Giornale del cibo

Il cibo come resistenza del reale al virtuale

L’anno scorso su Il Giornale del Cibo ho scritto sulla “carica dei ristorantini”. Dicevo che da alcuni anni nel centro della città dove vivo chiudono negozi di abbigliamento, di oggettistica, di antiquariato, librerie, gallerie…Le botteghe più vecchie amano andarsene esponendo in vetrina un orgoglioso cartello: “fuori tutto, chiudiamo dopo settanta anni” e a compensare aprono però nuovi ristorantini, bar, lounge, locali da smart food, che sono una esplosione di fantasia e novità: nella proposta alimentare, nell’arredo, nel servizio. Tuttavia, mi chiedevo: resisteranno alla prova della sostenibilità economica? Sono attività “rifugio” per tanti giovani disoccupati, e quindi destinate a redditi marginali e all’autosfruttamento di chi le ha messe in piedi, oppure hanno un reale spazio di mercato? Ciò che è certo è che il cibo resiste.

L’abitudine a mangiare fuori casa

condividere il cibo

In Italia abbiamo 440 imprese di ristorazione e bar ogni 100.000 abitanti, contro 239 in Francia, 198 in Germania e 181 in Gran Bretagna. È uno squilibrio destinato a ridursi perché cominceranno a chiudere attività in Italia oppure perché aumenteranno quelle in Francia, in Germania e in Gran Bretagna? O lo squilibrio è solo apparente perché nel Belpaese c’è più turismo? Da quel che ho letto e visto nell’ultimo anno non pare stiano calando le imprese di ristorazione in Italia; lo squilibrio si sta riducendo perché aumentano negli altri paesi. La grande crescita economica dell’Europa in questi ultimi due anni (e la piccola crescita in Italia) aiuta numeri che sembravano già destinati a brillare. Non ho ancora numeri adeguati per dimostrare che questo stia realmente accadendo ma spero presto di averli e di poterli discutere con voi.

Il cibo resiste, quindi e, anzi, l’abitudine a mangiare fuori casa si sviluppa. E lo fa nonostante l’attacco del food delivery, delle app per il cibo a domicilio, o di tante altre forme di condivisione, o di home restaurant. Ha resistito alla crisi economica, resiste alle innovazioni. Insomma: le persone continuano a mangiar fuori.

Perché?

Mangiare fuori come forma di socialità

Il mangiar fuori casa ha a che fare con la socialità, e con desideri molto profondi. Il “libro dei libri” del pubblico esercizio, ovvero “Andare a pranzo fuori” della sociologa Joanne Finkelstein che ho recensito tempo fa, ce ne dà la migliore interpretazione. Il ristorante moderno è un diorama del desiderio (il diorama, dice Umberto Eco, mira a rappresentare un surrogato della realtà, anzi qualcosa di persino più reale) ed è una scena pubblica della quale abbiamo bisogno per mostrarci. La pratica del mangiar fuori è una forma di socialità prima che una necessità o un piacere legato al cibo. Ci piace invitare gli amici a cena in casa nostra, ma spesso preferiamo uscire e non solo perché è più comodo (non dobbiamo cucinare e lavare i piatti) ma perché abbiamo, più o meno consapevolmente, bisogno di una scena pubblica, abbiamo bisogno di guardare e di essere guardati. E guardare ed essere guardati mentre si mangia offre un piacere sottile che va oltre il gusto di ciò che stiamo masticando.

Il cibo resiste, ovvero, la resistenza del reale

Io chiamo tutto questo: la resistenza del reale. Di fronte alla riduzione al virtuale di molti sentimenti (la socialità) alla dematerializzazione (giornali, enciclopedie, oggetti) al cambiamento dei comportamenti di acquisto (sviluppo del commercio elettronico e fuga dai negozi) il cibo resiste. Il cibo e la convivialità che esso ispira e pretende. Il rito del mangiar fuori è una linea di resistenza della realtà materiale, così attaccata da ogni lato dalla realtà virtuale; il cibo è cultura viva ma corporale e a esso ricorriamo sempre più spesso quando vogliamo sentire ancora reale la nostra umanità. Quando la linea di resistenza del cibo sarà abbattuta il dominio del virtuale sarà completo. Sarà un bel giorno?

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