell’evoluzione della sua cucina, visto che nel corso dell’intervista Marco mi racconta del nuovo menu uscito da pochi giorni: “Seguirò sempre di più la strada della tradizione e dei sapori netti, utilizzando sempre di più i fondi per concentrare il sapore in modo assoluto. Martini vuole essere nel suo piccolo un ambasciatore del gusto; non crede al km zero ma crede si possano rappresentare in altro modo i sapori del suo territorio. Afferma che serve conoscenza delle materie prime, ormai sempre più rara “una volta non ho ricevuto le faraone per un banchetto, ho preparato l’anatra cucinandola allo stesso modo ricevendo i complimenti da un rinomato critico enogastronomico che non aveva colto la differenza, inutile aggiungere altro”.

Come nasce un menu stellato

Approfitto del momento per provare finalmente a capire come si struttura un menu stellato, da cosa si parte, quali sono le linee guida: le materie prime, le cotture, le tecniche o il ricordo? Martini è chiaro anche su questo punto, infatti mi dice “Io lavoro con un anticipo di alcuni mesi, perché voglio creare piatti che sento miei al 100%. Potrei lavorarci due settimane e presentare qualche banalità tipo i ravioli di baccalà con una passatina di ceci, ma non sarei felice”. Il desiderio di Marco è vedere che la gente quando va al suo ristorante possa dimenticare quasi dove sia, e specifica nel miglior modo possibile in concetto raccontandomi un aneddoto: “Quando sono andato a cena in un grande e famoso ristorante, a fine serata non ricordavo neanche dove fosse la porta, ero sconvolto dall’esperienza”.

Il debutto del nuovo menu ha già portato alcuni interessanti riscontri – “Quando l’altra sera ho presentato per la prima volta i tonnarelli di seppia all’amatriciana i clienti erano in estasi”. Per Martini c’è sempre un filo conduttore che lega i piatti, ma il primo passo è creare piatti ed istruire la brigata in modo che il piatto possa uscire identico sia che lui sia in cucina, sia che non ci sia.

Il secondo punto naturalmente è il food cost, perché non può permettersi di perdere di vista questo parametro. “La critica enogastronomica ed i giornalisti dovrebbero parlare più spesso di questo argomento, ci sono molto ristoranti “famosi” che non pagano i dipendenti da mesi, io il 5 di ogni mese pago tutti. Ultimo, ma fondamentale punto, il gusto dei piatti. Per questo ultimo menu Marco ha scelto di creare piatti che facciano sentire il cliente in osteria, in trattoria, con sapori netti, diretti, decisi, ma preparati con tecnica e conoscenza.

Sostenibilità e km 0: le eterne utopie

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Dopo aver parlato del passato, del presente e del futuro di Marco Martini, chiedo allo chef se ha voglia di rispondere a qualche domanda relativa al mondo del food, se vuol dire la sua su alcuni temi di attualità. Si parte con un argomento sempre attuale, la sostenibilità, ed ancora una volta Marco conferma di non avere peli sulla lingua; la sua idea sulla sostenibilità è semplice e quando gli chiedo “È possibile perseguire la piena sostenibilità, la riduzione degli sprechi?” lui immediatamente mi risponde “Ti dico sinceramente che osservando la nostra giornata tipo, non è possibile gestire al 100% ogni singolo scarto in modo da ottimizzare lo spreco, servirebbe una persona dedicata solo a questo. Credo se ne parli tanto solo per comunicazione e per farsi belli. Faccio beneficenza gratis, non lo dico a nessuno, ma vedo che tanti ne parlano solo per darsi un tono”. Secondo Martini, Bottura è uno dei pochissimi che è riuscito a ideare un progetto dedicato alla sostenibilità ma ha potuto farlo perché è un grande personaggio mediatico. Lo chef si lamenta dell’inesistente supporto del comune di Roma, dall’Ama, “come possa da solo fare massima sostenibilità al centro di Roma? Servirebbe meno ipocrisia”.

Anche il famoso “km0” per Martini è una chimera, che infatti afferma “Io non credo al km 0 perché so bene qual è l’origine della provenienza di tanti ingredienti”. Lo chef si chiede come si possa affermare che possano  esistere in uno stesso territorio tutte le materie prime necessarie. Mi dice “parlano di km 0 e poi utilizzano la sakura che cresce in una serra”. Lui ha tutte le erbe al The Corner, questo è l’unico km 0 che può permettersi e nel quale crede. A lui interessa che i prodotti siano buoni, per poi valorizzarli al meglio.

E sull’evoluzione della figura dello chef, divenuto ormai anche un manager, Marco chiama nuovamente in causa gli insegnamenti di Antonello Colonna, con un aneddoto molto interessante: “Lavoravo all’Open Colonna dove facevamo 160.000 coperti all’anno: un giorno mi convocò e mi fece notare che avevamo utilizzato in un anno 40.000 uova e non ricordo quanti kg di parmigiano. Mi chiese il costo del parmigiano, risposi, e lui mi fece notare che comprandolo da un altro fornitore avremo risparmiato 80 centesimi al kg. Non mi sembrava granché, ma lo moltiplicò per il numero di kg e mi fece capire. Da quel giorno sono attento ad ogni cosa. Mi sono trovato nella mia carriera in ristoranti con difficoltà economiche e ho imparato da subito a farmi bastare ciò che avevo a disposizione, compensando ad alcune mancanze in prima persona, comprando una parannanza ai ragazzi o pagandogli da bere a fine servizio” conclude Martini.

Cucina e Sala, Sala e Cucina

Una cucina stellata va a braccetto con la Sala, e da qualche anno si sta facendo uno sforzo comune per far passare il concetto che fare il cameriere non è un ripiego; trasmissioni televisive e chef mediatici hanno convinto i giovanissimi che far lo chef sia la strada più prestigiosa in questo ambito. Martini ritiene fondamentale la figura del cameriere, ma crede poco alle associazioni che trattano questi temi, affermando che “Il cameriere è fondamentale perché se vuole trattar male un cliente o ingannare sul vino può farlo”.

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Sono fortunato perché ho un team di ragazzi di sala che lavorano in grande sintonia, e questo dipende anche dal fatto che sono sempre disponibile al dialogo, con tutti. Marco mi dice di aver sempre rispettato tutti, anche le persone peggiori, di avergli fatto servire grandi clienti, di averli coinvolti in ogni singola attività del locale, ed ora sala e cucina sono un’unica cosa. “Se devo cambiare una piastrella o rifare il menu chiedo il parere a tutti, perché Marco Martini da solo non vale nulla. Non so quanto siano utili le associazioni dedicate a questo tema, secondo me ogni singolo chef deve impegnarsi personalmente per creare sintonia con tutte le sue persone”.

La Stella Michelin: onori e oneri

Lo “stress da stella”, che sta colpendo gli chef di tutto il mondo, europa in particolare, alcuni dei quali stanno rinunciando al riconoscimento delle stelle, sembra essere una nuova epidemia. Marco lo affronta facendo richiamo ai valori in cui crede da sempre, poiché dice “Senza forza d’animo, determinazione e pazzia, possono arrivare momenti difficili, e può capitare di non sentirsi più all’altezza o di non riuscire più ad esprimere al meglio il proprio potenziale. Questi ritmi possono logorare e trovo naturale prendere una decisione di questo tipo”.

Nell’ambiente si parla spesso dei cosiddetti “vincoli” che ti vengo implicitamente imposti dai riconoscimenti delle guide, il dover adeguare la propria cucina ai canoni dei recensori, la necessità di seguire una determinata impostazione per il servizio di sala. Ed anche in questo caso Martini non ha paura di poter essere ingabbiato in determinati schemi per poter confermare i riconoscimenti ottenuti: “La guida Michelin è cambiata molto negli anni: io avevo una stella a Stazione di Posta come l’Imàgo all’Hassler, il ristorante con la miglior vista di Roma. Ho preso il riconoscimento in un ristorante con i sampietrini, e posso dirti che quindi credo nel fatto che la convinzione nei tuoi mezzi e nella tua filosofia di cucina possono consentirti di raggiungere ogni obiettivo” conclude lo chef.

Si è fatta sera, abbiamo chiacchierato per oltre 2 ore, perché quella che doveva essere una “classica” intervista è divenuta l’occasione per conoscere più a fondo un personaggio straordinario per quanto è diretto, ambizioso e lucido. Tra una domanda e l’altra ho modo di provare uno dei suoi nuovi, sorprendenti, piatti, i “Tonnarelli di Seppia all’amatriciana”, ulteriore conferma, ove ve ne fosse bisogno, del talento di Marco Martini.

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