Mangiare da soli: abitudine o tabù?

mangiare da soli

 

 

Pare che Jean Baudrillard, sociologo e filosofo francese, lo odiasse; e che Andy Warhol, padre della Pop Art made in USA, ne fosse al contrario talmente galvanizzato da immaginare una catena di ristoranti con cabine per una persona, tutte rigorosamente dotate di televisione. Mangiare da soli è da sempre una pratica diffusa e controversa, soprattutto se si tratta di farlo in pubblico, al bar o al ristorante. Infatti, se da un lato sono molte le persone che non hanno problemi a consumare i pasti anche senza compagnia tra le mura domestiche, dall’altro il “tavolo per uno” è una dimensione che richiede una certa disinvoltura. O forse no?

Proviamo a tracciare i contorni – numerici e sociali – di questo fenomeno, guardando anche alle cause storiche e alle sue dibattute conseguenze per capire se si tratti di una nuova abitudine o di un sempreverde tabù.

Giovani e anziani sempre più soli a tavola

Come spesso succede, numeri e tendenze provengono da oltreoceano: il rapporto sulle occasioni di consumo statunitensi condotto dall’Hartman Group nel 2017, rivela che il 46% degli americani mangia quotidianamente da solo e a volte senza neppure rendersi conto di farlo, come per i pasti consumati davanti al computer sul posto di lavoro. Sono solitari il 53% delle colazioni, il 43% dei pranzi e il 24% delle cene (dati del 2013), senza contare i numerosissimi snack che segnano abitualmente le pause tra un pasto e l’altro. Tra i luoghi e le modalità più frequenti in cui questo avviene vanno annoverati l’abitazione, l’ufficio, il ristorante e l’on-the-go, ovvero il cibo consumato durante gli spostamenti.
È vero che per alcune categorie di persone, legate a necessità lavorative particolari, mangiare da soli è più spesso una necessità che una virtù. Questo accade ad esempio per tassisti, camionisti e chi semplicemente viaggia, per lavoro o per piacere. Così come per gli studenti, abilissimi nel coniugare studio e cibo. Tuttavia, il fenomeno non è confinato solo a queste tipologie, anzi, secondo i dati di ricerche recenti, sembra proprio che l’abitudine di mangiare da soli sia sempre più diffusa, anche fuori dagli States. Un’indagine condotta da Waitrose sulle abitudini alimentari del Regno Unito ha evidenziato che le ragioni di questa crescita vanno ricondotte agli stili di vita contemporanei e all’estesa percezione del cellulare come surrogato del compagno di tavolo, diffusa soprattutto tra i diciotto-ventiquattrenni. Non solo giovani però: tra i gruppi più propensi al pasto in solitudine rientrano anche gli anziani (over 65), che in Italia costituiscono il 47,7% dei single. Che la fascia di popolazione più adulta sia tendenzialmente anche quella più sola, almeno quando si tratta di mangiare, lo conferma anche la Oxford Economics, secondo cui proprio gli over 55 sono i consumatori che più spesso non cenano in compagnia, indipendentemente dal fatto che vivano con altre persone o meno. Millennials indaffarati, cresciuti a pane e multitasking, e Baby-boomers, spesso divorziati, hanno quindi un insospettabile punto in comune.

tavolo per uno
YAKOBCHUK VIACHESLAV/shutterstock.com

Snackification e politeismo alimentare

Ma quali sono i fattori storici che hanno portato all’aumento di questo fenomeno? Sempre l’istituto americano fornisce qualche risposta:

  • La società post bellica del secondo conflitto mondiale, fatta di donne lavoratrici, genitori single e nuove tecnologie, ha modificato nel tempo il concetto tradizionale di convivio familiare;
  • La graduale scomparsa, negli ultimi cinquant’anni, dell’idea che trascorrere insieme alcune occasioni di ristoro, come la pausa pranzo dei figli in età scolare, sia effettivamente importante;
  • La progressiva riduzione di tempo speso nella effettiva degustazione di cibo, sempre più spesso relegato a mera consumazione mentre si è impegnati a fare altro, ad esempio seduti alla postazione di lavoro;
  • La “snackificazione” (snackification è il termine originale), ovvero la destrutturazione dei pasti che porta a un’alimentazione tesa al solo senso di sazietà, da soddisfare sempre e comunque;
  • L’acquisto “indisciplinato”, ovvero slegato da logiche di progettazione anticipata del pasto e figlia, invece, del momento e del luogo in cui ci si trova quando si pensa al mangiare.

Quest’ultimo punto, in particolare, viene evidenziato anche dal rapporto Coldiretti-Censis che già nel 2010, in merito alle abitudini degli italiani a tavola, parlava di “politeismo alimentare” per definire l’allora emergente tendenza dei consumatori a “mangiare di tutto, senza tabù, generando combinazioni soggettive di alimenti e anche di luoghi dove acquistarli, neutralizzando ogni ortodossia alimentare”.

Evoluzione socio-culturale, nuove tecnologie e modalità di consumo inedite sono dunque alla base dell’attuale alimentazione. E c’è anche chi sostiene che mangiare da soli sia una specie di onanismo culinario: in fondo, spiegano i fan di questa tesi, per portare la forchetta alla bocca è sufficiente una mano sola. Qualunque sia l’interpretazione corretta, per molti habitué del pasto in solitaria questo rappresenta un momento di piacere personale, in cui godere della compagnia di se stessi, concedendosi una pausa dal resto del mondo, anche e soprattutto se il pranzo o la cena vengono serviti.

cibo on the go
Estrada Anton/shutterstock.com

“Tavolo per uno”: il trend del fuori casa  

Andy Warhol non era poi tanto lontano dalla realtà quando immaginava di aprire un ristorante per single. Nel 2017, infatti, la giapponese Ichiran Ramen ha sviluppato un format di ristoranti per singoli avventori, in cui il pasto viene consumato in perfetta solitudine all’interno di cabine monoposto. Il primato va però all’Olanda: il ristorante Eenmaal è stato il primo a concepire un locale dotato solamente di tavoli per uno. Al di là degli estremismi, ciò che questi casi dimostrano è non solo la nascita di una nuova moda, ma più in generale la diffusione – a livello globale – di una nuova percezione del mangiare da soli in pubblico. Non più motivo di imbarazzo, la cena o il pranzo fuori senza compagnia sono sempre più vissuti e visti come un’abitudine e non come una rarità di cui vergognarsi. È quanto confermano anche i numeri di OpenTable, la App di prenotazioni online che raccoglie oltre 47 mila ristoranti in tutto il mondo e che negli ultimi anni ha registrato una crescita esponenziale delle prenotazioni per single (+62% nel 2015 in USA e +85% nel 2017 in Canada).

In molti casi, la tecnologia aiuta: con uno smartphone è facile isolarsi dal contesto circostante, evitare gli sguardi altrui e immergersi in attività social estemporanee che, paradossalmente, sono spesso legate proprio alla condivisione di quello che si sta mangiando. Secondo il recente sondaggio Doxa-Groupon sui consumi fuori casa degli italiani, il 49% degli intervistati dichiara di utilizzare abitualmente il web per far sapere la propria opinione sul cibo che ha provato. Di questi, il 29% ricorre a Facebook, Twitter e Whatsapp. Così, se la food photography è ormai una mania contagiosa e inarrestabile, proprio gli strumenti digitali che l’hanno stimolata giocano un ruolo importante nella modificazione di certi comportamenti e nella loro accettazione. E anche se probabilmente non arriveremo mai a livelli della Corea del Sud, in cui il mangiare da soli davanti a una webcam è addirittura fonte di guadagno (si chiama “mukbang” unione di “mangiare” e “trasmettere via web”, in coreano), è pur vero che il social eating ha contribuito a sdoganare il tabù della solitudine a tavola.

Il popolo dei single e i consumi dentro casa   

In Italia un terzo delle famiglie è unipersonale, ovvero composto da una sola persona. Con una concentrazione maggiore al Centro-Nord, la popolazione single è aumentata nel corso degli ultimi vent’anni fino a rappresentare il 31,6% del totale (censimento ISTAT). Questo significa che per una buona fetta di italiani, almeno sulla carta, la normale quotidianità domestica è fatta di pasti consumati in totale privacy. Anche in questo caso, nulla di originale: si stima infatti che entro il 2020 le persone che vivranno sole in tutto il mondo raggiungeranno quota 414 milioni. Cambia la conformazione delle famiglie e l’offerta si adegua, così il mercato degli alimenti propone sempre più spesso soluzioni di piccolo formato, come confezioni monodose e ready-to-eat. Non solo snack e succhi di frutta, ma anche insalate, zuppe e prodotti cosiddetti di “quarta gamma”, ovvero frutta e verdura in vaschetta. Il carrello della spesa degli italiani conferma infatti la diffusa preferenza per il pronto che, fa sapere il Rapporto Coop 2018, cresce in Italia del 6% nell’ultimo anno. Da non dimenticare poi il food-delivery, il servizio di cibo a domicilio online che solo nei primi tre mesi del 2018 ha conquistato 3,5 milioni di italiani. Mangiare da soli sì, quindi, ma possibilmente senza perdere troppo tempo, decidendo il menù anche all’ultimo minuto e soddisfando le voglie del momento.

pranzo solitudine
Matej Kastelic/shutterstock.com

Mangiare da soli fa male alla salute?

L’uomo è, per sua natura, un animale sociale. Ma cosa succede se questa innata tendenza alla socializzazione viene meno, magari durante uno dei momenti più condivisibili della giornata, come il pasto? Mangiare da soli, dicono alcune ricerche scientifiche, può avere conseguenze sulla salute dell’individuo, che è più portato a sviluppare disturbi alimentari o psicologici, come la depressione. Lo conferma, ad esempio, l’indagine sulle abitudini alimentari della Corea condotta su un campione di oltre 7 mila persone, secondo cui i soggetti che mangiano “sempre” da soli sono più spesso vittime della sindrome metabolica.

Il più delle volte, condividere il pasto significa, infatti, non solo godere della compagnia altrui ma anche, in qualche modo, esserne limitati. Chiusi tra le mura domestiche, siamo tutti di liberi di mangiare ciò che ci piace, nella quantità e nei modi che ci pare. Quando si è in compagnia, invece, le nostre abitudini sono necessariamente mitigate da convenzioni sociali (“non si parla con la bocca piena” e altre regole del galateo) e inibizioni particolari: cosa e quanto mangiamo sono spesso condizionati dal comportamento degli altri commensali a tavola, secondo una specie di conformismo alimentare che evita, il più delle volte, lo squilibrio, in un senso o nell’altro. Non a caso, disturbi quali l’obesità infantile possono essere prevenuti anche grazie alla presenza della famiglia durante il pranzo o la cena. Le fasce più a rischio nello sviluppo di problematiche collegate alla solitudine sono proprio bambini e anziani, per cui la mancanza di un nucleo di riferimento porta alla reiterazione di sregolatezza e abitudini malsane.

In generale, fa sapere la Oxford Economics, chi mangia spesso con amici e parenti è più soddisfatto della propria vita: degli 8.000 inglesi adulti intervistati nel maggio del 2018, quelli che conducono una vita sociale attiva dichiarano un grado di felicità di quasi 8 punti superiore rispetto a chi rimane da solo. E i social non contano: “la probabilità di avere sintomi depressivi aumenta sensibilmente mano a mano che la frequenza di contatti di persona – non via cellulare o mail – decresce” (Università del Michigan, 2015). In altre parole: aggiungere un posto a tavola non è come chattare o postare una foto.

D’altra parte, però, stabilire con certezza se mangiare da soli sia sempre la causa di disturbi comportamentali e non piuttosto una conseguenza, non è facile. La scarsa autostima, ad esempio, può portare ad una maggiore propensione alla chiusura e alla solitudine, ed essere quindi il fattore di una vita sociale diradata. Inoltre, secondo uno studio del 2017, c’è una relazione tra sana alimentazione e pasti in solitudine per cui i single hanno maggiore consapevolezza di ciò che è meglio mangiare.

 

In conclusione, quindi, si può dire che a fare la differenza non è solo se si mangia da soli o no, ma come e perché. La linea di demarcazione tra soddisfazione o infelicità è pertanto emotiva: decidere di mangiare da soli non è come “essere costretti” a farlo, come nel caso di famiglie monocomponenti, bambini e anziani soli. E anche se oggi il fenomeno è in crescita, dentro e fuori casa, quel che fa la differenza è il modo in cui lo si vive: il confine tra abitudine e tabù è, prima di tutto, personale, non trovate?

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