Le intolleranze e le sensibilità alimentari negli ultimi quarant’anni sono triplicate: oltre al glutine e al lattosio, infatti, sono molte le sostanze e i cibi che possono creare problemi all’organismo. Tra i sintomi più comuni ricordiamo mal di pancia, orticaria, emicrania e stanchezza, mentre la grande domanda di diagnostica spesso spinge le persone a ricorrere a test costosi ma non validati scientificamente. Cosa fare per mangiare senza dover rinunciare a troppi alimenti? E quali sono le cause di questo boom di intolleranze e sensibilità alimentari? Il professor Enzo Spisni, fisiologo della nutrizione dell’Università di Bologna, ci aiuta a orientarci e a comprendere cause e rimedi di queste condizioni sempre più diffuse.
Perché stiamo diventando più intolleranti?
Quando il corpo si ribella a certi ingredienti è importante seguire un percorso scientifico per affrontare il problema in modo mirato, per non incorrere in errori che potrebbero peggiorare la propria dieta e le condizioni del sistema digerente. Nel suo libro Siamo tutti intolleranti. Sensibilità alimentari e altre reazioni ai cibi: come riconoscerle e come affrontarle, Enzo Spisni propone una guida utile per chi deve convivere con intolleranze e sensibilità alimentari, ricostruendone le origini fisiologiche e ambientali. Responsabile del laboratorio di Fisiologia traslazionale e nutrizione all’Università di Bologna, Spisni da anni studia questi temi, oltre alle differenze tra grani antichi e moderni e alle reazioni che additivi e altri componenti utilizzati dall’industria alimentare possono causare.
Ma perché intolleranze e sensibilità al cibo sono sempre più diffuse? “Queste condizioni vanno inserite in un contesto più ampio, perché più precisamente sono in aumento tutti i disturbi gastrointestinali e una serie di patologie più o meno correlate con la salute dell’intestino. Questo accade perché molto probabilmente stiamo vivendo in un ambiente sempre più inquinato, in tante forme diverse, nonché sempre meno adatto alla nostra genetica e alla nostra fisiologia” – introduce il professore.
Cosa può rendere il cibo un problema?
“L’inquinamento e le contaminazioni alimentari” – prosegue Spisni – “sono in espansione e riguardano sostanze di varia origine: tra queste ci sono le microplastiche. Sappiamo che la plastica ha una durata estremamente lunga nell’ambiente e nel tempo i residui diventano sempre più piccoli, fino allo stato di micro e nano particelle, che facilmente arrivano a contaminare la catena alimentare: è una vera emergenza. Con uno studio che stiamo per pubblicare abbiamo analizzato gli effetti nocivi di questi residui sull’intestino. Purtroppo ognuno di noi li ingerisce attraverso cibi e bevande, come hanno confermato prelievi fecali che ho effettuato su studenti sani, dove tutti sono risultati contaminati”.
“Per quanto riguarda pesticidi, prodotti agrochimici, PFAS e altri inquinanti industriali o da trattamenti chimici, parliamo di sostanze che riescono ad alterare il sistema immunitario e il microbiota, e in alcuni casi anche il sistema endocrino. Sono molto diffusi nelle acque e nei terreni, fino a raggiungere i cibi”, precisa Spisni.
A questo, inoltre, “si aggiunge la chimica utilizzata negli alimenti industriali per creare un food design accattivante – additivi di varia tipologia – ma che produce cibi ultra processati ai quali non siamo evolutivamente adattati, che vanno contro la nostra fisiologia. Ma tra le cause a monte della diffusione di intolleranze e sensibilità alimentari c’è anche un’alimentazione di tipo occidentale sempre più lontana dalla dieta mediterranea e troppo ricca di cibi industrializzati. Un ambiente sempre più sterilizzato e lontano dal contatto con la natura e con gli animali, inoltre, ostacola i bambini nella costruzione di un microbiota intestinale ben strutturato, fondamentale per un sistema digerente in grado di affrontare e tollerare una varietà di cibi la più ampia possibile”.
Quindi, conclude Spisni, “si sommano ragioni differenti che possono rendere il cibo un problema più o meno grave, scatenando il sistema immunitario o l’apparato digerente. Se le allergie possono colpire la pelle, l’apparato respiratorio e tutto l’organismo, le intolleranze digestive riguardano esclusivamente l’intestino”.
L’attenzione agli inquinanti non è ancora sufficiente
Dal punto di vista normativo, secondo Spisni, “questi inquinanti non sono ancora trattati con sufficiente cautela e attenzione, per motivi diversi. Se parliamo di plastiche dobbiamo considerare un settore economico che va di pari passo con quello del petrolio, quindi se si stenta ad abbandonare i combustibili fossili, forse si fa ancor più fatica a uscire dall’era delle plastiche. Di questi materiali, peraltro, esistono differenti tipologie e non abbiamo un sistema in grado di misurare tutte le micro e nano particelle presenti in un alimento. Sappiamo ad esempio che il pesce è uno degli alimenti più contaminati, ma anche l’acqua in bottiglia di plastica può facilmente contenere questi residui. Quindi, per poter intervenire dobbiamo riuscire ad avere sistemi di misurazione precisi e riproducibili, e di conseguenza stabilire limiti nelle acque e nei cibi con normative specifiche, un fronte rispetto al quale la strada da fare è ancora molta”.
In merito ai pesticidi, aggiunge Spisni, “il problema è che tutti gli studi di tossicologia, e la normativa UE che da questi dipende, si basano sull’esposizione alla singola sostanza. Ognuno di noi, però, è esposto a miscele complicatissime di inquinanti. Gli studi di riferimento, inoltre, non prendono in considerazione la vita embrionale ma si rifanno sostanzialmente a un’esposizione adulta, ma noi siamo già esposti in utero a queste sostanze. Dal punto di vista normativo, quindi, c’è ancora tanto da fare e considerando le resistenze delle industrie non sarà facile operare. Ad ogni modo, le ricerche ci parlano anche di un preoccupante anticipo nella comparsa di tumori in età più giovani rispetto a quelle che conoscevamo in passato, per questo dobbiamo interrogarci sul nostro ambiente. Non si tratta di problemi dovuti alla nostra genetica, che è di fatto la stessa rispetto a quella dei nostri nonni. Nello spazio di 2-3 generazioni, invece, a cambiare drasticamente è stato lo spazio in cui viviamo e il modo in cui mangiamo, ai quali non siamo adattati e che possono farci stare male. Oltre alle reazioni avverse al cibo e alle conseguenze sul sistema digerente, sono svariati i problemi di salute legati all’ambiente”.
Intolleranze e sensibilità: un percorso di adattamento
Per chi accusa sintomi che possono far ipotizzare intolleranze e sensibilità alimentari, non è semplice orientarsi nel panorama della diagnostica. Spisni puntualizza che “le allergie e la celiachia sono le forme più conosciute, due problematiche completamente diverse ma che si riescono a diagnosticare con chiarezza; ma lo stesso non accade per le intolleranze e le sensibilità. Per queste ultime non possiamo nemmeno contare su strumenti efficaci, e quindi si procede per esclusione. Nel mio libro cerco di offrire conoscenze pratiche da applicare tutti i giorni per non subire passivamente questi problemi, ma per affrontarli in modo razionale, sempre con il supporto di uno specialista”.
Quando si ha a che fare con allergie o celiachia, prosegue Spisni, “l’unica strada è escludere dalla dieta gli alimenti incriminati, comprese le contaminazioni. In tutti gli altri casi però, che sono la maggioranza, possiamo invece cercare di abituare gradualmente l’intestino a soffrire meno la presenza di questi ingredienti, riducendo la nostra intolleranza o la nostra sensibilità”.
Quanto sono diffuse?
I limiti della diagnostica ostacolano anche le stime sull’incidenza di queste condizioni, tuttavia, “per la sensibilità al glutine sono stati condotti studi che affermano una prevalenza tra il 3% e il 6%”. Se, invece, sommiamo tutte le intolleranze e tutte le sensibilità, indicativamente possiamo arrivare a una o due persone su dieci nei Paesi sviluppati. Anche in questo caso la diffusione della diagnostica marca la differenza tra Stati più o meno evoluti. In ogni caso, possiamo dire che nel mondo queste condizioni sono ampiamente sottostimate e l’incidenza è in aumento. Molte persone, inoltre, gestiscono in autonomia il problema senza sottoporsi mai a una diagnosi: il 50% della popolazione italiana è geneticamente intollerante al lattosio senza saperlo. Sul piano della prevalenza, sicuramente glutine e lattosio sono le sostanze che più frequentemente danno problemi – ai quali si devono rispettivamente celiachia e ipolattasia – ma in futuro, a mio avviso, potremmo avere più consapevolezza sull’intolleranza alle caseine, in particolare a quelle dei latticini di mucca”.
Gli strumenti diagnostici non validati scientificamente sono da evitare
A complicare il quadro per chi accusa intolleranze e sensibilità alimentari è il proliferare di test non validati scientificamente. A questo proposito, Spisni ribadisce che “a fronte di una grande domanda di diagnosi, questa offerta non ha basi scientifiche perché i meccanismi di queste insorgenze non sono ancora precisamente conosciuti, pertanto i risultati producono moltissimi falsi negativi, che a loro volta inducono a seguire diete sempre più limitate, sbagliate e sbilanciate che peggiorano ulteriormente le condizioni dell’intestino. A proporre questi test sono grandi aziende, laboratori, farmacie e purtroppo anche medici e nutrizionisti. Si tratta di un business molto redditizio con margini di guadagno estremamente ampi”.
Se si manifestano delle reazioni violente al cibo, “per eseguire una diagnostica seria il consiglio è di rivolgersi a un allergologo, mentre se si accusano altre forme leggere con problematiche intestinali si può andare da un gastroenterologo, che può escludere la presenza di altre patologie, come ad esempio la gastrite o la sindrome dell’intestino irritabile. Prima di tutto, quindi, si possono seguire queste due strade, e una volta acquisita la certezza di non avere problemi di questo tipo l’unica cosa da fare è intraprendere un percorso con prove di esclusione e reintroduzione di alimenti o gruppi di alimenti, per arrivare a capire quali sono gli alimenti non tollerati. Ma all’interno di questo iter è importante arrivare a reintrodurre progressivamente quello che si è temporaneamente eliminato dalla dieta. L’intestino può essere rieducato a tollerare determinati alimenti seppure in quantità limitate; forse non si potrà arrivare a consumare dosi considerevoli del cibo in questione, ma si tratterà sempre di un miglioramento. Riuscire a reintrodurre quantità che si tollerano permette di condurre una vita normale, con una dieta complessivamente bilanciata”.