di Martino RagusaPer dire che un piatto è buono, spesso in Toscana si dice “gli è semplice” e io ringrazio il cielo di avere capito la grande saggezza contenuta in questa espressione.Nella lingua della cucina, semplice vuol dire anzitutto eccellenza delle materie prime, dell’olio di oliva, della carne, delle verdure, degli ortaggi. Se il prodotto di base è veramente buono, la preparazione deve limitarsi a esaltare la naturalità dei sapori. Una bistecca di Chianina allevata al pascolo e risparmiata dai mangimi, non ha altro bisogno che di un letto di brace di legna, punto e basta. Senza neanche quel filo di olio che potrebbe dar fuoco alle braci e contaminare la carne con l’odore di fumo. Certo, la bistecca deve essere del giusto peso e il barbecue preparato a regola d’arte. Ma di condimento neanche a parlarne, se si prescinde dalla spolverata finale dell’indispensabile sale.E persino del sale i toscani riescono a fare a meno quando possono. Basta pensare al pane, celebre in tutto il mondo sia per la bontà che per l’insipidezza. “Quanto sa di sale lo pane altrui”, gemeva Dante. E sicuramente, come insegnano a scuola, intendeva dire che è difficile accettare l’ospitalità nel ruolo di esule. Nessuno però mi toglie dalla testa che, salace come tutti i toscani, il Sommo esprimesse umoristicamente in quel verso anche la nostalgia per il suo pane insipido di Firenze. Il discorso del pane in Toscana è complesso ed esige una digressione che parte dalla pasta che i toscani non amano particolarmente. Non l’hanno mai amata e non possiedono formati e preparazioni tradizionali. Fanno eccezione i pici senesi, o pinci, a forma di spaghetti grossi e corti da condire con pane raffermo sbriciolato e tostato o con un intingolo a base di pomodoro e rigatino, un tipo di pancetta locale. L’altro piatto di pasta tradizionale – e l’assortimento finisce qui – sono le pappardelle, le ben note larghe tagliatelle di farina e uovo che i toscani mangiano molto volentieri “sulla lepre”, e cioè con un intingolo ottenuto da uno stracotto di lepre, o di coniglio in mancanza di questa, oppure sui funghi. Altro discorso quello delle terre di confine come la Liguria, l’Emilia, la Romagna e l’Umbria. Qui la pasta c’è, ma fa parte della cultura di scambio tipica di queste zone. Tornando al pane, in assenza di pasta è proprio lui il vero protagonista dei primi piatti toscani. L’acquacotta è una zuppa tipica maremmana ma diffusa in tutta la regione. I suoi ingredienti sono il pane, l’uovo e le verdure, che variano di paese in paese. Il pane è inoltre protagonista della briciolata pistoiese, una zuppa di brodo, ricotta sbriciolata e pane, e della ribollita, una zuppa di pane e verdure miste con predominanza di fagioli e cavolo nero. Il nome deriva dal fatto che la zuppa veniva preparata in grande quantità, per più giorni, e fatta ribollire con l’aggiunta di altro pane. Infine, come non ricordare la pappa col pomodoro? Sì, proprio quella di Gian Burrasca, una zuppa di pane e un sugo rustico di pomodoro, basilico e aglio. Ma i primi di pane non si limitano alle sole zuppe. Le fette di buon toscano riescono ad aprire un pranzo anche nella versione del piatto asciutto grazie ad alcune varianti più sostanziose della bruschetta. Come la fett’unta (o panunta), una fetta di pane abbrustolito condita con cavolo nero lessato oppure con i fagioli cannellini cotti nel fiasco. Inutile aggiungere che su ognuna di queste delizie non mancherà mai l’olio toscano, l’altro protagonista assoluto della cucina toscana. Dei secondi di carne abbiamo già accennato e capito che in questa terra la precedenza assoluta ce l’hanno le carni rosse di bestiame di razza Chianina e Maremmana preferibilmente consumate nel taglio della famosa costata. Ma non solo di carni rosse sono ghiotti i toscani. La cinta senese è un suino pregiatissimo e antichissimo, base di molti piatti e di eccellenti salumi. Ricercato e apprezzatissimo è anche il cinghiale. Viene ancora preparato in dolceforte, eredità medicea, con uvetta, aceto, cedro candito, cioccolato, garofano e altre spezie, una vera e propria contraddizione con la semplicità imperante in questa regione.Non a caso, l’alternativa più frequente è la ricetta della salsiccia di cinghiale con i fagioli. La cucina toscana nel corso dei secoli ha volentieri smarrito le complesse elaborazioni della tavola rinascimentale. L’unico esempio dei fasti medicei che sia arrivato ai giorni nostri è proprio il cinghiale in dolceforte, quasi i toscani avessero scelto un testimone, ma uno solo, di un’epoca raffinata, ricca e carica di una leziosità assolutamente estranea al loro spirito. Più consona al loro carattere, invece, è la semplice cottura allo spiedo e quella alla brace. L’altra grande specialità, oltre la bistecca, è il notissimo pollo alla diavola, reso unico da una grande scienza nello scegliere e dosare le erbe aromatiche.Ma dove i toscani raggiungono vette inarrivabili è nel fritto. Pochi sanno friggere come i toscani. A parte che friggono di tutto, “fritta gli è bbona anche una ciabatta”, recita una saggia locuzione, la vera eccellenza è data dalla leggerezza del fritto e da quanto l’alimento riesca a mantenere la fragranza del suo sapore originario. Ancora una volta il segreto è semplice: una grande maestria e soprattutto un grande olio extra-vergine di oliva.La cucina di pesce è soprattutto quella livornese, di forte influenza ebraica. Anch’essa vanta piatti di grande fortuna, basta citare le triglie alla livornese, con aglio, prezzemolo e pomodoro; il baccalà, cucinato allo stesso modo, e soprattutto il cacciucco, la zuppa che pretende tante qualità di pesce quante sono le c contenute nel suo nome, e cioè cinque: scorfano rosso, capone, grongo, gattuccio, seppie. Queste le qualità canoniche per il cacciucco livornese. Come al solito, i canoni cambiano nei cacciucchi delle altre località costiere della Versilia, la bontà rimane.Sempre obbediente all’imperativo della semplicità, il pranzo toscano si conclude con dolci sobri e strettamente imparentati col modesto pane. I bolli livornesi sono panini dolci con uova, acqua di fiori d’arancio, zucchero e anice. Il castagnaccio è fatto con farina di castagne, uvetta, pinoli e (proprio così!) rosmarino, talmente sobrio da sfiorare la rusticità. Grazie all’attivismo industriale, hanno raggiunto una grande notorietà il panforte e i ricciarelli di Siena. Questi potete gustarli anche a casa vostra, quando andrete in Toscana cercate piuttosto gli umili melatelli, fatti con l’acqua di lavaggio degli alveari, farina e uova, oppure la schiacciata con l’uva, fresca oppure appassita, un pane dolce antichissimo che vi insegnerà quale sia il sapore della tradizione. La foto del pane toscano è tratta da Wikimedia Commons.