Il 18 gennaio, a Bologna, il presidente di Unaproa ha presentato il marchio “5 colori del benessere” che certifica la provenienza, la qualità e la tracciabilità dei prodotti ortofrutticoli. Per ottenere questo marchio, i produttori devono dimostrare di essere conformi a una serie di requisiti relativi e cinque aree: prodotto, ambiente, rintracciabilità, etica, organizzazione. Detta così sembra una di quelle notizie in cui si capisce poco, per addetti ai lavori, che poco incidono sulla nostra vita quotidiana. E invece è un fatto che può influenzare concretamente le nostre scelte di consumatori, offrendoci un’arma molto seria per una maggiore consapevolezza di quanto acquistiamo. E siccome il giornale del cibo si batte per i consumatori, perché non siano ingannati da pubblicità interessate e fuorvianti, oltre che spesso cretine, poiché si batte perché i consumatori possano davvero fidarsi di ciò che comprano, abbiamo ritenuto che era il caso di dare a questa notizia l’importanza che merita.
L’approccio seguito da Unaproa nasce da lontano, da molto lontano. Addirittura dalla gestione di processi e prodotti delicatissimi, di altissima tecnologia e di valore strategico nazionale: l’esplorazione spaziale, la costruzione di centrali nucleari o di impianti industriali centrali per la difesa o le forniture energetiche di un Paese.Ma che c’entrano i cavolfiori e le pere con l’esplorazione spaziale?
Le aziende industriali comprano materie prime e vendono prodotti. Spesso i prodotti di un’industria sono materie prime per altre. Consideriamo per esempio le automobili. La casa automobilistica acquista i sedili da un’altra fabbrica. Questa, a sua volta compra tessuti, tubi di ferro, ingranaggi, ecc. con cui farà i sedili da altre fabbriche che, a loro volta, avranno comprato filati tessili, ferro, vernici da altre ancora. Dietro ogni prodotto industriale c’è una catena di passaggi attraverso cui si arriva al prodotto destinato al consumatore.
Un tempo ogni settore industriale faceva analisi e controlli su ciò che acquistava. Così lungo tutta la catena, c’erano molti controlli, sia contabili che materiali sui prodotti. Le aziende controllavano sia quello che entrava come materia prima che quello che usciva come prodotto finito, cosicché ogni cosa, di fatto, era controllato due volte. A prima vista può apparire una garanzia ulteriore di qualità (a parte i costi) ma in realtà questo modo di procedere presentava varie difficoltà e incongruenze: i risultati dei controlli spesso non coincidevano, nascevano contestazioni fra laboratori e aziende, non c’era un’autorità esterna di riferimento che potesse decidere chi avesse ragione, eccetera. Inoltre alcuni controlli, nella catena, non erano fatti o erano fatti in maniera approssimativa, creando situazioni per cui, alla fine, non si sapeva mai bene come stavano le cose. Finché si trattava di tessuti per sedili per auto, come nel nostro esempio, le conseguenze non erano molto serie, ma c’erano settori nei quali non era assolutamente immaginabile fare errori. Vi immaginate che significa la garanzia di qualità per un qualsiasi pezzo di uno Shuttle? O di un sottomarino nucleare o di una nave da crociera che ospiterà migliaia di passeggeri? Qui occorre essere davvero sicuri che tutto ciò che si usa sia stato fatto come Dio comanda da aziende che lavorano come si deve.
Negli anni ’60, negli Stati Uniti, pensando al campo astronautico, aerospaziale, nucleare, militare, sanitario, si pensò a un’organizzazione complessiva di controllo completamente diversa e più affidabile, che non presentasse rischi di errori o dimenticanze e non costringesse tutti gli anelli della catena a ripetere controlli già effettuati, concentrandosi sul rispetto assoluto di procedure certe. Si creò così un sistema di garanzia della qualità, riferito non solo alla qualità materiale dei prodotti ma a tutte le procedure effettuate per gestire le produzioni, gli imballaggi, le spedizioni, la contabilizzazione, insomma a tutta la catena cui il prodotto era soggetto nella sua vita. Ogni azienda della catena doveva avere un sistema che garantisse l’acquirente successivo per evitargli di ripetere i controlli. Ma siccome… nisciun’è fesso (neanche in America), per evitare che le aziende bluffassero e che tutto si traducesse in carta e non in controlli effettivi, furono creati organismi di controllo indipendenti che da una parte definissero i criteri cui ogni azienda si doveva attenere e dall’altra, periodicamente, con e senza preavviso, controllassero le stesse per verificare l’applicazione di quei criteri. Se l’azienda veniva promossa ai controlli, riceveva un marchio di qualità che ne attestava l’affidabilità per tutto il resto del mercato. Una semplificazione collettiva che dava maggiori garanzie a tutti.
Con il tempo questo tipo di mentalità si è affinato ed esteso ad altri campi: dal controllo della qualità dei materiali, si è passati ai metodi di produzione, alla gestione complessiva della filiera produttiva, all’organizzazione, al rispetto di principi etici, al rispetto dell’ambiente e oggi è davvero difficile che una grande azienda acquisti qualcosa senza pretendere una certificazione di qualità garantita da un organismo indipendente. E veniamo ai prodotti ortofrutticoli e a noi poveri consumatori individuali. Un tempo, tanti anni fa, chi andava al mercato conosceva personalmente il fruttivendolo, il contadino che gli vendeva le pere o l’olio d’oliva o le melanzane. Ne conosceva personalmente l’affidabilità basandosi sulla propria esperienza e questa fiducia era alla base del rapporto commerciale. Ma ora che compriamo al supermercato da commessi che nulla sanno dei prodotti che hanno sui banconi, noi consumatori come facciamo a fidarci? Con tutte le cronache di truffe, contraffazioni, frodi, alterazioni, prodotti coltivati su campi inquinati, che leggiamo ogni giorno sui giornali? Come facciamo a stare tranquilli?
Qui è intervenuta l’idea di Unaproa, che raccoglie 149 organizzazioni di produttori agricolioperanti in tutte le regioni italiane, di istituire un marchio di qualità da apporre ai prodotti ortofrutticoli. Il marchio “5 colori del benessere” certifica e garantisce non solo la provenienza, la qualità e la tracciabilità dei prodotti ma anche l’etica e l’organizzazione seguita dalle aziende produttrici. Il marchio, quello famoso dei cinque colori, viene rilasciato alle aziende che soddisfano parametri di qualità molto ben definiti. Una società di certificazione indipendente, la CSQA, garantisce che i requisiti stabiliti siano effettivamente osservati. CSQA, costituita ed accreditata secondo criteri stabiliti dalle leggi, si avvale di laboratori a loro volta accreditati da Enti che ne verificano l’idoneità delle prestazioni (in Italia è il Sinal un Istituto che ha il patrocinio del Ministero delle Attività Produttive, del CNR, dell’ENEA e delle Camere di Commercio).
In conclusione, comprare prodotti con questo marchio equivale a compiere di persona tutta una serie di controlli sulle aziende che prima di noi hanno messo le mani sui prodotti. Un sistema concreto per aiutare il consumatore a scegliere secondo criteri di qualità e non solo per se stesso ma anche per l’ambiente nel quale vengono coltivati gli alimenti. Ambiente nel quale ci troviamo a vivere tutti noi.
Dimenticavo… e se qualche azienda non rispetta i requisiti di conformità richiesti? Se qualche controllo senza preavviso oltre alle due ispezioni annuali programmate le trova inadempienti? Le sanzioni (eh sì, perché norme senza sanzioni sono del tutto inefficaci) possono arrivare a far perdere alla stessa il diritto di apporre il marchio sui suoi prodotti. A quel punto essere considerati “non conformi” diventa una obiettiva difficoltà a restare sul mercato, dove si troverà a competere con altre aziende “conformi”.