Le politiche alla base della confisca dei beni della criminalità organizzata fino a pochi decenni fa erano un’utopia. Quello che oggi sembra scontato, è stato invece un percorso lungo, nato almeno vent’anni fa da una grande mobilitazione promossa da movimenti, gruppi e associazioni (prima fra tutte, ‘Libera Terra’): fu questa ondata di legalità che riuscì a innestare sulla presa di posizione e coscienza popolare contro le mafie i fermenti che un anno dopo, nel marzo 1996, avrebbero dato vita alla legge 109.
Decine e decine di baluardi della legalità
E oggi? Cosa ne è rimasto? Decine e decine di solide realtà sparse per l’Italia che grazie a quel testo sull’uso sociale dei beni confiscati hanno potuto trasformare migliaia di ettari e metri quadri in mano alla criminalità organizzata, in baluardi della legalità, dove si offre lavoro e si diffondono principi profumati come i prodotti che sfornano.
Certo, non tutte le aziende sono riuscite a sopravvivere, e molte sono ancora le potenzialità non sfruttate della legge 109, ma quello che tante cooperative hanno fatto su tutto il territorio nazionale è un piccolo miracolo di volontà, in grado di dare lavoro, far riscoprire sapori e profumi, aprire squarci di turismo imprevedibili.
Una colonna sonora: Il Parto delle Nuvole Pesanti
Per iniziare questo anomalo viaggio lungo lo stivale a caccia di luoghi antimafia, non c’è musica migliore del progetto ‘Terre di musica’ della band calabrese ‘Parto delle Nuvole Pesanti’. A suo modo, un viaggio anche questo, attraverso una ventina di aziende in otto regioni, animate, queste come tutte le altre, dal principio base della legge 109: i beni confiscati non devono essere rivenduti per evitare che possano tornare in mani mafiose.
‘Libera Terra’ sulle orme di don Peppe
La cooperativa sociale ‘Le terre di don Peppe Diana’ di Castel Volturno, nel Casertano, è il paradigma del percorso da compiere per provare a trasformare territori, aziende e uomini segnati dalla criminalità organizzata (in questo caso la camorra) in lavoro, produzioni tipiche, economia legale. All’indomani dell’assassinio del prete che guidava la rivolta popolare ai clan, ucciso il 19 marzo 1994, il suo popolo progettò di portare avanti la sua battaglia, e dopo 16 duri anni ecco la coop, la prima di ‘Libera Terra’ in Campania.
[Le Terre di Don Peppe Diana. Fonte immagine: facebook.com/pages/Coop-Soc-Le-Terre-di-Don-Peppe-Diana-Libera-Terra]
“Il nostro territorio è stato per troppo tempo violentato e deturpato della sua bellezza e della sua civiltà – si legge nel profilo Facebook della cooperativa -. La nostra avventura sta dimostrando come da un luogo di morte, violenza e sopraffazione, quale era lo stesso immobile su cui sorgiamo, possa veder luce un luogo di sane produzioni bufaline e di lavoro rispettoso della dignità delle persone coinvolte”.
La sfida di ‘Le terre di Don Peppe’ è dunque lanciata su un terreno minato da decenni di commercio torbido e concorrenza inquinata, quello dei latticini e della bufala, su terreni e aziende confiscate ai clan. Privilegiando gli aspetti igienico sanitari e la qualità delle materie prime, la coop si dedica dunque alla produzione di mozzarella e ricotta, oltre che alla coltivazione dei campi che furono della camorra.
Questione di sigle: ‘La nuova cucina organizzata’
La vicina Nco (‘Nuova cucina organizzata’) di San Cipriano d’Aversa, sempre nel casertano, è andata anche oltre nella sfida. Con gli stessi principi e le medesime linee etiche, non solo produce cibo di qualità con prodotti provenienti da terreni confiscati alla camorra: la sfida è nella stessa sigla che riunisce le cooperative, Nco (nuova cucina organizzata), che fa il verso all’acronimo di nuova camorra organizzata, il gruppo fondato e capeggiato da Raffaele Cutolo che spadroneggiò in particolare negli anni ’80 controllando gran parte della micro e macro criminalità campana.
Con i prodotti nati e cresciuti nelle terre di alcune delle famiglie affiliate, la Nco 2.0 ha costiuito una vera e propria impresa, che quei prodotti li vende, li trasforma, li cucina, col valore aggiunto dell’inserimento di persone svantaggiate. Nuova cucina organizzata lavora su un triplice canale: il ristorante pizzeria di San Cipriano, la fattoria Fuori di zucca di Aversa, nata dove sorgeva un manicomio, il franchising, che sta permettendo ad altre cooperative di traslare altrove la formula. Ovvero fornire un servizio di qualità al cliente rispettando i principi etici dell’organizzazione e utilizzando metodi che rispettano l’ambiente ed il lavoro. Prodotti rigorosamente campani. E a prezzi equi.
La cascina che fa miele e nocciole
Molti chilometri più a nord ecco un’altra oasi: la ‘Cascina Caccia’, a San Sebastiano da Po (nel Torinese), ha ridato vita alla tenuta dei Belfiore, clan della ‘ndrangheta trapiantato nella nebbia del Piemonte. Porta il nome di Bruno Caccia e di sua moglie Carla: il primo, procuratore capo di Torino autore di importanti battaglie contro la criminalità organizzata, viene ucciso nell’83; la seconda si è sempre battuta perché venisse fatta luce su autori e mandanti dell’assassinio. Il mandante venne identificato in Domenico Belfiore, condannato dieci anni dopo l’omicidio, e nel ’96 arrivò la confisca della tenuta; solo dal 2007, però, superato lo scoglio di due raccolte firme della famiglia Belfiore in paese, l’associazione Abele cui venne affidato e Acmos, autrice del progetto, poterono godere dell’immobile e studiarne il riutilizzo.
Si tratta di una cascina ottocentesca di 850 metri quadri, di un grande fienile, di una stalla sul cui tetto è sistemato un impianto fotovoltaico, di un ettaro di terreno. Il riutilizzo è stato studiato in funzione di progetti educativi: se nel terzo piano vivono i residenti, i primi due accolgono le scuole e chiunque voglia toccare con mano un bene confiscato, comprendere il senso della legge 109, sporcarsi le mani con la terra e i suoi prodotti.
Negli anni sono state avviate le produzioni di birra, miele e nocciole, cui possono contribuire anche gli ospiti della comunità, mentre in scala ridotta vengono fatte anche marmellate, pizze, pagnotte, e allevati alcuni animali. Un’esposizione permanente, nella cantina della cascina, ricorda cosa sono le mafie; la memoria dei residenti è in grado di raccontare agli ospiti chi era Bruno Caccia, come agiva la cosca periferica “La locale”, quante difficoltà ha incontrato la volontà di riutilizzo.
La Sicilia: ‘Libera Terra’ di confisca
In Sicilia, dove il numero complessivo di beni confiscati (oltre 5mila) costituisce poco meno la metà del totale nazionale, in alcuni siti il riutilizzo ha preso la forma dell’agriturismo, che converte in turismo quello che era sfruttamento del terreno, della manodopera, della bellezza del territorio in senso quasi feudale. ‘Libera Terra’ gestisce in due grandi proprietà di Cosa Nostra, nel palermitano, altrettante aziende agrituristiche, che offrono la possibilità di una vacanza col valore aggiunto dell’aiuto alla lotta contro le mafie.
L’agriturismo ‘Portella della Ginestra’, incastonato nella riserva naturale della Serra della Pizzuta, è nato dalla ristrutturazione di un casolare del Settecento, e dispone di tre camere e una cucina che utilizza i vini Centopassi, i prodotti di ‘Libera Terra’ e le materie prime del territorio per proporre piatti come da tradizione o rivisitati.
[Vendemmia ‘Cento Passi’. Fonte immagine: facebook.com/liberaterra]
Nell’entroterra palermitano, a metà strada tra Corleone e la riserva naturale del bosco della Ficuzza, ecco l’agriturismo ‘Terre di Corleone’. Gode di panorami mozzafiato e di contrasti cromatici notevoli, e chi lo gestisce è sempre disponibile a raccontarne la storia. Ricavato da casali in pietra viva confiscati al boss Totò Riina, l’agriturismo dispone di una sala ristorante per oltre 80 persone e di 5 camere, di cui alcune per famiglie, e utilizza in parte ciò che viene coltivato nella tenuta, in parte prodotti di ‘Libera Terra’. Vi si mangiano, ovviamente, solo piatti della tradizione regionale: sfincione palermitano, panelle e caponata col sapore della legalità.
Taralli e vino contro la quarta mafia
È il progetto che faticosamente ma con soddisfazioni già importanti da oltre sette anni porta avanti ‘Terre di Puglia’, cooperativa di tipo b (come previsto dalla legge 109) che con l’aiuto di ‘Libera Terra’ ha rivitalizzato 50 ettari del brindisino confiscati alla Sacra corona unita. Più forti della diffidenza, delle difficoltà burocratiche, dell’incendio che nel 2012 ha distrutto l’appezzamento più grano coltivato a grano (a pochi giorni dalla trebbiatura), gli otto soci della cooperativa hanno già vinto la loro battaglia: eliminare da quelle terre – divise tra i comuni di Mesagne, Torchiarolo e San Pietro Vernotico – il ricordo di una stagione di sangue e mancanza di legalità. Erano gli anni ‘70 quando la penisola salentina fu teatro dello sviluppo di una feroce e cruenta organizzazione criminale, che intendeva imitare la struttura di Cosa Nostra siciliana. Fu debellata, ma qualche traccia negli episodi di criminalità c’è ancora.
[S. Pietro Vernotico (BR). Fonte immagine: facebook.com/liberaterra]
Il progetto di ‘Terre di Puglia’ è stato fin da subito chiaro: ripartire dalla terra, con venti ettari di grano biologico e dieci di vigneto, all’insegna della legalità, della qualità, della sostenibilità. Un primo passo per permettere alla popolazione di riappropriarsi di ciò che in quegli anni di violenza era stato portato via.