“I brasiliani usano le loro terre per produrre la soia che viene ingurgitata dai maiali industrializzati che la Cina ha importato dagli Stati Uniti. I cinesi usano le loro campagne per produrre il concentrato di pomodoro che verrà esportato in Africa o servirà da base al ketchup negli hamburger che i fast food come McDonald’s vendono in tutto l’occidente”. I paradossi e le contraddizioni dell’attuale industria agroalimentare mondiale sono in questo breve schema, che Stefano Liberti traccia al termine del suo libro I signori del cibo, inchiesta e reportage planetario dal sapore amaro e inquietante.
La domanda che pervade questo interessante documento, scritto dopo due intensi anni di viaggi per il mondo da un giornalista già autore di dossier sul tema, è questa: assodato che globalizzazione e finanza hanno impregnato l’industria alimentare, quanto veramente sappiamo di questi meccanismi?
Stefano Liberti: un sistema da cambiare
I prodotti chiave del mercato del cibo
Per denunciare i vizi del sistema alimentare globale, Liberti si è servito di quattro prodotti: carne di maiale, soia, tonno in scatola e pomodoro concentrato. Seguendo la filiera di commercializzazione di questi cibi, andando nei luoghi di più abbondante produzione, intervistando manager e lavoratori sottopagati, ha puntato i riflettori sulla degenerazione del sistema: produrre cibi uguali in tutto il pianeta, confezionati dove il costo è minore e commercializzati da pochi, grandi colossi. I signori del cibo, per l’appunto.
Così Liberti spiega la sua scelta: “La carne più consumata al mondo, il legume che registra la crescita più elevata, il secondo prodotto del mare più commercializzato (dopo i gamberetti) il frutto più diffuso sul pianeta. Elementi fondanti della dieta di gran parte della popolazione mondiale. L’obiettivo del libro è fotografare una tendenza e dare conto di un fenomeno, ma anche lanciare un monito. Perché l’attuale sistema alimentare globalizzato non è sostenibile. Le risorse disponibili sul pianeta non sono sufficienti. È necessario riflettere sull’assurdità di filiere lunghe decine di migliaia di chilometri e di cibo venduto a costi infimi”.
Le aziende locusta
A dominare gli scambi commerciali di questi prodotti, al centro di un sistema basato sullo sfruttamento estremo di uomini e risorse, ci sono imprese senza scrupoli: quelle che Stefano Liberti chiama aziende-locusta. Sono gruppi che producono al minor costo possibile e senza preoccuparsi delle conseguenze sull’ambiente, sugli animali, sui lavoratori. E ovviamente, su ciò che arriva sulla nostra tavola. Arrivano in un luogo, lo sfruttano fino all’osso, vanno via. Come locuste, per l’appunto. “Un sistema – dice l’autore de I signori del cibo – che elimina le differenze regionali e porta alla creazione di cibi uguali in tutto il pianeta, confezionati là dove minore è il costo di produzione.
Nei sogni delle aziende-locusta c’è un mondo in cui la campagna è una grande fabbrica di alimenti trasportati ovunque da un commercio senza barriere. C’è l’idea di città piene di consumatori, nutriti con alimenti provenienti dall’altro capo del mondo”. L’esatto contrario di un mondo basato sul cosiddetto chilometro zero è alla base di questo sistema, in cui giochi di potere e finanza si intrecciano inesorabilmente.
I maiali cinesi e la soia brasiliana
Cina e Brasile. Da due mondi così lontani, geograficamente e culturalmente, arrivano gli esempi migliori di quel che è diventata l’industria alimentare: le filiere del maiale e della soia. L’enorme mattatoio di Shuanghui spiega forse da solo il livello raggiunto da questo sistema, e Liberti lo descrive nel suo libro: stabulari di proprietà di pochi grandi gruppi, mega allevamenti di maiali spesso importati, sterminati impianti di macellazione e trasformazione della carne. Per sfamare questi 700 milioni di capi a chi si rivolge la Cina? Al Brasile.
Al Mato Grosso, per la precisione, una un tempo incontaminata zona oggi dominata da una sola coltura: la soia. Milioni di ettari per tonnellate di soia ogm che vengono spedite in Estremo Oriente, là dove fino a 15 anni fa quasi non c’erano importazioni, e men che meno di soia. Oggi, invece, il 67% del commercio planetario di questo prodotto viaggia sulla rotta Brasile-Cina. La catena carne-soia, ovviamente, è controllata da pochi grandi colossi: come Cargill, la più grande azienda privata degli Stati Uniti.
Dal Ghana al ghetto di Foggia
E poi c’è il pomodoro, un altro esempio di alienazione di un prodotto della terra e dei lavoratori che lo raccolgono. Una volta nel Ghana se ne producevano grandi quantità. Oggi tutto questo non esiste più perché il sistema industriale moderno ha annientato le produzioni, costringendo così i raccoglitori ghanesi, perlopiù giovani, a emigrare. Stefano Liberti li ha incontrati in Italia, Paese che compare così nel libro: nel ghetto di Foggia, ribattezzato Ghana House, raccolgono pomodori in condizioni non dignitose e con salari da fame.
Anche in questo caso, scrive l’autore, “una rappresentazione perfetta delle perversioni e delle contraddizioni del sistema alimentare globalizzato”: i lavoratori ghanesi vengono in Italia a raccogliere i pomodori che poi finiranno nel loro paese, dove loro e i loro padri un tempo li producevano
Gli esempi virtuosi di Stefano Liberti contro i signori del cibo
Poche ma buone. Ci sono anche realtà non inquinate, in mezzo a questo sistema all’insegna dell’avidità e dell’arricchimento (di pochi). Nella filiera del tonno, per esempio. A San Diego, California, oltre ai tre grandi gruppi che dominano la scena mondiale – l’italiana Bolton alimentari, i thailandesi di Thai union e i coreani di Dongwong -, sopravvivono sei famiglie di pescatori che continuano a lavorare come una volta: all’insegna del rispetto per l’ambiente e del lavoratore e senza usare mezzi distruttivi.
Secondo Liberti “è assurdo che un tonno pescato nell’Oceano Pacifico venga congelato, bollito due o tre volte e fatto viaggiare su un aereo fino all’altro capo del pianeta per finire in una scatoletta che viene venduta a meno di un dollaro”, per questo i pescatori resistenti vengono da lui definiti pionieri: espressione non di un mondo superato, ma della voglia di cambiare.
È un sistema che purtroppo ritroviamo spesso nei supermercati del nostro territorio e nelle nostre tavole. Un sistema fatto di sfruttamento senza scrupoli di terra e lavoratori, spesso taciuto perché avviene in terre lontane. Ma la moderna schiavitù è di casa anche in Italia. Fenomeni come il caporalato, per esempio, stanno venendo alla luce e hanno provocato la creazione di una legge ad hoc. Il tempo dirà se gli strumenti legislativi e gli inviti agli acquisti consapevoli avranno dato gli esiti sperati.
E voi, cosa fate per rendere il vostro consumo più responsabile? Vi siete mai rivolti, ad esempio, alle associazioni di consumatori? Qualche tempo fa abbiamo fatto il punto sugli sportelli virtuali che aiutano il cittadino a difendersi da sofisticazioni, truffe, false informazioni in etichetta. Tutto quel che serve per essere più consapevoli di ciò che si mette in tavola.