C’è ‘Er Fagiolaro’, il ristorante amato dalla Roma bene e dai turisti a pochi passi dal Pantheon. O l’agriturismo da favola di Suvignano tra i campi della Toscana: valore trenta milioni di euro che fanno gola anche allo Stato in tempi di vacche magre. E ancora: la catena ‘Zio Ciro’ che esportava il proprio modello criminale di commercio all’estero o ‘Sugo’, un franchising nuovo di zecca, creato da zero, come fosse un’impresa normale. I tentacoli della mafia si sono infiltrati nel settore della ristorazione ormai in ogni modo, tanto che dovremo cominciare a porci in maniera diversa di fronte a una semplice domanda:
‘Quando prenoti un tavolo, sai esattamente dove lo stai facendo?’.
Un volume d’affari da 1 miliardo di euro
Secondo le ultime stime degli esperti del settore, nel nostro paese i locali in mano alla criminalità organizzata sono circa 5.000: ristoranti, agriturismi, aziende agricole, bar, bed&breakfast, trattorie, osterie. Nessuno escluso. Così come nessun territorio risulta immune: non solo le terre storicamente legate alle criminalità organizzata, ma anche Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e soprattutto Lazio raccontano quotidianamente di sequestri e collusioni con il malaffare. L’attuale presidente del Senato Piero Grasso nel 2011 aveva stimato un volume di affari di un miliardo di euro e non c’è motivo per non ritenere che in quattro questa cifra non sia aumentata in modo esponenziale.
Essere onesti non paga, anzi
Giuliano Gallini, nella sua rubrica, l’ha scritto nel modo più chiaro possibile: chi lavora nella completa legalità si sente ormai parte di una nicchia di mercato.
Pessimista? No, realista. Qui non è questione di lamentarsi, uno degli sport più praticati nel paese. La verità è che seguire le regole, fare le cose per bene, credere nella legge in Italia economicamente non conviene: per gli imprenditori fare affari con la criminalità organizzata è sempre più spesso considerato normale, se non inevitabile. Lo dicono gli atti delle inchieste, le risposte date ai magistrati: scendere a patti con il boss di zona, accettare la logica del lavoro in nero o dello scambio di favori, è in fondo un piccolo pegno da pagare, meno fastidioso delle assurdità della burocrazia e dell’invadenza della pressione fiscale che costringono le aziende a perdere tempo e denaro prezioso.
Ostia Criminale
E’ solo l’ultima storia in ordine di tempo ed è simile, se non identica, a decine di altre precedenti. Nei giorni scorsi l’assessore alla legalità di Roma ha chiesto di inviare l’esercito a presidiare il litorale, perché la situazione nella città alle porte della capitale è ormai fuori controllo. La malavita locale ha iniziato con l’usura, il pizzo e il traffico di stupefacenti: tutto nella norma, in stile Romanzo Criminale, ma i guadagni erano tali che andavano reinvestiti in qualcosa che non destasse sospetti. Secondo la ricostruzione della Guardia di Finanza, i clan hanno messo le mani su ristoranti, stabilimenti balneari, discoteche e persino noleggi di automobili: un modo perfetto per riciclare i guadagni delle loro attività illecite.
La mafia al servizio del cittadino
“La mafia non uccide più: oggi è silente e offre servizi alle imprese, con la gestione dei flussi del riciclaggio, che diventano risorse fresche per le aziende della crisi”. Parole di Giovanni Russo, consulente dell’antimafia per il Csm. Il meccanismo è semplice: le difficoltà economiche spingono gli imprenditori a cercare partner con denaro fresco e ‘veloce’, ma spesso questo aiuto è solo l’inizio di un’espansione che non si può arrestare. Il nuovo socio sfrutta la disperazione delle aziende in affanno per acquistarle e farne centri di riciclaggio del proprio denaro sporco. Una volta aperta la porta, chiuderla diventa sempre più difficile. Ma raccontare e comprendere queste dinamiche non può giustificare chi si concede alla malavita: “Chi fa affari con le mafie è artefice e complice, non certo una vittima”, ha ribadito pochi giorni fa da Bologna don Ciotti, all’affollatissima manifestazione nazionale di Libera.
Scontrini falsi e merce fantasma: la strategia mafiosa
La strategia mafiosa è ormai consolidata. Le organizzazioni malavitose si servono di prestanome più o meno credibili (artigiani, pensionati, studenti, disoccupati legati soprattutto dalla medesima origine geografica) per acquistare le attività commerciali in difficoltà, spesso a cifre fuori mercato. Quindi danno il via al solito copione. Ristrutturazioni, cambio di arredamenti, fatturazione di scontrini fasulli, ordini di merce fantasma: tutto serve a far ripulire il denaro sporco, giustificando cifre altrimenti ingiustificabili. Per fare un esempio: nel 2005 il Cafe de Paris di via Veneto a Roma era stato acquistato da un barbiere dell’Aspromonte con un reddito dichiarato di 15mila euro per 2,2 milioni. Quattro anni dopo fu sequestrato dalla Guardia di Finanza in un’operazione che portò allo scoperto traffici illeciti per 200 milioni di euro.
L’Expo: il prossimo banco di prova
In ‘Noi e la Giulia’, la commedia di Edoardo Leo uscita al cinema il mese scorso, la mafia ha un volto squinternato ed esagitato. Una caricatura dei boss di strada che viene derisa a suon di cazzotti e umiliazioni grottesche. Ci sta: il film ha scelto la strada della risata per mettere in risalto la lotta alla malavita, seguendo un filone che negli ultimi tempi hanno imboccato in molti (da Pif ai Jackal).
Nella realtà, purtroppo, il lavoro delle forze dell’ordine è molto più complicato anche per via delle sproporzioni di forze in campo. Il prossimo, importantissimo, banco di prova sarà quello dell’Expo. Le associazioni di categoria hanno già lanciato l’allarme, perché l’arrivo di così tanta gente rappresenta per le organizzazioni criminali un’occasione unica per riciclare denaro attraverso attività discrete come case vacanza e affittacamere. Alla faccia dei mille controlli che un imprenditore onesto deve affrontare per mettere su la propria attività.