Nella cultura italiana, non esiste pranzo o cena che si rispetti senza una degna conclusione a base di liquore (o amaro, vedremo più avanti che è la stessa cosa). Infatti, in molti ristoranti, addirittura, viene offerto un bicchierino di amaro insieme al conto. È cultura, è convivialità, è l’identità del nostro Paese, che dimostra l’enorme ricchezza della biodiversità (e dell’estro) tricolore. Per intraprendere questo viaggio all’interno del mondo dei liquori italiani ci siamo affidati al più valoroso dei condottieri, Fulvio Piccinino, lo storico della miscelazione, che ci porterà alla scoperta delle numerose etichette e delle diverse tipologie di liquori italiani, prodotti da Nord a Sud.
Fulvio Piccinino: studioso, scrittore ed esperto di miscelazione e spirits
Fulvio Piccinino, torinese, nasce nel 1967. Dopo aver lavorato per molti anni per una multinazionale birraria, si sposta dietro al bancone del bar, dove inizia la sua passione per lo studio della merceologia e della miscelazione. In questo contesto, compie approfonditi studi sulle polibibite futuriste, che ne fanno il massimo esperto a livello mondiale. Il cerchio si chiude nel 2014 con la pubblicazione di Miscelazione Futurista, che viene inserito nella classifica mondiale di Tales of the cocktail a New Orleans nello stesso anno. Nel proseguo della sua carriera professionale, si dedica alla formazione alberghiera presso istituti salesiani e scuole private, e tiene seminari tematici presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo sul processo di distillazione e fabbricazione di liquori e vermouth. È docente presso la Campari Academy per il percorso formativo Barmaster con 4 masterclass su vermouth, amari, distillati e processo di distillazione. È l’amministratore ed editore del sito di cultura del bere saperebere.com da cui nasce, nel 2010, il libro omonimo Saperebere, la cultura del bere responsabile, ed è inventore e relatore del seminario permanente «Esperienza Vermouth». La sua carriera da scrittore prosegue e, nel 2015, pubblica Il Vermouth di Torino, nel 2018 Il Gin Italiano e, infine, la trilogia del Negroni di Carta con l’uscita dell’ultimo libro Amari e Bitter nel marzo del 2019, in occasione del Centenario del Negroni. Tutte pubblicazioni chiare e semplici che il sottoscritto ha letto e consiglia a tutti gli appassionati, neofiti e non. Infatti, a contraddistinguere Piccinino è propria la capacità di saper parlare a chiunque.
L’importanza del liquore nella tradizione italiana
Come abbiamo visto, in Italia abbiamo una lunga tradizione nella produzione di liquori. Secondo Piccinino, questi sono così radicati nella nostra cultura per un insieme complesso di motivi:
- Climatici: in quanto abbiamo un indice di biodiversità elevatissimo, forse tra i primi al mondo, dovuto al fatto che la Piccola Glaciazione, che ha investito l’Europa dal XIV al XIX secolo, ci ha colpiti ma in maniera più blanda. Infatti, le Alpi, così come i mari ci hanno protetto e la flora ne ha beneficiato. Abbiamo dunque decine di microclimi diversi, grazie a un mix quasi perfetto di montagne, pianure e colline, anche qui unico al mondo.
- Religiosi: avendo decine di ordini religiosi con abbazie, conventi e santuari sul nostro territorio, e pensando che i frati insieme agli alchimisti furono i principali studiosi di erboristeria, non possiamo che averne avuto vantaggio per quanto riguarda la produzione dei liquori Tra l’altro, uno degli ordini più attivi in questo senso, ricordando le figure di Rupescissa e Bacone, furono i Francescani di Assisi. Rupescissa, con il suo trattato sulla quinta essenza, pose le basi per la produzione dei primi elisir, così come Bacone fece fare importanti passi avanti al processo di distillazione, fondamentale per ricavare il solvente per i liquori, ossia l’alcol.
- La nostra organizzazione sociale, basata sulla famiglia, mise i presupposti per la creazione di centinaia di ricette di amari e liquori, che furono tramandati a livello orale e che poi diventarono prodotti commerciali.
- La nostra filosofia di vita, basata sul “non si butta via niente”, in particolare dopo il Rinascimento, in cui si registrò una fase di declino economico e di povertà, specie nelle campagne. Ne sono esempio i liquori di frutta conservata con i noccioli della stessa, normalmente scartati e che invece venivano utilizzati, come il persichetto (pesche) o la cerasella (ciliegia).
Quando diciamo liquore diciamo amaro?
Non tutti hanno chiara la distinzione (e la somiglianza) tra gli amari e i liquori.
Partiamo dalla definizione: il liquore è una soluzione composta da alcol, zucchero e acqua, preparata a caldo o a freddo, aromatizzata con estratti di origine vegetali, come erbe aromatiche, frutta e fiori, tramite infusione.
Piccinino infatti ci spiega che: “gli amari sono liquori. Per la legge, si definisce tale quando nel liquido sono presenti i principi amaricanti, ossia le erbe aromatiche”.
In particolare, possiamo dividere i liquori in tre grandi macro-categorie:
- liquore derivato dalle piante;
- liquore derivato dalla frutta;
- liquore di “fantasia”, ossia dove non è presente o individuabile una pianta o un frutto come principale ingrediente (il più famoso di questi è lo Strega).
Inoltre, continua Piccinino: “per poter usare la definizione liquore è necessario un minimo di 15 gradi alcolici e 100 grammi di zucchero minimo per litro (con l’eccezione del liquore di genziana con i suoi 80 grammi di zucchero per litro e del liquore di ciliegia con 70 grammi).”
Esistono poi, prosegue: “altre “categorie” distinguibili in base alla quantità di zucchero utilizzato: da 100 a 250 grammi si parla di ‘liquore di’, mentre se si superano i 250 grammi si parla di ‘crema di’. Inoltre, alcuni liquori di frutti rossi, come la Crème de cassis, devono avere almeno 400 grammi per litro, la Sambuca viene disciplinata con 350 grammi, il maraschino invece 250 di zucchero”.
Quindi, riassumendo: la percentuale di zucchero nei liquori è molto alta. “La maggioranza degli amari sul mercato, dunque, rientra nella prima categoria (minimo 15 gradi e 100 g/l di zucchero), eccetto alcuni fernet o prodotti che in passato erano definiti “Amarissimi”.
Le macroaree delle diverse tipologie di liquori
Dopo avere definito cosa siano gli amari e quali siano le classificazioni a cui appartengono, un ulteriore passo è individuare le aree geografiche di origine e diffusione.
“Come per gli amari, dove ho individuato una scuola montana, mediterranea e nord europea” – racconta Piccinini – “anche i liquori si possono distinguere in queste 3 macroareei. Ad esempio, i ratafià di frutta, soprattutto di ciliegie, sono diffusi in tutta Italia, dal nord del Piemonte fino all’Abruzzo, passando per il Veneto e l’Emilia Romagna. Diciamo che, dove si trova l’eccellenza della produzione della ciliegia, troviamo il liquore. Il Nocino è invece diffuso lungo l’Appennino, da quello ligure fino alla Campania, mentre la genziana parte dalle Alpi e si ferma in Abruzzo, i liquori di agrumi in genere nel sud”, conclude Piccinino.
Insomma, in Italia ogni regione ha più di un amaro tipico, la cui produzione rispecchia (e utilizza) l’enorme biodiversità del nostro Paese, dai fiori e piante spontanee fino alla frutta e agli ortaggi (basti pensare ai liquori all’alloro, cipolla, basilico o carciofo).
Il mondo dei liquori italiani: dai grandi nomi alle firme “dimenticate”
Di liquori, come abbiamo visto, l’Italia ne è piena. Tuttavia, spesso i consumatori non vanno oltre le etichette più conosciute, rinunciando a conoscere prodotti d’eccellenza. Ecco perché, in questo articolo, insieme a Piccinino, vogliamo raccontarvi di alcuni nomi ormai scomparsi dagli scaffali. “In realtà, non sono neanche convinto che la gente conosca i grandi nomi” esordisce il nostro esperto. “Lo Strega, ad esempio, non si vede molto sugli scaffali dei bar dell’estremo Nord Italia, a meno che la gestione non sia meridionale, quindi di qualcuno che abbia voluto portare un pezzo della sua cultura. Negli anni Ottanta, la bottiglia si vedeva spesso nelle gelaterie per fare il famoso taglio alla crema”.
Lo stesso discorso vale per il maraschino. “Da prodotto di benvenuto nazionale, con budget promozionali incredibili tra la fine dell’Ottocento fino agli anni Quaranta del Novecento (non c’era giornale o periodico che non avesse una pubblicità di Luxardo, Drioli o Vlahov) è poi diventato il condimento della macedonia nei ristoranti e a casa, negli anni Ottanta e Novanta. Infine, è stato relegato agli scaffali dei cocktail bar in cui si fa miscelazione di alto livello in mano ai migliori bartender su piazza”.
Ma non finisce qui, un altro esempio di “liquore dimenticato” è rappresentato dal Sangue Morlacco di Luxardo, “un prodotto di eccellenza con una diffusione nazionale fra le due guerre, che progressivamente ha perso terreno”, afferma Piccinino.
E che dire dell’alchermes? “È un prodotto di benvenuto di eccellenza” continua l’esperto, “ci sono ricette presenti in tutti i ricettari di liquori del Settecento fino alla fine dell’Ottocento in cui compaiono i suoi diversi modi di produzione. Inoltre, era il cavallo di battaglia dell’Officina Farmaceutica di Santa Maria Novella, diventato, nella versione commerciale, la bagna ideale per la zuppa inglese, grazie al quale sopravvive sugli scaffali dei supermercati, nei ristoranti e nelle pasticcerie”.
Un caso affascinante è quello del Rosolio di Torino, oggetto di una recente riscoperta da parte del progetto liquoristico Doragrossa di Torino: “nel Settecento, i libri di liquoristica francesi e inglesi parlavano di questa eccellenza prodotta dai liquoristi torinesi” racconta l’esperto. “La tradizione vuole che il vermouth lo abbia scalzato dalle preferenze di corte. In realtà, tutti i libri di ricette ne hanno almeno 3 sulle loro pagine, fino agli inizi del Novecento.”
Ma i nomi di liquori dimenticati – e quindi meno conosciuti – che gli appassionati, secondo Piccinino, dovrebbero riscoprire sono ancora tanti: i ratafià di ciliegie abruzzesi (Iannamico e Scuppoz a base di vino rosso o a base alcol), l’etichetta di Quaglia in Piemonte, il nucillo campano Leanza e il modenese Stampa (tra cui il Sassolino, il loro liquore all’anice), il bolognese Casoni, il Padre Peppe pugliese, il liquore alla menta di Pancalieri (Chialva, Doragrossa), il Genepy di Bordiga che produce nella Valle Elva, l’Alpe con il suo Herbetet.
Possono essere poco comuni e difficili da reperire, ma sono assolutamente da provare almeno una volta!
“Oltre” all’Italia: i validi liquori stranieri nel nostro Paese
Dopo aver fatto un un approfondito viaggio immaginario nel panorama dei liquori italiani, scopriamo cosa c’è di buono oltre i confini nazionali. La maggior parte sono prodotti di scuola francese, con la quale l’Italia ha profonde attinenze, e a questo proposito Piccinino racconta: “i primi libri di liquorista dettagliati arrivano dalla Francia e, per la vicinanza territoriale, passano in Piemonte che poi, come precursore del Risorgimento, li traduce e ne diffonde il sapere”.
L’influenza dei paesi stranieri è diversa, invece, nell’Italia meridionale, come spiega l’esperto: “al sud abbiamo la scuola araba e mediorientale con i suoi elisir e amari barocchi. A tal proposito, penso al Borsci San Marzano, la cui ricetta arriva con gli esuli albanesi, o la Thibarine tunisina, un prodotto magnifico con spezie ed erbe, prodotto come i distillati di fichi e datteri dalla comunità ebraica”. Continua poi citando il famoso pastis che può non piacere particolarmente in alcune aree italiane, specie dove c’è uno scarso allenamento al gusto dell’anice.
Altri liquori stranieri degni di nota e diffusi nel nostro Paese sono la creme de cassis de Dijon, Benedectine, la guignolet della Loira, se si amano i liquori di ciliegie e si vuole assaggiare l’interpretazione di un’altra scuola francese, Chartreuse sia gialla che verde, la Becherovka della Repubblica Ceca. “Così come la Goldwasser di Danzica nell’est della Polonia, un distillato di semi di cumino dolcificato contenente scaglie d’oro, la cui presenza si rifà all’alchimia e all’Oro Potabile”, termina Piccinino.
Insomma ce n’è davvero per tutti i gusti, un mondo nel mondo. I vostri amari preferiti quali sono?