Site icon Giornale del cibo

L’arte di decidere il Menu

l-arte-di-decidere-il-menu

Non basta cucinare bene. Occorre anche sapere accostare i piatti con criterio, usare ingredienti sani e dimostrarsi corretti verso l’ambiente

di Martino Ragusa.

La mia casa è meta di un delizioso viavai di amici, tutti dotati di un appetito formidabile. In compenso, sono ben pochi quelli che mi invitano a mangiare a casa loro. Temono il mio giudizio e fanno male. Perché il piacere di stare insieme smorza sempre le mie intemperanze critiche. E poi non entro mai a casa della gente con le aspettative di chi mette piede in un ristorante stellato. I miei amici temono anche che scriva di quanto abbia mangiato male a casa loro, e in questo caso fanno bene. Purtroppo, chi scrive per mestiere non esita mai a sfruttare a fini professionali quello che gli succede nella vita. La colpa è della voglia di raccontare, che da una parte aguzza la memoria e dall’altra è un vero e proprio fiore di loto che fa dimenticare discrezione e lealtà. Ma è colpa nostra se la realtà è sempre più incredibile e affascinante dell’invenzione? Desidero comunque tranquillizzare quei pochi che intendono ancora farmi sedere alla loro tavola: mi asterrò sempre da qualsiasi riferimento alla vostra identità nel caso mi abbiate sottoposto a un pasto di sofferenze. Amici miei, vi giuro che sarete gli unici a riconoscervi. Lasciatemi scrivere dei vostri errori, nessuno saprà chi siete e io potrò rimediare al peccato di menzogna che sempre commetto quando mi chiedete “Com’è?” E vi rispondo sempre “Ottimo!”.

E veniamo a uno dei pranzi più irritanti che mi sia stato proposto recentemente a casa di nuovi, e da questo momento forse già perduti, amici. Irritante non cattivo. Perché prese una alla volta le portate erano buone, ma è bastata la loro errata sequenza e gli accostamenti sbagliati fra un piatto e l’altro per rovinarlo senza rimedio.
Sapete cos’era l’antipasto? Reggetevi forte: “harengs à la russe”, cioè aringhe affumicate su un letto di patate lessate e tiepide condite con olio, aceto e cerchi di cipolla cruda. Un piatto eccellente se mangiato da solo o come secondo, ma improponibile come antipasto. Con il suo gusto potente di salato e affumicato, l’aringa sarebbe capace di stordire per dodici ore anche le papille gustative di acciaio di Superman. “Ma cosa mi daranno di primo?” – pensavo mandando giù le aringhe – “per sentire un sapore a questo punto la scelta è ridotta al minimo: o ci sarà un gulasch atomico o passeranno direttamente a un falò”.

Invece arrivò un innocente, candido risotto agli scampi, saporito (dopo le aringhe) quanto un bicchiere di acqua minerale senza gas. Anzi no, sapeva di qualcosa. Di budino di riso al latte senza zucchero e cucinato in un tegame sporco di pesce. I misfatti continuarono con delicatissime sogliole alla mugnaia (cioè semplicemente saltate al burro) aggredite da piccoli quanto prepotenti cavoletti di Bruxelles per nulla ammansiti da una timida copertura di bechamèl. Un alcolicissimo sorbetto al limone e vodka cercò, senza riuscirci, di farmi dimenticare quella cena. Un vero peccato. Perché a parte il sorbetto che avrebbe steso un cosacco, quei piatti non dovevano essere male se accostati in altro ordine e con altri contorni. Guardando la padrona di casa, poi, la mia rabbia cresceva. Era molto elegante e la sapienza con cui aveva accostato i colori dei suoi vestiti mi irritava. “Perché i colori sì e i sapori no?”, mi chiedevo. “Chissà quanta cura ci ha messo ad abbinare il vestito con i gioielli e la cintura alle scarpe e guarda invece come ha raffazzonato i piatti fra loro”.

Accostare i sapori è un’operazione importantissima, fondamentale e generalmente trascurata. Tranne che non sia “unico”, un piatto non è un mai brano a se stante, ma un movimento di quell’unica e armoniosa composizione che deve essere un pranzo. E ve la immaginate La Nona di Beethoven che inizia con l’Inno alla Gioiae finisce con un adagetto di flauto? Per i sapori è la stessa cosa. Devono essere sempre delicati all’inizio e rafforzarsi man mano che ci si avvia al finale, rispettando quanto più possibile la regola del crescendo di sapidità.
Il criterio della sapidità crescente è forse il più importante nella progettazione di un pranzo, ma non è certamente l’unico. Vediamone insieme qualcun altro. In fondo basta veramente poco per dare a un pranzo una sua precisa fisionomia. Pochi accorgimenti che non costano niente, se non un minimo di riflessione, e un mucchio di mattoni si trasformano in un’architettura armonica e pensata.

Ogni piatto evoca qualcosa, un luogo, un clima, un’occasione conviviale, un’epoca. Se, per esempio, dico “fagioli con le cotiche” difficilmente vi verrà in mente un pranzo all’ambasciata, come è altrettanto improbabile che un soufflé vi faccia pensare alla trattoria fuori porta. Non sarebbe male che le portate contribuissero a costruire la medesima atmosfera, un messaggio coerente all’occasione e a ciò che vogliamo trasmettere ai nostri ospiti al là del semplice cibo, lungo un itinerario logico, senza sbalzi improvvisi e sterzate da mal di mare. Se decidete per la cucina povera, povera sia dall’inizio alla fine. Niente zuppa di ceci preceduta da caviale iraniano e seguita da anatra all’arancia. L’antipasto ideale in questo caso sarà una bella bruschetta con l’olio strepitoso che tutti siamo sicuri di avere trovato. Alla zuppa di fagioli faremo seguire un secondo di pesci poveri (sarde, palombo, sgombri, cefali, baccalà) o di carni di seconda scelta, quelle del cosiddetto “quinto quarto” (frattaglie, spuntature, stinchi, eccetera), magari, se la zuppa era impegnativa, cucinate con la ricetta più leggera che abbiamo trovato. Se invece il primo era un minestrone magro di verdure, possiamo sfogarci con gli stinchi al forno e le patate arrosto. La stessa regola vale se si decide di optare per la cucina classica: un consommé o una vellutata di asparagi gradiranno la compagnia di un filetto o di un filetto di spigola gratinato, ma rimarranno sconvolti se si vedranno mescolate alla trippa.

Ma arriviamo all’accostamento che più mi sta a cuore e la cui trasgressione considero più blasfema, quello tra ciò che c’è nel piatto e il tempo che fa fuori dalla finestra. Purtroppo la reperibilità non-stop per tutto l’anno di qualsiasi ortaggio e frutta ha distrutto la stagionalità dei pranzi. Questa sì che per me è una vera sofferenza. Mi basta solo sentire parlare di trenette al pesto in dicembre per desiderare immediatamente una bella polenta con il formaggio fuso, così come un contorno di spinaci al burro in piena estate mi fa venire l’irrefrenabile voglia di un’insalata di pomodori maturati al sole di agosto. In una stagione ricca come questa, poi, l’ideale sarebbe pensare tutto un pranzo proprio per valorizzare le tante verdure che in questo momento madre natura ci tira dietro al minimo del prezzo e al massimo del sapore.

Quello della stagionalità non è l’unico criterio che vi farà fare bella figura. Se possedete un piccolo orto, anche urbano sul terrazzo di casa, i vostri ospiti saranno incantati dall’assaggiare i suoi frutti. Basterà poco, come una semplice  insalatina, a suscitare l’interesse e l’approvazione di tutti. Lo stesso accadrà se proporrete il pane fatto in casa con le vostre mani e le uova delle galline del vostro eventuale pollaio o di quello dei contadini  dai quale vi servite. Sarà apprezzata anche la ridotta presenza della carne, fortemente impattante sull’ambiente e l’assenza di pesci di taglia troppo piccola (quasi tutti illegali). Le bibite gassate con tante bollicine dovrebbero essere bandite, come l’orribile bottiglia di plastica inquinante con dentro l’acqua minerale.
Basta una brocca a fare la differenza!

L’immagine dello spartito musicale è dell’utente Flickr GaAs

Exit mobile version