Giornale del cibo

Dan Barber: un cuoco-esploratore nella Cucina della buona terra

Il suo ristorante è stato definito dalla critica gastronomica un perfetto esempio di gestione “dalla fattoria alla cucina”. Ma la straordinaria visione di Dan Barber, chef pluripremiato e co-proprietario del Blue Hill di Manhattan e della sua estensione extraurbana (il Blue Hill at Stone Barns, qualche chilometro a nord di New York) va ben oltre il modello farm-to-table così in voga oggi in America dopo anni di predominio dei fast-food.

 

L’egemonia dell’alimentazione proteinocentrica

Dan B Portrait

Secondo Barber la storia della cucina americana e la sua evoluzione futura possono essere paragonate ad un menù a tre piatti. Nel primo piatto, che rappresenta la tipica cena americana della seconda metà del XX secolo, troviamo una bistecca di due etti di manzo nutrito a mais con un piccolo contorno di carote mignon al vapore.

Nel secondo piatto, che descrive metaforicamente il modo in cui gli americani mangiano oggi, seguendo l’ideale della cucina farm-to-table, troviamo ancora una bistecca di manzo, ma questa volta nutrito ad erba, e delle carotine di un’antica varietà locale coltivata con tecniche biologiche.

Un bel salto di qualità, non c’è dubbio, ma in entrambi i casi l’alimentazione rimane sostanzialmente proteinocentrica.

 

Il terzo piatto: verso un’alimentazione sostenibile

Barber introduce allora il concetto di terzo piatto per raccontare un modo diverso di procurarsi gli ingredienti, di cucinare, di scrivere un menu, abbinando alimenti animali e vegetali in modo da sostenere l’ambiente che li ha prodotti. Nel terzo piatto, il Third Plate, che è anche il titolo originale del suo libro La cucina della buona terra (Bollati Boringhieri Editore, 2015), gli ingredienti sono gli stessi, ma con le proporzioni invertite: ci sarà al centro una bistecca di carota contornata da una salsa di brasato di manzo fatta con tagli di carne di seconda scelta. Solo così, con tutte le implicazioni che questa inversione di proporzioni comporta, ci avvieremo verso una vera rivoluzione del modo di produrre e mangiare cibo.

Perché per seguire una dieta sostenibile – dice Barber – non basta scegliere con cura gli ingredienti. Le connessioni degli anelli della catena alimentare, dal campo coltivato al piatto che mangiamo, sono intrecciati tra loro non in modo lineare, da un’estremità all’altra, ma in un modo più complesso, più simile allo schema dei cerchi olimpici. Seguendo quest’ottica, sarà più facile capire che il tipo giusto di cucina e il tipo giusto di agricoltura sono in realtà la stessa cosa.

 

L’agricoltura biologica non basta

E non basta nemmeno più l’agricoltura biologica, se per agricoltura biologica intendiamo solo un insieme di norme. Servono prospettive più ampie e una visione del mondo in cui ogni cosa è collegata ad un’altra. Molto dipende allora dall’atteggiamento del singolo agricoltore e dalla sua predisposizione a coltivare la natura, incoraggiala a crescere, imparare ad esercitare meno controllo, a osservare e interpretare la natura prima che a modificarla, smettere di ragionare in termini di singole colture, perché le monocolture, definite da Michael Pollan “il peccato originale dell’agricoltura” (Il dilemma dell’onnivoro), impoveriscono tutti i meravigliosi ecosistemi della vita e spopolano il paesaggio.

 

Lo chef “sul campo”

L’azienda agricola annessa al ristorante Blue Hill at Stone Barns adotta pratiche di colture miste e tecniche biologiche innovative che hanno fatto rivivere la terra e rifiorire la produzione. I piatti proposti da Barber nei suoi due ristoranti si basano in gran parte su prodotti coltivati o allevati in questa fattoria, che è il cuore dello Stone Barns Center for Food and Agriculture, un centro multifunzionale che si occupa anche di educazione alimentare.

 

La ‘follia’ delle pannocchie mignon

La vicinanza con gli agricoltori dello Stone Barns ha permesso a Barber di mettere in discussione le proprie convinzioni di chef insegnandogli che la bontà di un prodotto è legata all’intero sistema agricolo. Convincendolo, ad esempio, a eliminare dal menù le minuscole pannocchie di mais non ancora maturo, lunghe appena qualche centimetro e che vanno mangiate intere, di cui Barber si riforniva da un coltivatore locale. Le pannocchie mignon erano ottime, ma, come gli fece notare il responsabile delle colture dello Stone Barns, il granturco è una piantagione molto dispendiosa per la natura, ha bisogno di grandi quantità di azoto e di un’estesa superficie di terreno. Raccoglierlo prima della maturazione è una follia dal punto di vista dei consumi, della natura, di qualsiasi logica.

 

La polenta dei nativi americani arriva per posta

L’entusiasmo dell’esperto agricoltore si rivolse piuttosto verso una pannocchia secca e avvizzita che un collezionista di semi rari inviò a Barber per posta. Si trattava di un’antica varietà di mais chiamata Eight Row Flint, selezionata con cura da generazioni e generazioni di nativi americani per il suo sapore caratteristico. Scomparve dalle terre del New England a causa di alcune annate sfortunate, non prima però di diffondersi in luoghi lontani, come l’Italia meridionale, per poi esaurirsi definitivamente.

 

La strategia “delle tre sorelle”

Il mais arrivato per posta discendeva proprio dalla linea italiana e fu seminato allo Stone Barns alla maniera degli irochesi, ovvero insieme a zucche e fagioli, seguendo una strategia chiamata “delle tre sorelle”. Il metodo, opposto alla logica delle monocolture, prevede la semina sullo stesso terreno di specie in grado di aiutarsi a vicenda: lo stelo del granturco costituisce un supporto per i fagioli; i fagioli forniscono azoto al terreno; le zucche, tutto attorno, tengono lontane le erbacce. Fu un’occasione, per lo Stone Barns, di reintrodurre una varietà locale che rendeva omaggio ai nativi americani e, per lo chef Barber, di ottenere un mais da polenta dal sapore inconfondibile, che nessun altro ristorante avrebbe avuto sul menù. Semplice e geniale, no? Sa di saggezza antica e di rispetto per la natura.

 

Il menù del futuro sarà scritto dagli agricoltori?

Ma Barber non si è accontentato di rappresentare un eccellente esempio di gestione gastronomica a km zero. Per procurarsi i prodotti migliori ha viaggiato il lungo e in largo sulle tracce di sapori rari e speciali, entrando in contatto con persone, storie, esperienze che lo hanno indotto a rivedere non solo gli ingredienti dei suoi piatti, ma anche la definizione stessa di menù.

 

Klaas Martens e il suo suolo brulicante di vita

Nella fattoria di Klaas Martens, un agricoltore della zona dei Finger Lakes, Barber ha imparato ha guardare sotto la superficie. Secondo Martens il suolo deve poter provvedere a se stesso grazie a sapienti strategie di rotazione e convivenza delle colture: le radici vive diventano radici morte, le radici morte sono nutrimento per i microrganismi, quello che avanza diventa humus che nutre l’erba nuova. Con l’agricoltura come la intendiamo oggi, invece, noi estraiamo e alla fine mangiamo la fertilità del suolo senza restituirla. Se la fertilità non viene ripristinata il suolo comincia a soffrire e ad esaurire la riserva che ha accumulato per il lungo periodo. È indispensabile che il terreno brulichi di vita, nutrendo una comunità di organismi complessa e rigogliosa che va dai microbi ai lombrichi, esseri viventi la cui incessante attività determina la salute e la ricchezza della terra e, di conseguenza, la sua capacità di restituire gli elementi sotto forma di buon cibo.

 

Come si dice foie gras in spagnolo?

Nel 2006 il foie gras (letteralmente “fegato grasso”) di Edouardo Sousa vinse il premio Coup de Coeur per l’innovazione al Salon International de l’Alimentation di Parigi (SIAL). Sousa era il primo produttore di foie gras non francese nella storia del concorso. Era anche il primo in assoluto a produrre la ricercata prelibatezza senza sottoporre le sue oche a ingrassamento forzato secondo la diffusa (e crudele) tecnica del gavage (alimentare le oche infilando loro un tubo in gola), ma lasciandole libere di scorrazzare per i prati in cerca delle erbe migliori e delle ghiande di cui è ricca l’Estremadura, la regione al sud della Spagna famosa soprattutto per il jamón ibérico. Ma – lo sanno tutti – è impossibile ottenere un fegato naturalmente grasso, lasciando semplicemente i volatili seguire i propri istinti stagionali! Contro ogni sua previsione, Barber mangiò, nella tenuta di Sousa, il foie gras più buono che avesse mai assaggiato.

 

Storie, racconti, aneddoti: una lettura piacevole e divertente

La cucina della buona terra è pieno di storie come queste. Attraverso un racconto piacevole e divertente, ricco di citazioni, riferimenti storici e spassosi aneddoti autobiografici, Barber ci obbliga, con leggerezza, a capovolgere le nostre convinzioni e a guardare a quello che mangiamo e al mondo intorno a noi con occhi nuovi. In un periodo di “gastromaniaci”cuochi superstar, semidei della cucina, guru incontrastati di nuove tendenze culinarie, è confortante trovare uno chef di successo che ha saputo mettersi in discussione, imparando da chi il cibo lo crea ‘dal nulla’.

Perché un bravo chef – in conclusione – deve interpretare ciò che i migliori agricoltori, i migliori allevatori e i migliori pescatori riescono a ottenere dalla terra e dal mare. E un buon ristorante, oltre che per lo chef, dovrebbe essere rinomato anche per i produttori dai quali si rifornisce. Barber è convinto che, per far sì che diventi un’ode alla sostenibilità, il menù del futuro non potrà che essere firmato anche da tutti loro.

 

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