Giornale del cibo

Intervista a Leonardo Palmisano: l’inchiesta “Ghetto Italia”

“Il caporalato è ormai strutturale. È un modello di potere che estende la sua rete di ricatto su tutto il territorio italiano”. Nord, centro, sud isole. Non c’è regione che non sia almeno lambita da un fenomeno che ha le stesse modalità delle mafie, agromafie nello specifico, perché ne è uno dei segmenti. Le parole di Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet, autori della recente inchiesta “Ghetto Italia”, ben fotografano la realtà scandagliata dal terzo rapporto “Agromafie e caporalato” di Flai Cgil, presentato dal sindacato qualche giorno fa. Abbiamo chiesto a Palmisano, sociologo ed etnologo pugliese, un commento al dossier.

Leonardo Palmisano su Caporalato, Ghetti e Agromafia

Danno all’agroalimentare di 3 miliardi

Il caporalato in agricoltura non è un fenomeno circoscritto a quattro regioni del sud: è un mercato parallelo, che interessa 430mila lavoratori e produce un danno all’agricoltura tra i 3,3 e i 3,6 miliardi di euro, che si interseca con l’economia non sommersa. Il Giornale del cibo ha raccontato di recente quello che ormai è il pieno coinvolgimento del nord nel fenomeno: ebbene, il terzo rapporto cita fra i casi emblematici uno scovato in Emilia, che si pensa terra di piena legalità. Ma anche di centro, di sud, di situazioni che la politica sta provando ad affrontare di petto col ddl 2217.

caporalato al nord

Oggi “i lavoratori sfruttati, sottopagati, agli ordini dei caporali e delle aziende che a loro si rivolgono – sostiene Ivana Galli, segretaria nazionale Flai – sono un dato non degno di un paese civile e moderno”. Lo stesso pensiero di Palmisano, che con Sagnet (uno dei protagonisti nel 2011 della grande protesta di Nardò) ha percorso l’Italia intera alla ricerca delle voci degli sfruttati. Per uno o più mesi vivono nei campi di pomodori, nelle serre  o nei vigneti, reclutati dai caporali e, a monte, da imprese che non si fanno scrupoli a pagare i lavoratori, perlopiù migranti, in voucher, molti meno delle ore effettivamente lavorate. Di questi “spossessati della dignità”, come li definisce nel libro, di sfruttamento, di voucher e di leggi abbiamo parlato con il coautore.

Leonardo Palmisano, il rapporto va dritto al cuore del problema: anzitutto la mafia e la sua capacità di penetrazione, e in secondo luogo la responsabilità delle aziende, da equiparare o ritenere superiore a quella dei caporali. Penso che le imprese non sane sono tante, e che le associazioni datoriali dovrebbero far pulizia al proprio interno. Il dossier della Cgil va anche a scandagliare il nord, così come nel vostro libro: è un altro passo verso la considerazione del caporalato come di un male dell’Italia intera?

Leonardo Palmisano: Il nord non è più sano del sud, ma è meglio organizzato, più capace di adoperare strumenti come i voucher, per esempio. Il nord ha un tessuto che tira, in qualche modo, anche come caporalato che riesce a legalizzarsi. Meglio che al sud.

Cosa pensa del recente disegno di legge sull’inasprimento delle pene legate al reclutamento?

L.P.: L’inasprimento delle pene se non è accompagnato da un riequilibrio dei rapporti di forza sul mercato del lavoro non basta. Dobbiamo intervenire dove i lavoratori sono più deboli per portarli ad elevare salari e diritti.

Avendo osservato da vicino la realtà degli sfruttati, pensa che la fotografia fatta dalla Cgil inquadri bene la realtà?

L.P.: Penso di sì, il rapporto è completo e traccia un profilo interessante del sistema. Sarebbe utile farlo per altri sistemi come l’edilizia e i servizi di cura alla persona.

Perché sui fenomeni di caporalato e sfruttamento al nord Italia ci sono meno pubblicità e meno attenzione di investigatori e inquirenti rispetto a quelli del sud?

L.P.: Del nord si deve parlar bene, altrimenti in Ue pensano che tutto il sistema italiano è criminale. Eppure le inchieste rivelano che nei sistemi agricoli del nord c’è un fitto sistema di sfruttamento della manodopera, non più sofisticato di quello meridionale. Per questo io chiamo questo sistema Mafia Caporale Nazionale. Tutto si tiene laddove si esporta in grande quantità e si sfrutta la terra ovunque.

Che differenza c’è tra i caporali del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e quelli di Puglia, Campania, Calabria?

L.P.: Le differenze si assottigliano sempre più. Il sud ha ormai un tessuto imprenditoriale invidiabile, quindi anche il sistema dello sfruttamento è più raffinato. In ambo i casi chi ci rimette sono sempre i lavoratori, anche quelli italiani, perché ricattati da un uso improprio di strumenti come i voucher, le agenzie di somministrazione lavoro, la ghettizzazione nei campi. Il dato è drammaticamente diffuso su scala nazionale.

 

Numeri in aumento

Visitando 15 luoghi simbolo, percorrendo migliaia di chilometri, incontrando decine di lavoratori, soprattutto dell’est Europa o africani, Palmisano e Sagnet, che qualche giorno fa hanno ricevuto il premio Livatino, hanno conosciuto da vicino questo mondo parallelo, che non cambia nemmeno dove la realtà è più ricca. Anzi. E’ quel mondo che il rapporto della Flai ha descritto anche coi numeri, elaborati dall’osservatorio Placido Rizzotto: tra i dati si legge che nel mondo ci sono 3 milioni e mezzo di sfruttati in agricoltura, che permettono al sistema criminale di guadagnare 9 miliardi di euro. In Italia gli 80 distretti agricoli in cui il fenomeno è più presente sono più o meno quelli del 2014, mentre il numero di irregolari – e dunque di potenziali vittime – è aumentato di 30mila unità. E poi ci sono i 100mila in condizioni di sfruttamento. Invisibili e inavvicinabili, forse perché sotto ricatto.
Sono aumentate le ispezioni, salite del 59% e capaci di scovare ben 713 situazioni di caporalato: i casi di irregolarità sono oltre la metà (6153,  divisi a metà tra parziali e complete), mentre solo nel 43% delle visite non è stata riscontrata dalle forze dell’ordine alcuna anomalia. Gli sfruttati percepiscono tra i 22 e i 30 euro, lavorano anche 12 ore del giorno, stanno spesso in ghetti senz’acqua e altri servizi essenziali. Tra i pomodori della piana di Gioia Tauro e il ricco vino dell’astigiano ci sono migliaia di chilometri ma nessuna differenza, come raccontato in “Ghetto Italia”. È un male che unisce la penisola.

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