De gustibus non est disputandum, dicevano i latini. Ovvero: dei gusti non si discute, perché ciascuno ha i propri ed essendo soggettivi vanno accettati come tali, senza metterli in dubbio. In dubbio forse no, ma sotto la lente – oggettiva – della scienza, sì. Capire come mai preferiamo alcuni sapori rispetto ad altri può infatti aiutare a comprendere meglio, e a prevenire, alcuni disturbi del comportamento alimentare come l’obesità infantile, e lo sviluppo di patologie legate alla dieta e al metabolismo, come il diabete. La domanda da porsi, allora, è: gusto e DNA sono correlati? La risposta? Sì e no.
I fattori che determinano il gusto: DNA, ambiente e cultura
Nel 1931 il chimico Arthur Fox sparse accidentalmente nell’aria un po’ di polvere di feniltiocarbammide (PTC), una sostanza con cui stava lavorando. Il suo collega di laboratorio, presente in quel momento, commentò che la polvere aveva un gusto amaro, cosa che stupì decisamente Fox il quale, invece, non riusciva a sentire nulla. Incuriositi da questa casualità, i due decisero di condurre un esperimento tra i loro conoscenti per verificare chi, e in che misura, fosse in grado di rilevare il sapore del feniltiocarbammide. La loro indagine confermò quanto avevano avuto modo di testare da soli, ovvero l’esistenza di un’ampia differenza di percezione tra i vari soggetti coinvolti, scoperta che aprì la strada agli studi scientifici in materia di genetica del gusto. Oggi sono molteplici le ricerche che hanno verificato la teoria espressa da Fox, ampliando notevolmente la nostra conoscenza del senso del gusto e del suo funzionamento che è determinato in particolare da: DNA, ambiente e cultura.
Gusto e DNA: il ruolo della genetica
Come avviene la percezione di un sapore? E perché alcuni ci piacciono più di altri? Questione di biologia e di DNA, almeno in parte. Qualche tempo fa abbiamo visto come alcuni di noi siano in grado di decifrare il gusto del grasso: chiaramente questo non avviene solo per l’oleogusto, ma anche per gli altri cinque, ovvero umami, salato, dolce, aspro e amaro. Il nostro corpo, e l’apparato orale in particolare, è infatti progettato per identificare i diversi sapori: una capacità che ha una precisa funzione evolutiva dal momento che riuscire a distinguere, ad esempio, il sapore acre tipico delle tossine vegetali ha aiutato l’uomo a tenersi alla larga da sostanze potenzialmente pericolose per la sua sopravvivenza.
Si tratta, quindi, di un equipaggiamento fondamentale, che deriva soprattutto da alcuni recettori presenti nella bocca. Sulla superficie della lingua si trovano infatti numerosi “marcatori” di gusto, in quantità e con funzionamenti diversi a seconda del sapore che devono rilevare e trasmettere al cervello. L’esistenza di queste cellule (dette TRCs, ovvero taste receptor cells) dipende dalla codifica genetica del nostro DNA in cui geni specifici danno luogo a recettori specifici. Ad esempio, per il gusto amaro, ad oggi uno dei più studiati proprio per il suo ruolo nella catena evolutiva dell’uomo, sono stati individuati 25 geni responsabili, chiamati T2Rs o TAS2Rs. Poiché il DNA è, volendo semplificare, frutto della combinazione di geni paterni e materni, è possibile affermare che la presenza di TRCs in ciascuno di noi dipende dal patrimonio genetico ed è, pertanto, ereditaria. La prova di questa tesi viene, tra gli altri, dalle ricerche della professoressa Jane Wardle che qualche anno fa, all’epoca della sua cattedra presso la University College of London, intervistò alcune centinaia di gemelli eterozigoti (con DNA differente) e omozigoti (con lo stesso DNA) rilevando come nel 40% dei casi i gemelli con medesimo DNA mostrassero le stesse preferenze in fatto di cibo.
Le variazioni genetiche causano quindi variazioni fisiche ed è per questo che le persone sentono i sapori in modo anche molto diverso tra loro. Ricordate il PTC di Fox? Ecco, recenti studi scientifici hanno addirittura definito diversi gradi di sensibilità al suo gusto amaro (quello che, storicamente, ci avvisa se un alimento è dannoso) tipico di verdure come i broccoli e altre brassicacee, raggruppando così gli individui in:
- Non-tasters: coloro che non riescono a decifrare questo sapore;
- Medium tasters: quelli che lo percepiscono;
- Supertasters: quelli che hanno un numero di recettori per questo gusto tale da essere ipersensibili al suo sapore, considerato pertanto molto sgradevole.
Nel 1994, quando la ricerca era stata condotta, era risultato che il 75% della popolazione caucasica rientrava nei medium tasters, mentre il 25% apparteneva al primo gruppo.
Finora abbiamo quindi parlato di gusto, inteso come senso deputato alla distinzione di diverse sostanze con un preciso scopo evolutivo e alimentare. Diverso, però, è il caso del gusto come gradimento: per questa definizione entrano in gioco altri due fattori determinanti, l’ambiente e la cultura.
Gli altri fattori che influenzano il gusto: ambiente e cultura
Considerati, fino a poco tempo fa – e a buon diritto – come gli unici fattori in grado di determinare l’alimentazione di una persona, ambiente e cultura sono oggi rimessi in discussione quali unici autori delle preferenze nutrizionali. E, tuttavia, non possono essere trascurati nella risposta al quesito sulla relazione tra gusto e DNA. Sono loro, infatti, gli ingredienti che definiscono, in ultima istanza, il nostro menù. L’ambiente geofisico in cui cresciamo, unitamente alla cultura del cibo a cui siamo esposti, a casa come fuori, influenza la nostra dieta, nel bene o nel male: è per questo che paesi vicini e morfologicamente simili, possono sviluppare convenzioni e abitudini alimentari anche molto distanti tra loro. Ed è per questo che l’educazione a un’alimentazione sana, o meno, può comunque condizionare, in un senso o nell’altro, la naturale propensione verso certi cibi. Tornando all’esempio di prima, quindi, essere consapevoli dei benefici delle crucifere può portare alcune persone a mangiarle ugualmente, anche se non sono propriamente fan del loro sapore.
Ma se è così, perché allora proseguire nell’indagine genetica? Cosa importa sapere se i gusti sono ereditari, quando la nutrizione può essere veicolata da elementi esterni?
[elementor-template id='142071']Ereditarietà dei gusti: le conseguenze per la salute
Per quanto si possa cercare di condizionare il consumo di cibo attraverso l’educazione e la razionalizzazione, rimane però il fatto che il gusto è anche piacere e soddisfazione sensoriale, quindi chiunque di noi tenderà sempre a privilegiare un certo di tipo di alimentazione a scapito di un’altra. Ad esempio, così come la percezione del gusto amaro, che comporta la gradevolezza o meno di certa frutta e verdura e di bevande come il caffè, anche quella del dolce può variare da persona a persona. Il risultato è che alcuni propendono verso l’assunzione di un maggior quantitativo di sostanze dolci, ad elevato contenuto calorico e grasso, mentre altri meno. Le conseguenze per la salute dell’uno e dell’altro tipo sono abbastanza evidenti: più alta probabilità di sviluppare carie e disturbi legati all’alimentazione e più elevato rischio di contrarre malattie correlate a una dieta poco sana.
Identificare uno schema biologico comune diventa quindi estremamente importante quando si tratta di individuare le cause alla base di specifiche alterazioni comportamentali o organiche, oggi in aumento in tutto il mondo. Ecco perché gli studi in questa direzione, come quelli condotti dalla nutrigenetica, disciplina piuttosto recente nel panorama delle scienze alimentari, sono sempre più necessari.
Ripartendo dal punto iniziale, è così spiegato il motivo per cui alla domanda “gusto e DNA sono correlati?”, la risposta non può che essere: sì e no. Volendo tradurre tutto questo in due semplici frasi potremmo dire che: è vero che se vi piacciono i dolci è perché avete ereditato la caratteristica fisica che sottende alla loro percezione dai vostri genitori; ma non è necessariamente vero che se ne mangiate molti è perché a loro piacciono: potreste essere semplicemente cresciuti in un ambiente in cui i dolci erano estremamente facili da reperire, magari perché numerosi e a basso costo, e quindi siete particolarmente “allenati” all’ingestione di alimenti zuccherini. Questione diversa è, invece, quella contraria, ovvero non se i gusti dipendano dal DNA, ma quanto il DNA è influenzato, durante la gravidanza, dall’alimentazione materna. Di questa relazione e delle sue implicazioni si occupa, in particolare, la nutrigenomica, ma questo è un capitolo a parte.
E voi, avete mai notato affinità nel modo di mangiare tra voi e gli altri componenti della vostra famiglia?