Ho un legame particolare con Il Tino, il ristorante dello chef Lele Usai: è infatti il primo stellato nel quale io abbia mai mangiato, quasi 10 anni fa. Divenuto “famoso” per aver conquistato una stella Michelin in una zona non propriamente vocata alla cucina gourmet – Ostia – Il Tino ha cambiato sede qualche anno fa. Si è trasferito a Fiumicino, in una location davvero suggestiva, e contribuisce a rendere ancor più ricco questo vero e proprio distretto gastronomico che annovera anche i ristoranti Pascucci al Porticciolo, l’Osteria dell’Orologio e altre insegne di rilievo. Usai, da tempo conosciuto per la sua straordinaria cucina di pesce, ha ultimamente portato alla ribalta l’Asta del pesce di Fiumicino, cercando di valorizzare il pesce meno conosciuto, meno acquistato e cucinato non solo dai ristoratori ma anche dai semplici appassionati.
Lele Usai: Il Tino e la voglia di imparare
Una location, due anime. Negli spazi di Fiumicino, Usai ha creato il nuovo Tino, ma anche un secondo ristorante (“non chiamarlo bistrot”, mi dice nel corso dell’intervista), il “Quarantunododici”, dove è possibile gustare piatti preparati con pesce poco conosciuto, che Lele acquista all’asta del pesce, in quella che è oramai diventata una seconda casa per lo chef di Ostia. Lo incontro perché sono incuriosito dalla sua scelta di andare in Francia per uno stage. Sì, uno chef che ha una stella Michelin decide di mettersi in gioco, di tornare a essere uno dei tanti in una brigata importante, quella di Gérald Passédat, che a Marsiglia dal 2008 ha 3 stelle Michelin con il suo Le Petit Nice.
“Vado a Marsiglia, parto il 9, inizio l’11, e ci resto 20 giorni – mi dice – Vado a vedere cosa c’è dietro le magie del Mago di Oz. Lo faccio perché mi è mancata la Francia come esperienza, l’ho capito nel 2006, quando ho aperto il ristorante nel quale mi sono ‘incatenato’ da solo in cucina”. Gli chiedo perché proprio ora e perché Passédat: “Ora ho la possibilità di farlo perché la struttura è solida, i ragazzi sono forti e sono tranquillo, posso assentarmi per un periodo lungo. Passédat è un genio, è sulla mia stessa costa, ha le mie stesse materie prime e voglio leggere nel suo animo, voglio capire cosa ha in testa, qual è il salto tra uno normale come me e un fuoriclasse. Voglio capire che differenza c’è tra dove sono io e il top, non in termini solo tecnici, ma concettuali, voglio capire cosa c’è dietro un piatto”.
“Imparare nuove tecniche può sicuramente essere utile, ma mi preme soprattutto riuscire a cogliere lo spirito creativo”. Per poter andare a fare questo stage Usai ha chiesto raccomandazioni a chiunque, ha contattato colleghi illustri sentendosi quasi sempre dire “sei italiano e stellato, non ti prenderà”. Finite le possibilità, ha deciso di scrivere una mail, quattro semplici righe con le sue motivazioni, ricevendo dallo chef francese una risposta diretta: “ti aspetto”. Ha preso in affitto una casa, una macchina, comprato i biglietti del volo, “verranno con me mia moglie e mio figlio, non potrei trascorrere venti giorni senza loro”.
La brigata
Usai Sente di poter uscire dalla cucina del Tino perché in questi anni le cose sono cambiate, in primis la sua brigata: “A Ostia eravamo 3 cuochi e un lavapiatti, qui siamo 10 con 3 sous chef che sono qui da 8 anni, inoltre sono rientrati alcuni collaboratori storici; li faccio ruotare tra i 2 ristoranti”.
La materia prima è la stessa per entrambi i locali, i ragazzi si alternano di 2 settimane in 2 settimane, lavorando prevalentemente il pesce dell’asta. “Sono molto bravi e prima o poi andranno via, Gabriele e Claudio sono entrati a 16 anni, ora ne hanno 24, sanno gestire costi e acquisti, sono chef e piccoli manager. Alcune volte magari sbaglio io gli acquisti, perché perdo un po’ la mano e loro mi riprendono; sono molto giovani e hanno bisogno di sentire sempre la mia presenza, ma per 20 giorni posso assentarmi senza problemi”.
Gli inizi di Lele Usai
“Studiavo ragioneria, sono di Ostia, ho fatto il cameriere a 15 anni ma sono subito entrato in cucina, dopo pochi giorni di lavoro. Dopo gli studi sono andato a Londra, ho scelto il miglior ristorante italiano, ho mandato il curriculum e mi hanno preso”. Una prima fase durata poco più di un anno, poi il ritorno nel 2003 per un altro anno, scegliendo sempre e solo esperienze di un certo tipo, senza badare ai compensi. “Da bambino non immagino di fare il cuoco, scelsi ragioneria solo perché offriva più possibilità di impiego, ma ho capito subito che la cucina poteva essere il mio ambito. Dopo lo stage tornerò per stravolgere tutto, spero di tornare con nuove cartucce da sparare, voglio tener viva una fiamma mai spenta, che ha bisogno di carburante, non voglio più accontentarmi”. Lele mi dice di non farlo per conseguire nuovi riconoscimenti, ma per alimentare la sua creatività, anche perché “ho ricevuto la prima stella senza preavviso, semplicemente perché lavoravo tanto e bene. La Michelin a mio avviso è l’unica guida che funziona dal punto di vista di chi la legge. Le altre guide sono pagelle per ristoratori che non mi interessano”.
L’Asta del pesce di Fiumicino
“Ho iniziato una battaglia per difendere i pesci che non si trovano al banco, perché c’è poca conoscenza, ci siamo chiusi in alcuni schemi. Se chiedi a una signora che fa la spesa da 50 anni quali sono i pesci di questa zona ti parlerà di rombo, spigola e orata, ma non è vero, questi sono i pesci che vengono proposti dalle pescherie”. Quando chiedo a Lele di parlarmi dell’asta del pesce di Fiumicino capisco subito dalla prima affermazione e dal tono della sua voce quanto abbia a cuore l’argomento. “All’asta del pesce di Fiumicino trovo di tutto: le pescherie comprano solo e sempre gli stessi tipi di pesce, da 40 anni, li stavo esaurendo, i prezzi sono arrivati alle stelle, la casalinga cerca la sogliola e non prende la spatola perché non la conosce”. Mi racconta quanto il mare abbia la capacità di sorprendere continuamente anche chi come lui fa il cuoco da 26 anni in una zona marittima. Gli chiedo di spiegarmi come funziona l’asta, per capire le regole del gioco: “le barche escono di notte, rientrano il giorno dopo alle 15; alle 16 c’è l’asta, io vado lì dopo il servizio del pranzo e vedo cosa posso trovare. Mi sistemo nella piccola tribuna con il mio telecomando, e a quel punto entrano le cassette con il pesce su un rullo; quando una cassetta giunge al centro del rullo, viene pesata e sul tabellone compaiono le informazioni, il tipo di pesce, chi lo ha pescato e il prezzo di partenza; si avanza con rilanci da 50 centesimi. Sono presenti solo pescherie, circa 40-50, e io, unico ristoratore, non sono ben visto, perché ho margini d’acquisto differenti”.
La cultura del pesce
“Partecipando all’asta posso ridurre i miei costi a beneficio dell’ospite. Compro bene, inoltre il prodotto che prendo è pescato da un’ora appena, mentre lo portano ai ristoranti di Roma il giorno dopo, 24 ore dopo la pesca. Quando torno dall’asta lavoriamo tutto ciò che ho comprato, lo porzioniamo e lo abbattiamo per conservarlo”. L’asta è un vero e proprio microcosmo da scoprire, e per farlo nel modo giusto Lele Usai è sempre accanto a Domenico Faiola, titolare di una famosa pescheria e grande conoscitore dei prodotti ittici. “Domenico mi spiega sempre come muovermi: ho margini diversi di prezzo rispetto alle pescherie, e non sono ben visto perché sto promuovendo altri tipi di pesce rispetto a quelli sempre disponibili”. Usai mi racconta che le vongole che chiamiamo veraci sono state importate negli anni 70 dalla Thailandia, a dimostrazione delle errate convinzioni sui prodotti del mare.
Lele vorrebbe far qualcosa con gli altri ristoratori per promuovere i pesci meno conosciuti, perché a suo avviso l’iniziativa consentirebbe anche una maggiore sostenibilità. “20 barche trovano solo 3 rombi e li battono all’asta a 40 euro al chilo. Se noi chef uniamo le nostre voci per promuovere materie prime inedite e poco conosciute, che consentano di abbattere i prezzi e di promuovere una pesca più sostenibile, non è meglio? -, mi chiede, aggiungendo – voglio lavorare ciò che offre veramente il mio mare, quello che conosco. Non ho materie prime di altri mari o importate, mi concedo solo la licenza delle ostriche che amo particolarmente”.
Lele mi parla di un menù basato sulle materie prime disponibili, ma studiato per poter far fronte anche all’imprevedibilità del mare: “ho strutturato il menù plasmandolo in maniera completa sull’asta, ma al tempo stesso con la possibilità di poter ingredienti eventualmente non disponibili”. E chiude la nostra chiacchierata con un aneddoto, legato all’importanza della conoscenza: “Le vere orate sono quasi finite, sono rare, e costano davvero tanto all’asta. L’altro giorno passavano cassette a 5 euro, non al solito prezzo di 25-30 euro, ed ero pronto a comprarle, ma Domenico (Faiola) mi ha dato uno schiaffo sulla mano dicendomi di non prenderle, perché era evidente fossero di allevamento. Sapeva che a causa di una mareggiata le orate erano uscite dalle reti a Orbetello, dove vengono allevate, ed erano giunte nella nostra zona”.
Parlare con Lele Usai mi ha fatto capire la natura e l’origine del suo progetto “culturale”: appartenere così tanto al proprio territorio da divenire portavoce delle sue reali caratteristiche gastronomiche, dei suoi prodotti autentici, dei suoi sapori unici, per provare a fare cultura del cibo. Avete mai assaggiato i piatti dello chef?