Mangiare fuori: la carica dei ristorantini

mangiare fuori casa

Da alcuni anni il panorama dei negozi del centro della città in cui vivo non fa altro che cambiare. Chiudono vecchi esercizi, ne aprono di nuovi; molti chiudono poco dopo avere aperto e ne aprono di nuovi ancora che purtroppo somigliano tremendamente ai vecchi che avevano chiuso. E così via.

In questo tourbillon – una pena infernale che ci tocca scontare come dannati nel girone del consumismo – un punto fermo però c’è: aprono un sacco di ristorantini, bar, caffè, smart food – individuali, a catena, in franchising – e chiudono negozi di abbigliamento, di oggettistica, di antiquariato, librerie, gallerie. Le botteghe più vecchie amano andarsene esponendo in vetrina un orgoglioso cartello: fuori tutto, chiudiamo dopo settanta anni. I nuovi ristorantini sono una esplosione di fantasia e novità: nella proposta alimentare, nell’arredo, nel servizio. Un inno alla diversità, la fine della monotonia anche nel mangiare fuori casa.

Un giorno entro in una hamburgheria che ha aperto al posto di una drogheria storica, ormai esausta per le continue scomparse delle sue vecchie clienti. Hamburger, patate, birra e dolce: 20 Euro. Qualche giorno dopo vado in un vecchio e blasonato ristorante.

hamburgeria

Gnocchi (mezza porzione), arrosto di vitello, patate, dolce e un quarto di vino: 20 Euro. Su ambiente e servizio non c’è storia: vecchio ristorante batte nuova hamburgheria dieci a zero (sempre che non piacciano lo stile country pacchiano, mangiare su uno sgabello, camerieri vestiti come spaventapasseri – dimostrazione vivente della sostenibilità della proposta alimentare -, stoviglie recuperate dopo una cena greca, tovaglioli di carta ruvida).

Se la carica di questi ristorantini serve a calmierare i prezzi dei veri ristoranti sono benvenuti. Ma la domanda è: reggeranno?

Leggo su Pagina99 che siamo il paese con la maggiore offerta nel settore del mangiare fuori casa. 440 imprese ogni 100.000 abitanti, contro 239 in Francia, 198 in Germania e 181 in Gran Bretagna. È probabile che si stia creando una bolla, determinata da un eccezionale ingresso sul mercato di nuovi operatori. Ma c’è davvero una domanda di fuori casa così forte e vivace? Forse no.

I nuovi operatori sono invitati a mettersi ai fornelli in parte dal fascino che il settore ha saputo conquistarsi negli ultimi anni (i Cuochi sono i nuovi Cavalieri senza macchia e senza paura, c’è stato il traino di Expo, i nuovi stili alimentari hanno preso il posto delle vecchie ideologie quanto a costruzione del senso di identità e tutti parlano di cibo) e in parte dalle difficoltà, soprattutto per i giovani, di trovare opportunità di impiego. Tutti in cucina, allora, tutti barman, tutti chef de rang.

La bolla però può scoppiare. E allora saranno guai. Perché aprire un ristorante, anche se piccolino, costa. Gli investimenti non sono paragonabili a quelli di un negozio di scarpe. Aprire e chiudere è doloroso. Cucine, magazzini, zone di lavaggio, spogliatoi e bagni per il pubblico devono essere a norma e comportano investimenti strutturali notevoli; riciclare i mobili country se il subentrante vuole fare un sushi minimale può essere complicato.

food online

Una selezione darwiniana è attesa. Perderanno i vecchi e blasonati ristoranti o le nuove fantasiose formule? La selezione sarà tra vecchio e nuovo o tra sostanza e illusione? Tra tradizione e innovazione? O stai a vedere che l’inossidabile pizzeria si svilupperà ancora di più prendendo il posto delle novità che hanno perso nella lotta per la sopravvivenza?

A complicare le cose c’è anche il food delivery, che si sta evolvendo nell’home gourmet, il social eating e la riscoperta delle serate in casa rispetto al mangiare fuori. Ma per oggi, in quanto a mal di testa da complicazioni, può bastare così.

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