Torniamo a parlare di Italian sounding, al centro del settimo forum Food and Beverage di Bormio della Fondazione Ambrosetti.
Un fenomeno che continua a essere un problema di primo piano per i prodotti tipici italiani, che dall’utilizzo improprio e fraudolento di nomi e immagini che richiamano l’Italia sono danneggiati in modo assai rilevante. Qual è la situazione attuale e cosa fare per difendere efficacemente le produzioni nazionali? Vediamo cosa è emerso dalla ricerca presentata in occasione del meeting bormiese e cosa potrà riservare il prossimo futuro in merito a questa sfida centrale per il Made in Italy.
Italian sounding: quando il brand “Italia” è sfruttato in modo ingannevole
Di Italian sounding si parla ormai da oltre un decennio, per definire la pratica di imitare prodotti agroalimentari italiani sfruttando impropriamente nomi e immagini che richiamano l’Italia, traendone vantaggio nella commercializzazione. Evocare le nostre eccellenze, per quanto si tratti di falsificazioni, porta infatti ad aumentare i volumi di vendita e di conseguenza anche i prezzi. Questo fenomeno interessa molte delle più note specialità nazionali, come il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano, la mozzarella di bufala, il Prosecco, i prosciutti crudi di Parma e San Daniele, il pecorino o il gorgonzola. Nel mercato internazionale, le storpiature di queste denominazioni si sprecano, con nomi di fantasia più o meno maldestri, ma che bastano per trarre in inganno molti consumatori nel mondo.
Questo fenomeno è stato discusso e indagato durante il settimo forum Food and Beverage di Bormio, analizzandone le dimensioni e ipotizzando le contromosse per combatterlo, alla luce di quanto reso noto dal rapporto “Italian sounding: quanto vale e come trasformarlo in export made in Italy”, realizzato da The European House – Ambrosetti e ISMEA. Secondo le stime presentate, se l’Italian sounding si potesse cancellare dal mercato – perlomeno quello detto “raggiungibile”, ovvero la parte che effettivamente dipende dall’inganno dei consumatori al momento dell’acquisto – l’export agroalimentare italiano potrebbe raddoppiare, da un valore di quasi 59 miliardi di euro a circa 119. Globalmente, nell’arco del 2022, questo problema è stato quantificato in 91 miliardi di euro, di cui 60 dovuti direttamente al raggiro di consumatori stranieri realmente interessati a comprare cibi Made in Italy. Per Coldiretti, invece, nel mondo il fenomeno ha già raggiunto i 120 miliardi di valore, con una crescita costante negli ultimi dieci anni.
Come ha affermato Benedetta Brioschi, Associate Partner e Responsabile Food&Retail The European House – Ambrosetti, “l’obiettivo del rapporto è dare una direzione per un percorso di investimenti tra pubblico e privato, che permetta alle nostre imprese di soddisfare la voglia di ‘Made in Italy’ nel mondo e riconquistare quei 60 miliardi di euro spesi oggi dai consumatori esteri che credono di acquistare prodotti italiani, quando invece sono soltanto imitazioni con nomi originali o simili alle nostre eccellenze agroalimentari. Il fenomeno dell’Italian sounding deve essere interpretato perciò come obiettivo di portare fatturato aggiuntivo alla filiera agroalimentare italiana, con il potenziale di far raddoppiare il nostro export”.
L’Italian sounding pesa sulla competizione internazionale dell’agroalimentare
Come evidenziato dal rapporto di The European House – Ambrosetti, il 2022 ha sancito una crescita del 15,3% delle esportazioni agroalimentari italiane, l’espansione più ampia dal 2000. L’Italia oggi primeggia nel mercato di polpe e pelati di pomodoro (76,7% sul totale dell’export mondiale), pasta (48,4%), castagne sgusciate (32,6%), di passate e concentrati di pomodoro (24,2% del mercato) ed è al secondo posto per vino, formaggi freschi, kiwi, liquori, mele e nocciole. Tuttavia, colpisce lo scarto se si guarda al valore cumulato dell’export agroalimentare, perché nel 2022, con 58,8 miliardi, l’Italia si attesta solo al quinto posto in Europa. Le esportazioni tedesche superano quelle italiane di quasi 25 miliardi, mentre quelle francesi prevalgono di 20. Il nostro agroalimentare, inoltre, vale il 9,4% dell’export totale, mentre per la Francia si sale al 13,5% e per la Spagna al 17%.
Come ha puntualizzato Brioschi, “un fattore che limita la presenza internazionale dei prodotti alimentari italiani è la frammentazione del settore, composto per l’85,4% da piccole imprese che contribuiscono soltanto al 14,6% dei ricavi del settore. Sulla competitività delle esportazioni Made in Italy autentiche agisce però con forza anche l’Italian sounding che deve essere contrastato con decisione”. Nel computo dell’export agroalimentare, quindi, questo fenomeno danneggia molto le produzioni italiane anche nella competizione commerciale rispetto alle altre realtà europee, anche per la specificità della struttura economica del nostro Paese, più caratterizzata dalla presenza di piccole e medie imprese rispetto ad altre nazioni europee.
Italian sounding: come recuperare le vendite?
Dopo aver valutato le dimensioni e la specificità dell’Italian sounding, ci si chiede in che modo far rientrare nel conteggio dell’export nazionale i 60 miliardi sopra citati, una sorta di “maltolto” che danneggia l’intera filiera. Il rapporto presentato al forum di Bormio ha ipotizzato tre scenari per raggiungere questo obiettivo. Secondo le analisi elaborate, raddoppiando il tasso di crescita degli investimenti nel settore rispetto a quello attuale sarebbero necessari 27 anni per trasformare l’Italian sounding in export e fatturato per le produzioni italiane. Invece, si scenderebbe a 15 anni scegliendo di raddoppiare insieme al tasso crescita degli investimenti anche la loro produttività, con strategie di innovazione e digitalizzazione.
Il terzo e più fruttuoso scenario si distingue in positivo per l’aggiunta dei fondi del PNRR al raddoppio del tasso di crescita di investimenti e produttività già mostrati nel quadro precedente. Entro 11 anni, questa pianificazione permetterebbe di raggiungere l’obiettivo, ovvero di convertire quei 60 miliardi perduti in esportazioni effettive per l’Italia. Benedetta Brioschi ha precisato che è stato realizzato “un vero e proprio manifesto per contrastare l’Italian sounding, con azioni concrete finalizzate a consolidare il ruolo dell’Italia come Paese di riferimento nello sviluppo delle eccellenze per far vivere meglio il mondo. È necessario attrarre investimenti produttivi nel settore agroalimentare italiano per incrementare la capacità di assorbimento dell’Italian sounding, aumentare la consapevolezza dei consumatori stranieri sulla qualità del Made in Italy e comunicarlo con efficacia. Non solo, l’educazione del consumatore deve essere un aspetto fondamentale così come una concreta riduzione delle barriere tariffarie doganali o l’introduzione di meccanismi di disincentivazione alle indicazioni fallaci. Le aziende del settore Food&Beverage devono avere la possibilità di rafforzare la competitività internazionale, magari sostenute da ambasciatori del Made in Italy. Non ultima l’adozione di soluzioni che consentano la tracciabilità dei prodotti e avviare un processo di internazionalizzazione della filiera della distribuzione italiana”.
Ad ogni modo, il percorso sarà lungo e richiederà grandi investimenti e sforzi congiunti, anche al di fuori dell’ambito imprenditoriale.
Non solo Italian sounding: inflazione energetica e altri ostacoli
Ai danni dovuto all’Italian sounding, perdipiù, si aggiungono quelli che dipendono dalla cosiddetta inflazione energetica. Per quasi il 70% delle imprese del settore Food&Beverage, infatti, quest’ultimo problema è il più grave, in base alle indicazioni fornite da un campione di 500 aziende del settore. Al secondo posto della graduatoria degli impatti negativi troviamo l’aumento dei prezzi delle materie prime (49,9%), seguito dagli strascichi della pandemia Covid-19 (23,0%). All’ultimo posto i danni legati alla siccità (13,5% delle imprese), motivata anche dalla dipendenza delle imprese italiane da derrate acquistate all’estero. Anche in questa difficile congiuntura, tuttavia, 1 impresa su 3 ha dichiarato di aver mantenuto il proprio piano strategico.
Valerio De Molli, Managing Partner & CEO The European House – Ambrosetti, ha dichiarato che “l’indagine è la dimostrazione del ruolo sociale delle imprese alimentari in questo contesto di difficoltà anche del potere di acquisto dei cittadini. Da solo l’assorbimento dell’inflazione da parte degli operatori della filiera non è comunque sufficiente, in un quadro che vede i consumi alimentari fermi da oltre un decennio e con una flessione del 3,4% nell’ultimo anno dovuta al momento di crisi. L’Italia è il Paese in cui il salario medio annuale è cresciuto di meno negli ultimi 30 anni fra Stati Uniti, Paesi Bassi, Germania, Regno Unito, Francia e Spagna, e dal 2021 al 2022 i salari medi reali si sono ulteriormente ridotti del -3,1% contribuendo così a una sostanziale immobilità del potere d’acquisto”.
Proteggere e valorizzare la filiera italiana
In base a quanto rilevato dal rapporto presentato al forum di Bormio, l’intera filiera agroalimentare italiana contribuisce al 16,4% del Prodotto interno lordo nazionale. Nel 2022 la bilancia commerciale è tornata negativa, pendendo verso le importazioni con un saldo di -2 miliardi. Peraltro, le nostre produzioni soffrono di una esposizione internazionale su cui grava un deficit agricolo in continuo peggioramento, pari a -13,2 miliardi nel 2022. Questa dipendenza agricola dall’estero è costata all’Italia circa 100 miliardi Pil tra il 2010 e il 2022. Infine, tutto lascia prevedere un 2023 ancora difficile, considerando l’alluvione in Emilia-Romagna, calamità che ha evidenziato l’impatto della crisi climatica, anche nel breve periodo.
Come abbiamo visto, la lotta all’Italian sounding non può che essere un percorso lungo e complesso, che comporta diversi piani di azione e necessita di investimenti consistenti e protratti nel tempo. Viaggiando all’estero, vi è capitato di vedere imitazioni di prodotti italiani da ascrivere a questo fenomeno?
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