Il cibo è migrazione. Basti pensare a tutti quei prodotti che, dalle Americhe, hanno attraversato il vasto Oceano Atlantico, stipati nelle stive delle navi, e sono arrivati in Europa conquistando terre e palati, come l’ormai onnipresente pomodoro, paradossalmente diventato simbolo di italianità, la versatilissima patata, la zucca, il peperone, e l’elenco potrebbe continuare. Una rotta e un scambio di nuovi sapori che, però, a partire dall’800 si è invertita, per via di quei milioni di emigranti italiani che si sono riversati nelle città portuali statunitensi, con valigie cariche di vestiti, sogni e sementi, e hanno comprato casa e pezzetti di terra, di cui si sono presi cura. Lentamente, alberi, piante e varietà di colture mediterranee – dai carciofi agli agrumi, fino alla vite – hanno cominciato a radicarsi e a fiorire, nonostante il clima ostile e rigido, cambiando e modellando il profilo delle strade e dei quartieri.
Proprio per “mappare” questa sorta di orti urbani dal sapore tutto italiano e raccontare le storie delle famiglie che se ne prendono cura, l’italo-americana Mary Menniti ha dato avvio all’Italian Garden Project. Secondo Mary, infatti, è ancora possibile identificare i quartieri storicamente italiani dalla presenza, ad esempio, di alberi di fico sul retro. Come racconta in una bella intervista al magazine Atlas Obscura, “ho letteralmente camminato per Brooklyn guardando nei cortili, e posso dirlo: ‘Oh, c’è un fico in giardino e una Madonna. Questo è un giardino italo-americano’”.
Oggi, quindi, attraversiamo l’Oceano e torniamo indietro nel tempo, pronti a sfogliare vecchie fotografie in bianco e nero e ad andare a caccia delle memorie di una generazione che ha portato un pezzetto di Italia in America. Pronti per questo viaggio nel passato?
Mary Menniti, l’italo-americana che “salva” un patrimonio (quasi) dimenticato
Dal cognome è facile intuire le origini italiane di Mary. Suo nonno, infatti, di Caserta, faceva parte di una generazione di italiani che, soprattutto dall’Italia meridionale, si è imbarcata su grandi navi e ha cercato una nuova vita oltreoceano, nella speranza di un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. Ma in questo viaggio non erano soli: nascosti nelle valigie e nei bauli, infilati negli angoli delle barche, c’erano semi di quelli che sarebbero poi diventati cucuzza siciliana, carciofi, cardi, cicorie, vite e, soprattutto, fichi. Per questi migranti, coltivare orti nei fazzoletti di terra che avevano come giardino, oltre a essere un vero e proprio mezzo per sopravvivere e accedere a prodotti che altrimenti non avrebbero mai trovato, era un modo per rimanere collegati alle proprie radici. Michele Vaccaro, un immigrato calabrese a Pittsburgh negli anni ‘70, che Mary ha conosciuto, spiega “quando veniamo dall’Italia, portiamo l’Italia con noi. Non dimentichiamo mai da dove veniamo.”
Mary impara l’amore per il giardinaggio dal nonno. “Quando iniziavo a sembrare annoiata durante l’estate, mia madre mi mandava a lavorare in giardino con mio nonno. Mentre raccoglievo una zappa e colpivo in modo inefficace a terra, mio nonno rideva e diceva, ‘Se ci fosse una guerra, voi morireste di fame’. Quel ‘voi’ – lo sapevo – eravamo io, i miei fratelli e gli altri che erano i giovani degli anni ‘60 e ‘70. Lui aveva ragione. Rispetto a questo laborioso immigrato italiano dalla provincia di Caserta, la mia generazione era molto viziata”.
Come racconta, non appena ha avuto una casa tutta sua, ha cercato di far suoi gli insegnamenti del nonno nel suo giardino, ma poi, quando di nuovo si è trasferita in un’altra casa che, però, non era adatta a coltivare un orto, Mary si è ritrovata a trascorrere il tempo nei giardini delle altre persone. “La città di Sewickley, Pennsylvania, dove mi sono trasferita, ha una meravigliosa comunità italiana che ancora coltiva in modo tradizionale e, come mio nonno, la maggior parte di questa comunità sa molto di più sull’autosufficienza di chiunque altro abbia mai incontrato” racconta. A proposito di giardini, dice che i suoi preferiti “erano quelli che mi ricordavano la mia infanzia, con filari di pomodori e peperoni, fagioli polacchi e bietole, aglio e finocchio e, naturalmente, alberi di fico”.
Grazie a questa passione per l’orticoltura, alle memorie trasmesse dal nonno e alla conoscenza di altri italo-americani Mary ha dato avvio a quello che, oggi, è la grande iniziativa Italian Garden Project.
Italian Garden Project e l’archivio dei giardini-storie
Il progetto nasce da una – triste – consapevolezza: più Mary trascorre tempo nei giardini altrui, più si rende conto che saranno destinati a scomparire. “I giardinieri stanno invecchiando, e dato che gli immigrati italiani hanno sempre avuto una convinzione così forte nell’istruzione e insistono sul fatto che i loro figli concentrino le loro energie sulla scuola e sulla carriera, questo patrimonio non viene tramandato come lo era stato per generazioni”. Il rischio, dunque, è quello di perdere una fonte inesauribile di storie, saggezza, tradizioni e ricordi e, come spiega sul sito del progetto, ha iniziato a sentire l’urgenza di preservare questa conoscenza prima che sia troppo tardi.
Ed è così che Mary si mette all’opera. Negli ultimi dieci anni ha viaggiato in ogni angolo degli States. Lo scopo? Documentare questi giardini, raccogliere le testimonianze di chi li cura e delle loro storie, raccogliendoli in un grande archivio. I giardini che fotografa, tra vanghe, zappe e statuine religiose, sono pieni di cimeli mediterranei, molti dei quali contrabbandati generazioni fa in valigie: pomodori siciliani, dozzine di varietà di cicoria, cime di rapa e agrumi tipici del nostro Sud Italia. Ma soprattutto, come abbiamo anticipato, gli alberi di fichi, simbolo di questa emigrazione.
Troviamo quindi i racconti del giardino a Orangevale, in California, di Domenico Bellocci, nato a Mola di Bari, immigrato nel 1969, o quello di Maria Ottombrino, nata in provincia di Avellino e arrivata negli States nel ‘75, a Bensonhurst, Brooklyn. O ancora, la storia di Nick Ranieri che emigra a Flushing (Queens) sempre da Mola di Bari, negli anni ‘60, il cui primo pensiero andò agli alberi da frutto. Quando vide che alcuni vicini avevano degli alberi di cachi, pensò di prenderne uno anche lui, ma i frutti che dava l’albero americano non erano buoni. Quindi, perché non andare a prendere degli steli dall’albero di alcuni suoi compaesani, che avevano portato direttamente dall’Italia per innestarli nel suo? Ecco fatto, e il risultato è stato incredibile. Poco dopo fu la volta dei fichi, i cui semi, invece, “sono arrivati tutti in valigia” dall’Italia. E così via, di storie come queste l’archivio ne è pieno, con tanto di fotografie dove compaiono i volti di questi giardinieri-contadini dediti a un’arte antica.
Gli orti italo-americani come precursori dell’urban garden
Negli ultimi anni, si è assistito a un vero e proprio boom in tutto il mondo del fenomeno dell’urban gardening, ossia del “giardinaggio urbano”, dall’orto in balcone ai piccoli giardini, fino ad arrivare a veri e propri spazi cittadini pubblici dedicati dove chiunque può coltivare le proprie piante. Questa tendenza green in crescita è legata non solo alla voglia di un tocco di verde in più in mezzo al “grigio” della città, ma soprattutto all’esigenza di assicurarsi alimenti sani e nutrienti, di cui si conosce la provenienza: gli orti sono quindi dei veri propri mezzi di sussistenza sostenibili in grado di garantire anche migliori condizioni di salute.
Tra i precursori di questi moderni orti urbani, sicuramente i giardini italo-americani sono un esempio perfetto: fazzoletti di pochi metri quadrati, schiacciati dai grattacieli e ostacolati da un clima invernale rigidissimo, tutt’altro che mediterraneo, eppure così efficienti. “Questi giardini sono interessanti non solo dal punto di vista della produzione abbondante di ortaggi, frutta ed erbe aromatiche, ma anche da un punto di vista ambientale e di sostenibilità. I giardinieri italiani sono stati eco-friendly prima che qualcuno iniziasse a usare il termine. Barili per la pioggia, compostaggio, risparmio di semi: qualsiasi forma di conservazione delle risorse è sempre stata uno stile di vita per loro” racconta Mary. E infatti, i giardinieri-coltivatori hanno cercato di trarre i massimi benefici da quei terreni risicati facendo attenzione a non sprecare nulla. Quindi, producevano da sé il compost grazie agli scarti organici per la concimazione ed erano soliti raccogliere l’acqua piovana per riutilizzarla per l’irrigazione.
Riciclo, parsimonia e anche resilienza: per Mary, questi giardini sono la testimonianza della forza d’animo dei loro coltivatori, che per far fronte al clima e proteggere le piante dal freddo, le avvolgevano nella tela o addirittura le seppellivano sottoterra. Come nel caso degli alberi di fichi, simboli silenti di generazioni di italiani che hanno lasciato alle spalle la propria casa. E proprio a questi esemplari, Mary ha dedicato un festival che si tiene ogni anno nella sua città natale, in Pennsylvania. Ma per conservare la memoria dei giardini-storie di cui vi abbiamo parlato, oltre all’archivio dell’italian Garden Project, c’è un modo migliore, che permette di seguire le orme di questi italiani commercianti di sementi letteralmente da una parte all’altra del mondo. Sta nascendo l’idea di costruire una collezione di semi legati alla cultura italo-americana, con lo scopo di avviare uno scambio con i giardinieri-coltivatori di tutto il Paese.
E chissà che da questi, oltre che fiori, non nascano anche altre nuove, bellissime storie.