di Giuseppe Biscari (Peppe57). Si parla molto, forse troppo, di cucine regionali italiane. A mio avviso due sole regioni, la Sicilia ed il Veneto, possono vantare una ‘vera cucina’ nel senso di un repertorio completo, dall’antipasto al dolce, con caratteristiche proprie. E l’origine di questo privilegio è facilmente intuibile: entrambe le regioni possiedono un vasto bagaglio di storia legato ai numerosi rapporti con civiltà straniere, seppure per ragioni e motivazioni diverse. La Sicilia infatti, ha maturato la sua molteplice cultura attraverso invasioni e occupazioni dirette nel corso dei secoli, mentre la Serenissima – durante tutto il suo lungo periodo di splendore – ha importato e maturato le diverse esperienze in ragione dei suoi traffici commerciali con tutto il mondo. La cucina siciliana è strettamente collegata sia alle vicende storiche e culturali dell’isola, sia alla sua vita religiosa e spirituale. Si tratta infatti, di una cultura gastronomica regionale complessa ed articolata, che mostra tracce e contributi di tutte le culture che si sono stabilite in Sicilia negli ultimi due millenni. Difatti possiamo riscontrare segni che vanno dalle abitudini alimentari della Magna Grecia, dai dolci arabi, dall’utilizzo in cucina delle frattaglie proprio della tradizione ebraica per giungere alle tracce lasciate dai Normanni, dai Francesi e dagli Spagnoli: tutto questo contribuisce a rendere la cucina siciliana quella con il più vario e vasto repertorio di preparazioni gastronomiche. Cinque sono i periodi che indubbiamente hanno inciso sull’evoluzione della cucina siciliana: il Periodo Greco, il Periodo Arabo, il Periodo Normanno, il Periodo Spagnolo o Dei Vicerè, il Periodo Borbonico. Il Periodo Greco Bisogna risalire al 735 a.C. per trovare i primi insediamenti di Greci in terra siciliana. Diverse, come sappiamo, furono le novità che apportarono questi colonizzatori e, per restare in tema gastronomico, l’arte del fare il vino nasce proprio da loro, mantre la coltivazione dell’ulivo, la coltivazione e l’utilizzo del farro e di altri prodotti, peraltro già esistenti nell’isola, ricevettero una nuova impronta greca che condusse ad ottimi risultati. Il farro, ad esempio, prima dei Greci, in Sicilia veniva utilizzato solo per fare il pane, poi, venne utilizzato in tutt’altro modo. Infatti con la farina di farro, oltre a un ottimo pane, si ottennero tagliatelle molto saporite nonchè quella che è l’antenata della pasta frolla. Con il farro macinato grosso i Greci avevano creato ottime zuppe, mentre con il farro intero, unito alle fave, alle lenticchie, ai ceci, ed alle interiora, avevano creato la famosa ‘Fabata Puls’. Quest’ultimo piatto e le zuppe, essi introdussero anche nelle loro colonie in Sicilia. Questo, però, non può farci credere che quando i Greci colonizzarono la Sicilia, l’isola fosse abitata da popolazioni selvagge ed incivili. Sulle coste ioniche infatti, abitavano i Siculi, mentre in quelle tirreniche prosperavano i Sicani e gli Elimi. Queste antiche popolazioni avevano già eretto potenti e progredite città, dove, almeno da tre millenni si era sviluppata una cucina autoctona. L’incontro di queste due civiltà mediterranee arricchì tutte le arti, compresa quella culinaria e fece nascere il gusto per la buona cucina che – mantenendo i coloni Greci frequenti contatti con la madrepatria – fece sì che, più tardi, gli elaborati manicaretti provenienti dalle colonie trovassero grande accoglienza nella Grecia dove, a poco a poco, si sostituirono ai voluminosi arrosti narrati da Omero (e che costituivano una costante della cucina greca antica) ed alla ‘Maza’, la schiacciata con farina d’orzo. Ben presto i coloni eressero città che divennero più importanti delle stesse città della madrepatria ed è in quel periodo che la cucina e la pasticceria siciliana inizia ad essere apprezzata. Persino Platone, ospite del Tiranno di Siracusa, cita la cucina e, soprattutto, la pasticceria dell’isola quale migliore espressione dell’arte culinaria dell’epoca. Ed è in quel periodo che nasce il primo esempio di grande cuoco-artista conteso da ogni corte, il celebre Trimalcione. Accanto alla nuova cucina nacque anche la letteratura gastronomica. Primo in assoluto fu Epicuro Siracusano, seguì Miteco e poi – siamo tra gli inizi del V e del IV secolo a.C – Archestrato di Gela che nei suoi ‘Frammenti della gastronomia’, asserisce di avere visitato ogni terra ed ogni mare ma che in Sicilia ha trovato il buon gusto. L’opera tratta soprattutto del pesce, indicandone le varie specie ed il modo di cucinarle e la stagione più propizia per la pesca, ma anche tutti gli altri argomenti alimentari – validi ancor oggi – sulle caratteristiche di carni, ortaggi, salse e condimenti delle varie località dell’isola. L’opera è incentrata sul concetto di cucina naturale, schietta e genuina senza sofisticherie e che si avvale unicamente di olio d’oliva, sale e, all’occorrenza, di aceto ed erbe aromatiche. Accanto a questi antichi ricettari, troviamo gli antenati dei moderni libri della serie ‘curatevi con le erbe’: nacque così la dietetica di cui Acrome e Eutidemo furono i precursori. Il fatto che il banchetto fosse sentito come occasione principe per discussioni sui più svariati argomenti, sta alla base di tutta quella ricchissima letteratura detta ‘Del Convito e del Simposio’. A tale filone si lascia ricondurre anche la bizzarra opera di Ateneo (200 d.C.), i ‘Deipnosofisti’ (Il banchetto dei sofisti), che di dettagli gastronomici è una miniera incomparabile. Quest’opera infatti, è un vero e proprio vademecum sulla cucina: dalla lepre, al tonno, dai piselli alle anguille, dall’aragosta al pesce spada: insomma c’è di tutto. Ma torniamo ai buoni cibi ed alle abitudini alimentari del periodo greco-classico. In Sicilia le mense dei ricchi buongustai erano sontuose e le vivande, variate e saporite, erano accompagnate da squisiti vini prodotti nell’isola, ma anche da birra e da idromele una bevanda alcolica composta da miele diluito in acqua e fatta fermentare col calore del sole. I pasti dei Greci, in età storica, erano tre al giorno: uno leggero al mattino, detto Ariston, ed altri due più consistenti, il Defeion a metà del giorno, ed il Dorpon, a fine giornata. Ogni banchetto iniziava con il rito dell’offerta di ringraziamento agli dei: il padrone di casa, dopo essersi purificato le mani con acqua, gettava sul braciere pugni d’orzo, sangue e ciuffi di pelo di un vitello già sacrificato versandovi sopra del vino. Terminata questa funzione propiziatoria, i servi ponevano accanto ad ogni commensale un recipiente con il pane ed una coppa per bere il vino liquoroso allungato con acqua, quindi iniziavano a servire le vivande. Questo accadeva anche in quelle riunioni conviviali in cui un gruppo di amici e le loro famiglie si riunivano in casa di uno di loro per mangiare portando ciascuno, in un canestro, cibi già cotti ed il vino. Questi simpatici simposi erano, appunto, detti ‘Pranzi del Paniere’, ed è da questo canestro di vimini, la ‘Spyris’ o ‘Spynis’ che deriva il termine siciliano ‘spinnagghie’ che indica – appunto – le vivande portate in dono agli amici o ai parenti per essere consumate insieme. I menu dei greci erano vari. Generalmente composti da minestre, da pesce, da carne, da uova, da legumi, da formaggio fresco e stagionato e, dulcis in fundo, dai dolci a base di miele, di noci, di latte e di farina e dalle Focacce Attiche a forma piramidale, tuttora rinvenibili in qualche pasticceria greca ed antesignane dei moderni panzerotti (che, però, sono di forma semisferica). I dolci venivano serviti assieme a ricchi vassoi di frutta al termine di ogni pasto o durante il simposio che era la parte più importante e gaia del banchetto, quando il vino scorreva a fiumi ed i convitati, allegri per le libagioni, cantavano gli Skolìa, brevi e briosi versi simili ai ditirambi. Le città della Magna Grecia che godevano di maggior reputazione per la loro sontuosità intrinseca, ma anche per la sontuosità delle tavole imbandite (a volte anche eccessiva) furono Siracusa, Crotone e Sibari ed è proprio dai cittadini di quest’ultima città che è nato il vocabolo Sibarita, usato ancora oggi nell’accezione di persona amante della vita piacevole e del buon cibo. è questo, indubbiamente, un periodo particolarmente incisivo sulla cucina siciliana, in cui i colonizzatori introdussero in Sicilia la cottura delle carni alla griglia ed al forno l’uso di aromi quali l’aglio, l’origano, l’utilizzo nei condimenti delle olive. Risalgono al periodo greco condimenti come ‘l’agghiata’ , che ancora oggi si prepara per accompagnare carni e pesce arrosto, o il ‘ricuonzu’ (una sorta di antica maionese), salsa a base di uova, formaggio di capra ed olio d’oliva, a cui in seguito si aggiunse anche il prezzemolo e destinata ad accompagnare le carni e la pasta di farro; condimento questo che ancora oggi in certe zone dell’entroterra siciliano condisce la pasta, ma anche le verdure cotte. Quando ai greci si sostituirono le dominazioni romana, prima, e bizantina, dopo, si registrò – almeno dal punto di vista gastronomico – un lungo periodo di decadenza. Subito dopo, iniziò un grande periodo di splendore: la dominazione araba. Il Periodo Arabo Il primo sbarco di Musulmani d’Africa, chiamati da un ricco comandante siciliano, Eutimo o Eufemio, che si era ribellato all’imperatore Costantino, avvenne nell’anno 827 in quella zona di costa siciliana che gli stessi Arabi chiamarono Mars Allah (Porto di Dio) e che sarebbe diventata l’odierna Marsala. Ma è nel 965 d.C. che gli Arabi divengono veri e propri padroni dell’Isola. Anche loro, come i Greci, apportarono numerose novità nel campo delle scienze, delle tecniche di coltivazione, nell’arte e – di conseguenza – anche nella cucina. Sono infatti, gli Arabi ad introdurre in Sicilia la coltivazione degli agrumi, arance, limoni, mandarini, la coltivazione della canna da zucchero, il riso, il gelsomino, il cotone, l’anice, il sesamo, la cannella e lo zafferano. è così che in una splendida collaborazione gastronomica tra arabi e siciliani, nasce una sorta di cucina arabo-sicula la cui influenza si estende a tutto il bacino occidentale del Mediterraneo. Sono innumerevoli le ricette che arricchirono in quel tempo il patrimonio gastronomico siciliano e si può affermare che la cucina siciliana sopravanzava di alcuni secoli, già nell’anno 1g000, tutte le altre cucine europee. In Sicilia esiste già la pasta e molte sono le ricette con i vermicelli (antesignani degli spaghetti) conditi con pesce o con verdure. è alla dominazione araba che si devono piatti a base di riso giunti sino ai giorni nostri (ovviamente con le ulteriori influenze ed arricchimenti) quali il timballo di riso cotto all’epoca in forni a campana di terracotta, ma anche piatti come la ‘frascatula’ (farinata) con le verdure o con i ceci o il ‘cuturru’, una sorta di polenta a base di grano schiacciato grossolanamente, cotto in acqua bollente e condito con olio e finocchietto selvatico. Tra i vari piatti, ancor oggi in uso, non è possibile non citare il ‘cuscusu’ versione isolana del famoso cous cous arabo. Ma a questi ‘invasori’ si devono altre gustose pietanze tipiche di quel cibo da strada che caratterizza buona parte della cucina siciliana quali, prime fra tutte, le panelle, i ceci essiccati e ‘u pani c’a meusa’ (il pane con la milza) di cui, ancora oggi, i palermitani sono ghiottissimi. Gli Arabi inoltre furono abilissimi pasticceri sicchè la pasticceria siciliana divenne all’epoca grandissima e si arricchì di dolci quali la ‘cubaita’ (dall’arabo Qubbayt), un dolcissimo superbo croccante a base di miele, semi di sesamo e mandorle; i ‘Nucatuli’ (dal termine arabo Nugat o Nagal, che indica le noci, ma anche le mandorle ed in genere la frutta secca), che sono biscotti ripieni di frutta secca e confettura in genere di fichi; la ‘Cupita’ o – meglio – ‘Copata’, anche questo un torrone confezionato in grossi pani ed a base di nocciole, albume d’uovo, zucchero, miele ed amido (in dialetto detto comunemente Turruni Jancu dove jancu sta per bianco). Sempre agli arabi dobbiamo la Cassata ed il sorbetto preparato allora quasi come oggi e, quindi, già molto più raffinato rispetto alle bevande ghiacciate all’epoca in uso in tutta Europa. Amanti delle essenze, crearono dolci profumati alla frutta, alla cannella e, perfino agli odori dei fiori. Con il gelsomino, per esempio, crearono un nuovo gelato, che si confeziona ancora oggi a Trapani con lo stesso nome arabo: ‘Scursunera’. A loro si devono anche i canditi che rivestono un ruolo fondamentale anche nelle moderne preparazioni di pasticceria. Inventarono i geli (budini) di melone, di mosto, di cannella, di mandorle, di gelsomino; crearono storte ed alambicchi per la distillazione di grappe che – tuttavia in ossequio ai dettami del Corano – usavano solo come disinfettante delle ferite. Ma quella era anche l’era degli Harem. Ci sono molte leggende al riguardo, tra cui quella dell’invenzione del cannolo di cui si narra che furono proprio le donne di Caltanissetta, ospiti dell’Harem Kalt El Nissah (ossia Castello delle donne) ad inventare il famoso dolce siciliano. Sembra quindi che l’odierno cannolo siciliano abbia avuto origini arabe, anche se, nei secoli, ha subito diversi rifacimenti. Il suo antenato, infatti, sembra essere stato un dolce a forma di banana ripieno di mandorle e zucchero. Tuttavia non si può non riferire una citazione di Cicerone in merito ad un dolce gustato in Sicilia. Egli narrava di un ‘Tubulus farinarius, dulcissimo edulio, ex lacte factus’, ossia un tubulo (cannolo) farinaceo (di pasta) fatto col latte per un dolcissimo cibo. Per quanto intensa, la dominazione araba lasciò ben presto, dopo poco più di cento anni, il posto ai Normanni. Gli arabi infatti, furono definitivamente sconfitti da Ruggero II d’Altavilla nella battaglia di Cerami nel 1063. Il Periodo Normanno-Svevo ed Angioino I Normanni erano una popolazione d’origine scandinava, proveniente dalla Normandia, di indole marinara e guerriera. A loro si deve, oltre alla costruzione di enormi cattedrali, l’introduzione nella cucina dell’isola del pesce seccato quali le aringhe affumicate ed i merluzzi secchi e salati al sole (‘u piscistoccu’ e il Baccalà), ma anche il metodo, ancora adesso utilizzato, di salatura e conservazione delle acciughe. Metodo questo, già in parte praticato, ma con modalità diverse, in epoca romana. I Normanni inoltre, introdussero la cottura delle carni allo spiedo rotante. Ruggero II d’Altavilla, divenuto re nell’anno 1130 regnò sulla Sicilia fino alla sua morte, avvenuta nel 1154. La sua fama fu superata solo da Federico II di Svevia. Questo grande sovrano, oltre ad aver dato impulso all’Università, oltre ad aver creato un innovativo (per l’epoca) sistema tributario, è passato alla storia per essere stato un sovrano accorto ed illuminato. Egli, tra l’altro, compose un trattato sulla caccia con il falco. Cacciatore egli stesso e conoscitore della buona tavola, ebbe al suo servizio, numerosi cuochi. Si sviluppò quindi, nelle cucine siciliane, una grande conoscenza delle tecniche per la miglior cottura della selvaggina che completava così il già vasto repertorio delle preparazioni gastronomiche siciliane. Durante il regno di Federico II la cucina siciliana si arricchì di numerose pietanze a base di selvaggina e cacciagione di cui, però, non ci sono tracce. Va notato tuttavia, che durante tale periodo, sia i Normanni, sia gli Svevi non apportarono sostanziali modifiche ai costumi culinari siciliani, mentre si adattarono perfettamente ad essi. Sembra però, databile a questo periodo la nascita di alcune specialità della rosticceria siciliana, primi fra tutte gli arancini di riso (che all’epoca erano impastate solo con uova formaggio e carni non essendo ancora conosciuto il pomodoro) e quelle che ora sono le cosiddette pizzette siciliane in dialetto (pizzicieddi abbuttunati), che nient’altro sono che dei piccoli panzerotti di pasta con vari ripieni, ma che all’epoca erano ripieni solo di acciughe salate e formaggi. Agli Svevi si sostituì nel 1268 la dominazione francese (Angioina) con Carlo d’Angiò. Si aprì così un periodo particolarmente fecondo per la cucina siciliana che si arricchì di nuove pietanze tipiche della cucina francese (non ancora arricchita dai cuochi di Caterina De’ Medici). Sono riconducibili a questo periodo pietanze quali il rollò di carne (dal francese Roullè), una larga fetta di carne imbottita ed arrotolata su se stessa; si afferma anche ‘u purpittuni, grossa polpetta di carni impastate con uova ed aromi generalmente ripieno d’uova e formaggio. Sempre in questo periodo il burro e lo strutto cominciano a fare la loro comparsa nella cucina siciliana sia come condimenti, sia come grassi di cottura. Con il Vespro del 30 marzo 1282, i Siciliani si ribellarono al sistema feudale angioino chiedendo l’aiuto di Pietro III d’Aragona che corse in aiuto dei palermitani che rischiavano di soccombere ai francesi. Con la pace di Caltabellotta, nel 1302, i francesi lasciarono definitivamente l’isola in cui si istaura la dominazione spagnolo-aragonese. Il Periodo Spagnolo o Dei Vicerè Quando nel 1440 Ferdinando di Castiglia divenne re di Aragona e di Castiglia, la Sicilia passa definitivamente sotto la dominazione spagnola che durerà circa trecento anni, periodo in cui la cucina siciliana risente di aggiustamenti e variazioni legati alle tradizioni gastronomiche del paese dominante ritrovandovi, tuttavia, molte esperienze della cucina araba per le influenze di questa anche sulle abitudini alimentari spagnole. Da un puro punto di vista strettamente culinario si può sintetizzare questo periodo come lo sforzo di sorprendere il commensale per la magnificenza delle presentazioni delle varie pietanze in un’esaltazione di barocchismo alimentare. In questo periodo si consolidò la cucina dei nobili: si affermò ‘u Farsumagru’ (il rollò del periodo angioino) che il popolo imbottiva, con frittate e verdure, ed i nobili con carni pregiate. Grazie agli spagnoli la cucina siciliana conobbe l’evoluzione della cassata araba dal momento che i nuovi dominatori ne importano un ingrediente base: il Pan di Spagna. Sempre durante questo periodo, e dopo la scoperta dell’America giunsero dal nuovo mondo prodotti quali il cacao, il mais, il peperoncino, la patata, i fagioli, il tacchino, i peperoni e – soprattutto – il pomodoro che diverrà protagonista assoluto della cucina siciliana tanto da modificare l’alimentazione in tutta l’isola senza soluzione di continuità fino ad oggi. Ed ancora, sempre grazie agli spagnoli, furono introdotte le preparazioni in agrodolce non solo di carne o pesce (già note soprattutto in epoca bizantina, specialmente nel messinese), ma anche di verdure ed ortaggi, prima fra tutte la zucca. Nuovo impulso ebbero tutti quei prodotti da forno quali le varie ”mpanate’ (rielaborazioni delle spagnole empanadas), pasta ripiena di carni o di verdure poi cotte in forno, ma nuovo impulso ebbero pure le altre preparazioni da forno già note in epoca greca, che furono rielaborate con nuovi condimenti: la scacciata catanese, i pastizza e le scacce modicane o ragusane, nient’altro sono che rielaborazioni arricchite delle antiche focacce di pane tipiche della sobria cucina greca. Quindi in epoca spagnola si assiste ad un profondo rinnovamento della cucina siciliana arricchita non solo dai nuovi prodotti, ma anche dal gusto barocco tipico degli spagnoli, i quali mettevano lo stesso impegno nell’ornare sia le magnifiche chiese ed i palazzi nobiliari, sia le preparazioni culinarie. Ci si può rendere conto, quindi, come una pietanza si completa nel corso dei secoli, attraverso l’apporto di nuovi elementi. La melanzana, per esempio, arrivò sulle tavole siciliane dall’India solo nel 1600, mentre il sedano, sebbene molto conosciuto fin dall’antichità (serviva, infatti, ad intrecciare serti per i cittadini più meritevoli), raramente veniva utilizzato in cucina, così come altri ingredienti. La Caponata di melanzane, per esempio, è l’espressione più tipica di quella legge gastronomica in base alla quale i piatti partono da una base semplice e, a seconda della disponibilità di ingredienti, si arricchiscono di sapori supplementari anche grazie alla fantasia di chi li cucina. In origine, la Caponata, sebbene composta da verdure, è un piatto marinaresco, nato nella Caupona (termine tardo latino che designava la taverna degli angiporti frequentata dai marinai) dalla quale la pietanza ha derivato il suo nome ed era sostanzialmente una galletta inzuppata in un brodo di verdure e condita con olio, aceto, capperi, olive ed acciughe. Non somigliava affatto quindi, alla pietanza che conosciamo oggi. Ciò si spiega benissimo con il fatto che la varietà di ingredienti (perchè non ancora conosciuti) di cui disponevano gli antichi era decisamente più povera di quella di oggi. La dominazione spagnola arriva fino al 1713, anno in cui inizia la dominazione Borbonica. Il Periodo Borbonico Pur non essendo di lunga durata, questo periodo consente alla grande cucina siciliana un altro guizzo trasformativo inserendo nel repertorio piatti di cucina francese rapidamente adattati alle esigenze locali che, in alcuni casi, contribuiscono ad ingentilire piatti considerati piuttosto grevi. è il periodo in cui le pietanze vengono reinventate dai ‘monsù’, cuochi francesi giunti al seguito dei Borboni e subito adottati dalla nobiltà locale. Le pietanze già esistenti vengono rielaborate, arricchite di sapori, colori ed odori, fanno la loro comparsa nella cucina siciliana salse che vanno ad ingentilire quei piatti che per i loro intrinseci condimenti erano considerati grevi. Un viaggio nell’immenso bagaglio di ricette della cucina siciliana, quindi, è una sorta di navigazione nel corso dei secoli attraverso un patrimonio alimentare unico in Italia. La Sicilia è un’isola grande e piena di sole che insaporisce ogni cosa: dal grano alle arance, dai fichi d’India ai capperi, dalle olive all’uva. Una terra, particolarmente fertile e ricca di prodotti, con una cucina di tradizione sia agricola, sia marinara che le ingerenze dei popoli che nella storia si sono succeduti in questa terra, hanno contribuito ad arricchire di nuovi gusti. Quale altra cucina può vantare altrettanto?