Una ciotola d’orzo lasciata incautamente all’aperto, un temporale, poi il sole che asciuga; di nuovo un temporale che riempie la ciotola che fa sì che ne venga fuori un intruglio che qualcuno poi si prova ad assaggiare. Miracolo! L’intruglio dona euforia, allevia le fatiche del lavoro nei campi e dà anche più coraggio in guerra! Così nasce la birra.
Questa è un’ipotesi molto verosimile su ciò che avviene circa quattromila anni prima di Cristo, in quel lembo di terra detto Mezzaluna Fertile che corrisponde alla Mesopotamia, ma che arriva fino alle sponde del Mediterraneo, dove l’uomo, grazie al clima e appunto alla fertilità della terra, da nomade e cacciatore diventa stanziale e coltivatore e grazie ai cereali prima raccolti e poi coltivati nasce la birra denominata sikaru, ossia pane liquido. La prima testimonianza scritta la troviamo nel “Monumento Blu”, una tavoletta di argilla a caratteri cuneiformi di epoca predinastica sumerica, datata 3700 a.C. nella quale si menzionano doni a una dea, consistenti in “miele, capretti e birra”.
Passano duemila anni e nel Codice di Hammurabi, che è la più grande raccolta di leggi dell’antichità, si trovano norme che regolamentano la produzione e la vendita della birra e, addirittura, sanzioni che prevedono la condanna a morte con il taglio della testa alla donna sorpresa ad annacquare la birra, perché la produzione era allora compito delle donne.
Secoli dopo, in Egitto è bevanda sacra dedicata ad Osiride, protettrice dei morti, alla quale attribuiscono l’invenzione della birra, essendo stretto il legame tra birra e immortalità. I più ricchi si facevano costruire delle birrerie in miniatura per le loro tombe. Ai Faraoni erano dovuti come tasse dalle città, dai territori e dalle province, migliaia e migliaia di vasi di birra e, come per i Sumeri, il salario minimo era liquido (due anfore di birra al giorno). Birra è sinonimo di vita e le sue virtù curative diventano famose: il “Papiro Ebers” ci offre 600 prescrizioni mediche per alleviare le sofferenze dell’umanità il cui ingrediente principale è la birra. Le scuole insegnano la fabbricazione della birra prima della scrittura e della lettura.
Successivamente, nel 1° secolo a.C., la regina Cleopatra, grazie ai rapporti intrattenuti con i romani, ne facilita l’esportazione al di là del Mediterraneo, verso Roma. Qui la birra, è oggetto di molte contraddizioni a causa del predominio del vino, così come in Grecia. A Roma il vino ne ostacola la diffusione e la birra è considerata bevanda pagana.Ma le legioni che si trovano nel profondo nord e che non hanno il vino, scoprono che in Gallia è avvenuto qualcosa di analogo alla Mesopotamia e che, addirittura, i Barbari hanno tecniche migliori di cottura. I Galli migliorano tre aspetti del fare la birra: utilizzano pietre riscaldate per la cottura, inventano le botti per un più lungo periodo di conservazione e inventano una famosa pozione magica mescolando a una birra di frumento una parte di idromele. Aromatizzano le loro birre con anice, assenzio e finocchio, mentre i Druidi preparano a loro volta un’infusione magica dai poteri curativi impiegando un ingrediente segreto: la salvia.
I Celti si erano stanziati principalmente in Gallia e in Britannia, ma la loro straordinaria civiltà, bagnata di birra fin dai primordi, fu sviluppata principalmente nella verde Irlanda. La nascita del popolo irlandese è dovuta secondo una leggenda ai Fomoriani, creature mostruose dal becco aguzzo e dalle gambe umanoidi, che avevano la potenza e l’immortalità grazie al segreto della fabbricazione della birra, che fu loro sottratto dall’eroe di Mag Meld, una specie di Prometeo irlandese.
Di birra si parla anche nei sacri libri del popolo ebraico, come il biblico Deuteronomio, il Talmud e nella festa degli Azzimi, che ricorda la fuga dall’Egitto, durante la quale si mangia per sette giorni pane senza lievito e si beve birra. Inoltre questa bevanda è regina durante l’annuale festività del Purim, considerata la più popolare dagli ebrei.
la birra nel medioevo
Nel Medioevo la libertà di fare e vendere birra costituisce un privilegio che è saldamente nelle mani delle Chiese e dei nobili, i quali ovviamente si arrogano il diritto di produrre e commerciare la birra, ma lo sviluppo dell’arte birraria si ha nella quiete dei monasteri. Si dice cheSan Benedetto, tra il 530 e i 546 durante la costruzione dell’Abbazia di Montecassino, abbia bevuto birra lì prodotta. E con questo possiamo ben dire che la prima birra d’abbazia sia nata in Italia. In seguito, nel 613, il monaco irlandese San Colombano fonda l’Abbazia di Bobbio nel Piacentino e si parla di miracoli fatti con la birra. Già nel 770, nell’Abbazia di Gorze in Mosella, il mastro birraio opera per i suoi silenziosi fratelli. I monaci perfezionano in modo significativo i metodi di brassaggio (processo produttivo della birra) e diventano fino al XII° secolo gli esclusivi detentori delle conoscenze e delle tecniche.
Nella famosa Abbazia di San Gallo in Svizzera nascono le geniali tecniche che permettono di dividere la stessa produzione in più mosti. Il primo mosto che si estrae, ricco di zuccheri e destrine, dà una birra forte e prelibata chiamata Prima Melior e destinata all’Abate. Il malto utilizzato trattiene tuttavia una forte proporzione di zuccheri “imprigionati” che, con l’aggiunta di acqua seguita da una filtrazione, permette di ottenere una birra meno ricca, più leggera e di minor valore chiamata Secunda per il consumo dei monaci che potevano -a seconda delle regole del singolo monastero- berne, pensate, dai 5 agli 8 litri al giorno! Un’ulteriore diluizione poteva essere fatta per ottenere la cosiddetta Tertia, la birra offerta ai mendicanti (in pratica questo corrisponde allo sparging attuale che consiste nel lavaggio delle trebbie per recuperare ogni sorta di zuccheri residui del mosto).
Contemporaneamente nell’America Precolombiana avviene qualcosa di simile: i Conquistadores trovano l’usanza di produrre un fermentato simile alla birra, dove le donne masticano i grani di orzo e mais e li sputano nella marmitta, consentendo alla ptialina, l’enzima della saliva, di trasformare l’amido in zuccheri fermentabili e ripetendo il più antico rituale di birrificazione conosciuto sulla terra. Fuori dai Monasteri netta è l’impronta femminile sulla fabbricazione della birra. Le leggi germaniche decretano che spetta esclusivamente alla tenutaria la proprietà del materiale di brassaggio, che spesso fa parte della sua dote di matrimonio. In Gran Bretagna sono le famose “Ale Wives” che preparano la nobile bevanda e il mestiere di vendere la birra è largamente dominato dalle donne, che la producono anche in occasione di feste religiose, per questo denominate “Church Ale”. Intorno al 1150 si ha una svolta epocale: una suora che è anche botanica, Hildegard Von Bingendell’Abbazia di S. Rupert in Germania, scopre che una pianta rampicante che cresce spontaneamente lungo i fiumi ha proprietà aromatiche, antisettiche, antiossidanti e conservative e ne applica l’uso alla birra. E’ il luppolo.
Da quel momento soppianta il “gruyt”, la miscela di erbe aromatiche, spezie e miele, che per secoli veniva utilizzata per aromatizzare e migliorare la birra, poi inesorabilmente relegata ai libri di storia. Nel 1516 Guglielmo IV Duca di Baviera, a causa di una terribile carestia che falcidia i raccolti di cereali, promulga un editto che doveva essere temporaneo, il “Reinheitsgebot” o editto della purezza, che stabilisce che la birra dovesse essere prodotta soltanto con orzo, luppolo e acqua, non più con il frumento e la segale fino ad allora usati e ora destinati all’alimentazione umana. Accortosi che la birra così prodotta era migliore, l’editto non è stato più abrogato.
Fino ad allora la fermentazione avviene in modo spontaneo, non essendo stato scoperto il lievito, ma nel 1680 l’ottico e naturalista olandese Leuwenhoeck scopre l’esistenza dei batteri e si rende conto che anche la fermentazione è dovuta a qualcosa di infinitamente piccolo, ma non capisce né cosa, né come. Un secolo e mezzo dopo il francese Cagnard Latour scrive che sono cellule viventi che si moltiplicano a causare la fermentazione… E grazie queste supposizioni Anton Dreher e Gabriel Sedlmayr nel 1840 producono birra che ha grande successo in Baviera! Ma la perfetta comprensione che il lievito è un fungo che si moltiplica mangiando zuccheri e trasformandoli in alcol si ha nel 1876 a opera di Louis Pasteur, il grande microbiologo francese che di fatto è lo scopritore della fermentazione. Qualche anno dopo, nel 1883, Emil Hansen, giovane ricercatore della danese Carlsberg, scopre il Saccaromyces Uvarum detto ancheCarlsbergensis, che può fermentare anche a temperature più basse consentendo di produrre birra in tutti i periodi dell’anno e aprendo di fatto la strada alla birra a bassa fermentazione, contrariamente al Saccaromyces Cerevisiae scoperto da Pasteur che necessita di temperature più alte.
la rivoluzione industriale accelera tutto
Il passo decisivo alla crescita e al miglioramento della birra si ha con la rivoluzione industriale tra il XVIII e il XIX secolo, con le grandi scoperte tecnologiche. Già prima delle grandi invenzioni contribuirono a migliorare i procedimenti medievali: il termometro inventato nel 1714 da Fahreinheit e l’idrometro di Marin datato 1768. Questi strumenti sono all’origine dei primi “quaderni di brassaggio” che permettono di avere informazioni precise sulle diverse fasi: un esempio indicativo può essere rappresentato dall’inoculazione del mosto, il cui momento giusto veniva deciso immergendo la mano oppure quando si riusciva a vedere la propria immagine riflessa.
La rivoluzione industriale e quella scientifica si affermano in Europa nel XIX secolo, sconvolgendo irreversibilmente il mondo della birra, trasformato da due fattori fondamentali: da una parte la meccanizzazione che permette di aumentare il volume prodotto e dall’altra la possibilità di controllare rigorosamente ogni tappa della produzione in modo scientifico. La prima macchina a vapore in campo birraio è attribuita a James Watt che nel 1785 utilizza la nuova tecnologia per produrre una Porter a Londra. Daniel Wheeler fa brevettare una macchina per tostare il malto nel 1817 e apre la strada ai malti chiari e scuri, fin qui sconosciuti. Jean-Louis Baudelot inventa nel 1856 il “raffreddatore del mosto” che permette di recuperare il mosto raffreddato e passare subito alla fermentazione. La macchina per il ghiaccio artificiale, inventata da Carrè tre anni più tardi, esercita un impatto importante per la birrificazione non solo a livello del raffreddamento del mosto, ma soprattutto per molte altre operazioni come la bassa fermentazione e la possibilità di produrre lungo l’intera annata.
Nel XVIII secolo si assiste allo sviluppo della bottiglia di vetro verso il 1880, con l’invenzione della vetreria meccanica che coincide con l’avvento delle birre a bassa fermentazione. Il consumatore può ora ammirare il suo nettare e questo lo spinge a preferire birre sempre più chiare e dorate, il cui bellissimo aspetto viene esaltato dalla trasparenza del vetro. Nel XX secolo la birreria diventa un’impresa industriale che deve affrontare una concorrenza sempre più feroce e deve migliorare la sua produttività mantenendo prezzi bassi. L’evoluzione dei mezzi di comunicazione e dei trasporti favoriscono gli spostamenti delle birre e di conseguenza il loro confronto. Si sviluppano pertanto dei giganti dell’industria birraia, prima negli Stati Uniti, poi via via in tutto il mondo, provocando la diminuzione in caduta verticale delle piccole birrerie. Alla fine del XIX secolo se ne contavano più di 3.000 in Belgio e più di 2.000 negli Stati Uniti, mentre meno di cent’anni dopo il loro numero era vertiginosamente sceso a poco più di un centinaio in Belgio e a qualche dozzina negli Stati Uniti.
I mezzi di comunicazione permettono alla birra di viaggiare sempre più lontano, ma favoriscono subito dopo lo sviluppo di un marketing di massa. Le indagini di mercato dimostrano alle birrerie che “meno la birra è amara, più si vende”. Questi studi rispondono a bisogni capitalistici: se per esempio risulta che il 75% prova repulsione per le birre amare, la birreria diminuisce l’amaro in tutta la sua gamma di birre senza tener conto del restante 25% dei suoi clienti. Se poi, in fase successiva, afferma nelle sue campagne pubblicitarie che è migliore perché meno amara, ha contribuito a offrire un’informazione parziale alla popolazione che rischia di identificare l’amaro con un difetto. Assistiamo così a un appiattimento delle birre e all’impoverimento delle attitudini sensoriali della popolazione. Il fenomeno trova il suo apogeo nel Nord America all’inizio degli anni 60, con la scomparsa della maggioranza delle birre “speciali”. Ma per fortuna questa regressione nel gusto ha i suoi limiti.
la birra da degustazione
All’inizio degli anni ’80 assistiamo a un vero e proprio “Rinascimento” della birra “di gusto”. Questo fenomeno assolutamente originale non ha attinenza col passato, prima dell’industrializzazione non si parlava dell’esistenza di una cultura birraria. La pubblicazione di opere sulla degustazione è nuova, la gastronomia legata alla birra è nuova, i locali specializzati sono nuovi e i primi musei della birra non hanno ancora vent’anni. Gli elementi che spiegano questo fenomeno recente sono molteplici: il turismo, l’interesse degli appassionati, il posizionamento sul mercato delle piccole e medie industrie birraie, la formazione di gruppi di interesse e, non ultima, la filosofia del “piccolo è bello”. Nascono i primi micro birrifici e i Brewpub, locali che si fanno la birra da soli. D’ora in poi è tutto un proliferare di piccoli birrai artigianali, molti dei quali durano solo poche stagioni, ma alcuni toccano livelli qualitativi incredibili.
In Italia le prime fabbriche di birra sono impiantate attorno al 1850 ad opera di birrai stranieri (Wurher, Paskowski, Von Wunster, Dreher ecc.). La prima fabbrica di birra italiana è la Menabrea di Biella nel 1846, ma la prima tutta italiana è “Le Malterie Italiane” di Avezzano nel 1890, quando operano 140 birrifici. Attorno al 1910 diminuiscono i birrifici, ma quadruplica la produzione e nel 1920 il consumo pro capite di birra sale… pensate… a 3,5 litri annui, mentre il consumo di vino è sui 150 litri. Il costante aumento del consumo fa si che nel 1927, in piena epoca fascista, i produttori di vino abbiano una reazione: viene varata la Legge Marescalchi che, oltre alle accise, introduce l’obbligo di utilizzare almeno il 15% di riso e mais, apparentemente per incrementare l’utilizzo di questi cereali, ma in realtà per peggiorare la qualità della birra. Tutto ciò fa regredire i consumi fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale. Poi, dal 1960 al 1975, i consumi crescono fino a 16 l.p.c., fino a un periodo di congiuntura. Dal 1980 al 2009 il consumo sale a 29,7 litri, ma oggi siamo abbondantemente sopra i 30 litri. Attualmente operano in Italia 16 grandi unità produttive e circa 350 microbirrifici artigianali. Nel 2011 la produzione nazionale è stata di quasi 13 milioni di ettolitri.
Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con Poliphenolica.com